quanto andrai a leggere non è opera della mia mano e nemmeno della mia fantasia.
Io non sono uno scrittore. Mi definisco più un cercatore di storie con lo stesso metodo e obiettivo dei cercatori d’oro di fine Ottocento, che giravano per terre inesplorate del Far West setacciando tutte le acque nella speranza di trovare frammenti d’oro nella ghiaia: nello stesso identico modo, io giro per tutto il Lago di Como, a volte anche immergendomi in quelle acque, per trovare storie che svelino i fatti più interessanti e inaspettati di questi luoghi. È un lavoro duro, ma la soddisfazione è sempre grande, al di là dei guadagni e degli apprezzamenti.
È un’attività che ho cominciato proprio con questa storia, quando mi capitò tra le mani per puro caso, e se dico “puro caso”, intendo dire proprio che non era nei miei piani che succedesse.
Ecco come andarono le cose.
Mi capitò un giorno – per purissimo caso, ribadisco – di dovermi recare alla Biblioteca Comunale di Como, alla ricerca di qualche libro che mi toccava leggere come compito a casa per una professoressa di letteratura italiana a dir poco pretenziosa. Insisteva infatti che leggessimo tre libri per le vacanze pasquali e dovevamo farlo tutti su una versione cartacea, invece che ebook e altre versioni digitali, ragion per cui mi affidai alla biblioteca. Non mi andava di spendere soldi per libri che ero già sicuro che non mi sarebbero piaciuti e che non avrei voluto tenere.
Quel giorno, non avevo proprio nulla da fare. Era l’inizio delle vacanze pasquali, un giovedì, giorno in cui la gente in giro era piuttosto scarsa per le strade della città, tranne che nelle zone intorno alle mura di Como, dove si teneva il mercato. La Biblioteca, invece, era collocata dentro alle mura. Non c’era dunque ragione di avere fretta e quindi mi presi il mio tempo per concedermi una focaccia appena sfornata dal panificio lì vicino e un succo in bottiglia, e andare in biblioteca con calma, facendo la strada lunga per le vie dei negozi.
Appena arrivato alla mia destinazione, ero veramente l’unico. C’erano appena le bibliotecarie, piegate con le loro schiene dietro al bancone a immettere dati su dati – chissà di cosa poi – nei vecchi computer grossi come forni a microonde, senza notare nemmeno la mia presenza. Io non mi disturbai neppure a interromperle e cercai da solo i tre libri.
Ormai non ricordo più i loro titoli. Però, ricordo bene che, proprio dietro a uno di questi, in fondo all’anta, nascosto dalla schiera di libri, mi accorsi che c’era qualcosa che non sembrava un’asse di legno dello scaffale. La cosa mi incuriosì, perché riuscivo a leggere qualcosa su esso e sembrava strano che un libro fosse stato messo lì in quella maniera.
Se non fosse stato per tutto il tempo libero che avevo quel giorno, probabilmente avrei lasciato perdere. Invece, quel giorno, andò così: dopo essermi accertato che nessuna delle bibliotecarie stesse guardando, mi affrettai ad allungare il braccio fino al fondo dello scaffale, per vedere se c’era modo di estrarre quella cosa; la mano riconobbe un voluminoso ammasso di pagine ruvide, incastrato in uno spazio largo abbastanza per infilarci le dita, ma scarso per estrarlo senza difficoltà. Dovevo fare lentamente per evitare di danneggiarlo, tenendo le mani lungo ai bordi dei fogli in modo da proteggerli dagli impatti contro le pareti dello scaffale o i libri che lo riempivano. Menomale che le mie braccia erano magre abbastanza per entrare in quello spazio e uscirne con quell’oggetto in mano, che altro non era che un manoscritto composto da un centinaio di pagine, tutte scritte a mano su fogli da appunti di color giallo chiaro. Guardai per prima cosa sulle facciate della prima e dell’ultima pagina per vedere se magari era un documento registrato in biblioteca. Non lo era, non c’era il bollettino con il numero del catalogo e nemmeno il timbro.
La prima pagina aveva solo quattro parole scritte in un corsivo molto stilizzato: “E fu per sempre”.
Stavo per sfogliare la prima pagina, quando mi chiamò una delle bibliotecarie per chiedermi se avessi bisogno di aiuto e questo mi fece tornare a pensare ai libri per i quali ero lì. Avevo ancora il desiderio di leggere quel manoscritto e questo bastò per non rimetterlo a posto, così lo misi nel mio zaino prima che qualcuno lo vedesse.
Fu un peccato quando, una volta tornato a casa un’ora dopo, svuotai lo zaino e misi tutto a caso nello scaffale in camera mia. Mi dimenticai completamente del manoscritto, perché dovevo prepararmi per il primo di molti pranzi che avrei avuto durante le mie vacanze di Pasqua.
Trascorsi un’intera settimana a godermi il mio tempo libero, facendo molti pasti con i miei amici e godendomi il parco divertimenti, che era stato installato per celebrare gli ultimi giorni della Quaresima.
Il giorno prima del rientro a scuola, colto dalla necessità di riordinare il materiale scolastico, impilai tutti i miei vecchi appunti sparsi nello scaffale della mia camera e li spostai in quello del soggiorno per avere più spazio libero. Per ironia della sorte, tra i molti fogli che ammucchiai, finì anche il manoscritto.
Dunque, quell’ammasso di carta gialla rimase a prendere polvere nell’anta più alta della libreria a casa mia, completamente dimenticato, un po’ a causa di vari impegni personali, un po’ a causa del mio scarso interesse.
Il caso tornò a bussare alla mia porta due anni dopo. Infatti, solo quando finalmente avevo finito i miei studi per la maturità mi si presentò l’occasione di riprenderlo in mano. Sembrava proprio che il caso volesse quello: farmi trovare quelle pagine in tempo perché non venissero buttato via da una delle bibliotecarie e farmele ritrovare al momento giusto, quando avevo molto tempo libero a mia disposizione, prima di cominciare l’università.
Non poteva capitare condizione più favorevole di quella.
Quando, un giorno, svuotai la libreria dai miei vecchi libri del liceo per rivenderli, mentre estraevo da due enciclopedie il mio vecchio dizionario di latino, mi cadde direttamente addosso il manoscritto, di cui mi ero ormai dimenticato l’esistenza. A quel punto, mi venne in mente come ne fossi venuto in possesso e, all’idea che fosse rimasto a casa mia per tutto quel tempo, mi venne da ridere. Lo aprii per la prima volta, e cominciai a leggere.
Già al primo paragrafo, mi scontrai con uno stile sgraziato che mi fece autentico ribrezzo. Lasciando da parte la calligrafia da gallina, che a malapena lasciava intendere quali fossero le vocali e quali le consonanti, il modo in cui venivano raccontati i fatti era a dir poco squallido. Immediatamente, pensai che dietro a quelle parole doveva nascondersi un adolescente che non possedeva alcuna esperienza con la scrittura, se non al massimo con qualche fan fiction. Con questa idea nella testa, ero pronto a scommettere che nel secondo paragrafo si sarebbe parlato di sentimenti e boiate varie, buone solo per giovani disagiati, ed ero addirittura pronto a scagliare quel coso contro il muro nella speranza che si polverizzasse sul colpo. La cosa però non accadde: al contrario, già a metà della prima pagina, superato lo sconcerto iniziale, lessi la premessa che apriva la trama e la trovai molto buffa. Al buffo, seguì la nostalgia dei tempi delle medie e così, inaspettatamente, mi ritrovai seduto con quelle carte sulle ginocchia a chiedermi: “Chissà dove andrà a parare?”
Il contenuto riuscì a farmi perdonare la forma e ad arrivare fino all’ultima pagina.
Lo lessi tutto in un giorno, tirando fino a notte fonda. Ma quando finalmente arrivai all’ultima pagina, la mia testa era piena di domande.
La prima domanda che mi feci era se potevo davvero credere che, quanto fosse scritto in quelle pagine, fosse successo veramente: la storia era ambientata a Como, c’erano molti dettagli riguardo a luoghi veramente esistenti in cui erano capitate quelle avventure; ma non c’era scritto molto riguardo al tempo in cui erano accadute. Erano riportati tutti i giorni della settimana con i numeri del mese, ma non c’era uno straccio di indizio sull’anno. Nel corso della trama, venivano citati nomi di artisti, film, canzoni ed eventi che erano usciti o avvenuti nell’arco dei vent’anni precedenti: allora ho pensato che forse il manoscritto non fosse così vecchio come pareva.
I nomi dei personaggi non sono riuscito a trovarli da nessuna parte, né su Internet, né sulle pagine gialle, né su altri registri. Seppure l’autore non avesse lasciato note o avvertimenti a riguardo, poteva anche essere che fossero stati cambiati tutti per nascondere ogni identità.
Per non parlare di certi buchi della trama che mi hanno fatto storcere il naso, parti piuttosto inutili e, di nuovo, lo stile spesso incapace di descrivere in maniera soddisfacente alcuni passaggi o alcune scene.
Di fatto, ammetto che si tratta di un libro imperfetto… eppure, sin dalla prima lettura, ho voluto comunque credere che fosse vero, perché mi ero affezionato tanto ai protagonisti di questa storia, Claudio e Valeria. Mi emozionava anche l’idea che le loro avventure fossero ambientate a Como – dove allora vivevo – ed è proprio grazie a loro se ho recuperato fiducia nella mia città: ho imparato a guardarla sotto un punto di vista nuovo, accompagnato dalle loro parole e dalle vicende che hanno vissuto.
Dopo quella prima lettura, ne seguirono tante altre che mi tennero impegnato per più di tre anni, passati a cercare di capire quanto di vero ci fosse in quelle pagine. Fu proprio perseguendo questo obiettivo che mi venne l’idea di provare a pubblicarlo, modo tale che venisse a galla la verità.
Confido che, un giorno, qualcuno verrà a dirmi di aver conosciuto quei due ragazzi e magari mi racconterà altro sulla loro atipica storia. Ma anche se non dovesse capitare, potrei sempre vantarmi di avere consegnato al mondo una storia mai vista prima.
Mi ci sono voluti tanta pazienza e ingegno per riuscire anche solo a decifrare la difficile calligrafia con cui erano state tracciate quelle parole d’inchiostro, rispettando anche al massimo delle mie capacità il fragile materiale cartaceo che il tempo e l’umidità comasca avevano indebolito, al punto da averlo privato degli angoli delle pagine. A partire dalla nona lettura, ho cominciato ad usare addirittura i guanti, modo tale da non lasciare ditate sulle pagine, e lavoravo anche su due piani separati: uno – a volte un tavolo, a volte il mio letto o il divano – dove tenere quel dilavato e graffiato pacco di pagine e l’altro il computer. In questo modo, potevo dedicare lo spazio giusto per ognuna delle attività di lettura e trascrizione.
È stata una grande fatica, anche a causa dei forti dubbi riguardo all’esito di questo progetto: ci sarebbe stato qualcuno con il coraggio di leggerlo? Sarebbe stato apprezzato? Avrebbe suscitato le stesse emozioni che ho avuto io? Sono stato più volte sul punto di lasciar perdere, ma l’affetto che provavo nei confronti di Claudio e Valeria era divenuto così immenso che ormai non mi interessava più se fossero veri o immaginari. La loro storia è una delle letture più emozionanti della mia vita e volevo renderle omaggio nel modo più giusto, offrendola al mondo, cosicché potesse aspirare all’eternità e regalasse emozione e ispirazione, come ha fatto a me.
Credo che non esista ragione più vera per raccontare una storia del “perché è bella”, esattamente come – personalmente – penso lo sia questa che stai per leggere. “Bello” non è solo ciò che gratifica i sensi, ma anche ciò che apre la via a nuovi pensieri nella mente di chi legge.
Poi, in quanto Comasco, mi sentivo in dover di far venire alla luce questo libro, anche per ricordare che Como è una città piena di sorprese che meritano di essere scoperte e io, ormai, ne sono diventato un cercatore appassionato. Sin da quando ho intrapreso questa impresa, ho scoperto il piacere di cercare altre storie accadute in questa trascurata città, modo tale da restituirle la sua meritata gloria, come anche a tutti i luoghi lariani.
Questo è il mio primo contributo e, se ti piacerà, sarò lieto di proporti tutti gli altri tesori che sono riuscito a scovare e anche quelli del futuro. Questa ormai è la mia vita.
Da adesso in poi, io taccio e lascio che sia la storia a parlare.
Buona lettura.
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