A tutti quelli che hanno mai pensato che la carriera fosse una strada in discesa, solo per scoprire che era una montagna russa. A chi ha fatto colloqui in cui il miglior risultato è stato un “le faremo sapere” che non è mai arrivato. A chi ha accettato contratti a tempo determinato con la speranza che “forse questa volta è quella giusta”, per poi scoprire che “forse” è solo un sinonimo di “no, non è il caso”. A chi, di fronte a una promozione, ha deciso di lasciare tutto per dedicarsi alla famiglia, solo per scoprire che trovare un equilibrio tra carriera e figli è come cercare di camminare su una corda tesa senza rete di sicurezza. A chi ha riso nervosamente durante riunioni che sembravano non finire mai, e a chi ha sperato che il computer esplodesse prima di ammettere di non aver capito nulla di ciò che stava facendo. A chi, in fondo, sa che l’unico modo per sopravvivere a questo circo chiamato “lavoro” è ridere di tutto, soprattutto di noi stessi. Questo libro è per voi, perché, alla fine, non siamo poi così diversi.
Quello che troverete tra queste pagine non è una storia di successi brillanti o di scalate aziendali spettacolari, ma piuttosto una serie di disavventure, sorprese e situazioni talmente assurde che, se non le avessi vissute personalmente, faticherei a crederci. E come affrontarle? Ridendo, ovviamente! Questo libro è il racconto di come ho navigato, tra alti e bassi, tra colloqui che ti fanno sentire il migliore del mondo e offerte di lavoro che ti lasciano con il sorriso forzato. È una cronaca di chi ha provato a fare carriera, ma ha dovuto fare i conti con la realtà di un mercato del lavoro che cambia più velocemente dei contratti che ti propongono. Ma, soprattutto, è una storia che vi farà ridere di quanto sia “normale” sentirsi smarriti, spaesati, eppure, ogni volta, pronti a rialzarsi.E poi, la sorpresa finale! La destinazione di questo viaggio? È completamente inaspettata!
Non vi dirò dove arriveremo, ma posso assicurarvi che ogni passo, ogni disavventura, vi condurrà verso una meta che nessuno si aspetta. Il percorso sarà tortuoso, certo, ma pieno di colpi di scena, risate e riflessioni che non vi lasceranno indifferenti.
1 “COSA VUOI FARE DA GRANDE?
Hai circa 5-6 anni e tutto inizia da quella domanda semplice e diretta posta dallo zio, dalla maestra o da un tuo compagno di scuola:
“Cosa vuoi fare da grande?”
La domanda che sembra innocente, ma che in realtà ti mette sotto pressione come se stessi compilando un modulo per diventare presidente della Repubblica. E lì, con gli occhi pieni di speranze e le mani sporche di cioccolata, ti prepari a lanciare la risposta che ti renderà celebre in tutto il quartiere. “Voglio fare l’astronauta!” urla il piccolo Tommaso. “Voglio fare il veterinario!” dice Sara convinta, mentre Francesco si immagina poliziotto. Ecco, queste risposte sono tutte quelle di chi, da bambino, pensa che il futuro sia una specie di parco giochi dove tutto è possibile. Ma poi arriva la realtà. La vita, che ti risponde con un bel “Ah, davvero? Parliamo quando avrai finito la scuola e trovato il lavoro”. A un certo punto, infatti, quelle stesse risposte vengono messe da parte, come quando si tolgono i giocattoli dal letto per fare spazio alla montagna di compiti.E sì, ci sono sempre quelli che davvero inseguono il loro sogno. Li vedi, quelli che, contro ogni previsione, diventano astronauti, veterinari o cantanti. Quelli che, nonostante i 10 anni di studi e le infinite difficoltà, mantengono la loro passione accesa come una piccola lampada nella tempesta della vita. Ma per ogni sogno che prende forma, ce n’è un altro che svanisce nel nulla, come una bolla di sapone. Non tutti diventeranno astronauti, cantanti, dottori. Molto spesso si trova una “soluzione” più pratica. Anch’io da bambina, avevo un sogno: scrivere. Un dono che anche a scuola, mi veniva in qualche modo riconosciuto. Se c’era una gara di “tema più lungo e dettagliato”, io ero la Regina indiscussa. La mia penna scivolava sulla carta come se fosse una danza sincronizzata. I temi erano il mio regno, il mio palcoscenico, la mia occasione per brillare. E lo facevo con una facilità incredibile: bastava un foglio, un po’ di ispirazione e il gioco era fatto. Poi però c’era l’orale…il grande nemico. Il terrore, la bestia nera. Lì, ogni parola che cercavo di dire sembrava trasformarsi in un incubo. Il cuore iniziava a battere come un tamburo, le mani sudavano, e la mia lingua, che nei temi era aggraziata come quella di Shakespeare, diventava un groviglio di parole senza senso. Se mi chiedevano di spiegare una regola grammaticale, mi sembrava di essere intrappolata in un labirinto senza uscita. “Eh… sì, la… la grammatica!” balbettavo, con un sorriso che diceva “Spero che questo finisca presto!” Avevo sette anni e una visione imprenditoriale che manco Steve Jobs. Altro che Barbie o biglie: io, nel cortile della scuola elementare, avevo messo in piedi una redazione giornalistica artigianale. Scrivevo articoli, disegnavo vignette, coloravo a mano con una palette di 12 pastelli. Impaginavo con cura… e poi, con la sicurezza di un editore navigato, vendevo i miei giornaletti a 100 lire. Un affare d’oro. Il mio pubblico? I bambini della scuola. La mia sede? Il cortile, accanto all’altalena.
Ero fiera. Orgogliosa.
Vedevo il futuro: una casa editrice tutta mia, un ufficio con vista, la penna sempre in mano… Poi arrivò lei. La maestra.
Un giorno, durante la ricreazione, con il mio banchetto di giornaletti che attirava più bambini di un distributore di caramelle, sentii un’ombra calare su di me.
Alzai lo sguardo. Eccola. Braccia conserte, sopracciglio sollevato, sguardo da CSI: Elementari.
“Mi puoi spiegare che stai facendo?”
“Sto vendendo giornali, maestra.”
“Con soldi veri?”
“Sì… 100 lire.”
Silenzio drammatico.
Lei, visibilmente sconvolta dal mio spirito capitalistico precoce, mi disse con tono grave:
“Questa non è un’attività autorizzata. Qui non siamo al mercato!”
E io, con l’innocenza di chi non ha ancora capito le complessità del fisco, dovetti subire che la mia fiorente attività editoriale fosse brutalmente chiusa. Nessuna liquidazione. Niente buonuscita. Solo una lavata di capo e l’obbligo di restituire le 100 lire ai miei lettori. Come tutte le passioni giovanili, la scrittura aveva un’origine ben precisa: il diario di Anna Frank. Mi aveva colpito profondamente, non tanto la sua storia tragica, ma la sua capacità di scrivere con una maturità che non avevo mai visto in una ragazza della sua età. E così, in un impeto di romanticismo e un po’ di presunzione, avevo deciso che avrei scritto anche io il mio diario, e che, un giorno, avrei conquistato il mondo con le mie parole. Peccato che, mentre lei parlava di Hitler e rifugi, io ero più impegnata a raccontare come mia madre mi avesse proibito di mangiare il gelato prima di cena. Ovviamente, come tutti i sogni da bambina, questo venne accolto con l’entusiasmo di chi non ha ancora capito che la vita è un po’ più complessa di così. Ogni volta che scrivevo, mi sentivo un po’ una scrittrice in incognito, a metà tra una piccola Anna Frank e una versione povera di J.K. Rowling. Ma la realtà, si sa, è impietosa, e così venni presa in giro. “Ah, scrivi un altro diario? Così diventi famosa e vinci il Nobel, eh?” mi dicevano. E io, con la faccia più seria di una poetessa in crisi, rispondevo: “Non è per la fama, è per lasciare qualcosa di importante per il futuro!” Peccato che il futuro avesse altre idee per me: più lavori precari e meno romanzi epici da pubblicare. Eppure, continuavo a scrivere. Diari, storie che mai avrei avuto il coraggio di mostrare a nessuno. Col tempo il mio sogno di grande scrittrice si ridimensionò lentamente, fino a diventare un passatempo marginale, relegato agli angoli più nascosti della mia vita.
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