Ho sempre odiato i funerali. Beh, certo, non sono mai piaciuti a nessuno. Ma io non ho proprio mai avuto la forza di partecipare. Essere presente mi è sempre costato moltissimo.
Stavolta però è diverso. Questo è il tuo funerale. Una festa in casa, semplice e colorata. Tutto come tu hai sempre voluto, scritto, programmato. Come si fa con un matrimonio. Con tanto di richieste specifiche, del tipo: “Per favore, avvisate zia Tina, che ci tiene particolarmente”; oppure: “Evitate di far sedere vicini Stefano e Luigi, iniziano a piangere sui rimpianti del passato e non la smettono più, rovinandomi la scena.”
Quando ci parlavi così, io e mamma ci ritrovavamo a essere ripetutamente sconvolte. Non riuscivamo proprio a capire tutta quella voglia di progettare così dettagliatamente il proprio funerale.
Un giorno ti ho chiesto perché lo facessi.
“Io penso a tutto quello che potrebbe farvi meno male, voglio farvi pensare meno alle cose brutte e più a quelle divertenti. In fondo, che senso ha la vita se la ricordiamo nel freddo grigio-nero del lutto? Siamo esseri abbastanza inutili, ci dobbiamo dare un senso. Dobbiamo essere ricordati per tutte le cose belle che abbiamo fatto. E anche per tutti gli errori, in modo da non lasciare che chi rimane possa ripeterli. Mi sembra un ottimo regalo da farvi: organizzarvi il mio funerale”.
Davanti ai tuoi discorsi rimanevo scioccata, intontita. Zittita da tutta quella tua naturale saggezza. Ripenso alle tue parole ora, oggi, mentre mi guardo allo specchio nei miei vestiti stretti e neri, con mille fiori colorati ricamati a mano da te, preparandomi per il tuo funerale. E ancora una volta riesci a lasciarmi interdetta, a strapparmi un sorriso. Nel tuo giorno più lontano. Nel nostro giorno più brutto.
Sono passati un po’ di anni da quando hai scoperto di avere l’Alzheimer, da quando io sono tornata dal viaggio. Ci siamo guardate negli occhi sapendo di avere poco tempo a disposizione con queste nuove noi. Anche se il tempo non lo conosciamo mai davvero. È evasivo. Non ti dà un orario preciso per le cose che contano. Che poi, prepararsi a cosa serve? Siamo già tutti preparati a morire da quando nasciamo. È l’unica certezza che la vita ci fornisce. Respiriamo il primo grammo d’aria e rischiamo la morte. È il meraviglioso pericolo che ci permette di rendere la vita così entusiasmante. Ci sentiremmo davvero vivi se non avessimo la certezza di morire?
Io non credo.
Se c’è una cosa che ho imparato, a modo mio, è che la paura di morire è solo una maschera. Non ha senso. È come avere paura di nascere. È naturale. È ovvio. Siamo solo noi che crediamo di avere tutti uno stesso copione, o perlomeno lo stesso formato su cui scriverlo.
Quindi no, non è la tua morte a turbarmi ora. Ma la mancanza. È per questo che non riesco a essere pronta, preparata. E so che mi avresti detto a cuor leggero: “Non serve proprio a niente sapere il giorno in cui moriremo o avere una data di scadenza, se riusciamo a vivere come vogliamo. Se, invece, volessimo un pretesto per poter cambiare la nostra vita, allora sì. Il conto alla rovescia può avere un senso”.
Mentre nella mia testa si intersecano pensieri fuori luogo, ti guardo, nonna, per l’ultima volta. Mi faccio coraggio e ti osservo, fredda e gelida nella bara. Con le tue trecce lunghe e bianche. Sembri felice. Ti immagino correre per i campi del Perù con Abuelo e Adela. Tu, il nonno e la tua piccola figlia, finalmente ricongiunti.
Non credo nell’aldilà. Ma ricreare questa immagine nella testa mi provoca un piacere immenso. Riesco a provare una specie di sdolcinata malinconia, mi fa sorridere. Sto vomitando emozioni senza senso? Sorrido anche ora mentre ti osservo. Mentre mia madre, disperata e in lacrime da ore, mi guarda male. Come fossi una specie di mostro. Perché nonostante sia una delle persone più buone che io conosca, non riesce proprio a comprendere che il dolore possa manifestarsi attraverso varie forme.
“Luna-non-sai-comportarti-come-è-possibile-tu-non-soffra-dopo-tutto-quello-che-nonna-ha-fatto-per-te”. La seguo in una stanza solo per farmi sgridare, tra un singhiozzo e l’altro. E poi continua: “Non-voglio-avere-rimpianti” e “Ho-davvero-fatto-tutto-quel-che-potevo?”
Non capisco più di cosa stiamo parlando. Ma tranquilla nonna, l’ho solo pensato, non gliel’ho detto. La fortuna delle persone empatiche è che riconosci subito quando qualcuno è presente solo fisicamente. Gli occhi della mamma mi guardano, ma sono altrove, dispersi chissà dove.
La lascio dare voce a quella parte di inconscio che in questo momento è un miscuglio confusionario di emozioni: un po’ di risentimento, qualche goccia di rancore, un pizzico di tristezza, un cucchiaio di rammarico. E la paura, poi. Quella non manca mai.
Ma sai, nonna, mamma ha un po’ ragione. Io non sto soffrendo. So che il tuo momento era arrivato. So che ne avevi bisogno. E so che tu, Abuela, mi vorresti felice, anche di fronte alla morte.
Sono nella tua camera, adesso. È impregnata di quell’odore d’umido tipico dei mobili antichi. Poi c’è il profumo di vestiti lavati, con la cenere per farli diventare bianchi, l’odore acre dell’alcool dei medicinali, delle cure sparse sul comodino. E poi, il sentore delle tue creme alla Cera di Cupra – economiche, ma che ti facevano le mani così morbide. E il tuo profumo inconfondibile: una miscela di malva e lavanda. Mi ricorda l’inizio fresco della primavera, quando l’inverno sta finendo, l’entusiasmo cresce, ma il tempo non è ancora pronto a cambiare davvero.
Hanno tutte lo stesso aspetto, le stanze degli anziani? Il legno vecchio, i letti piccoli. Come se quello spazio non si adattasse al tempo che scorre. Come se gli oggetti ci si mummificassero dentro. Passo una mano sui mobili. Neanche un filo di polvere, nonostante tu non avessi più forza. Più tempo. Più ricordi.
Le tue lenzuola sono ruvide, un mosaico di colori, cuciti chissà quando. Le pantofole bruciate, a dimostrare quanto la ricchezza sia priva di senso per chi ha conosciuto la fame. Per chi, come te, portava sempre con sé un pezzetto di pane “nel caso servisse a qualcuno”. La versione peruviana delle caramelle della nonna. C’è il tuo fazzoletto di seta, ricamato a mano – perché il pudore, prima di tutto.
Apro il tuo cassetto e trovo pezzi di stoffa di ogni tipo, forcine mai usate, un piccolo orologio a pendolo e la tua spazzola. Ci sono ancora ciocche dei tuoi capelli bianchi, attorcigliate tra le setole: duri, lunghi, possenti, ma dolci. Sei tu, racchiusa tra un gomitolo di capelli.
Metto tutto sul letto, come fosse un santuario. Chiudo gli occhi per respirarti ancora un po’, farti entrare dentro di me. Appiccicarti al cuore come un post-it profumato.
Ammiro il mio-tuo museo ancora un attimo prima di rimettere tutto nel cassetto, ed eccolo lì. Il quaderno rosso spunta fra tutte le tue cianfrusaglie. Gonfio di lettere e appunti. È la mia agenda, quella che mi avevi regalato prima di partire per il Sud America. L’hai conservata. Riempita delle mie foto, dei fiori, di tutte le cartoline che ti ho mandato. La riguardo adesso e sembra un amuleto.
Non ho il coraggio di aprirla. So bene che troverò parti di me di cui non ho più memoria. O che non conosco più. Sarà il tuo ultimo regalo per me, Abuela?
Fisso la copertina scarlatta dell’agenda, espiro profondamente prima di aprirla. Là dove avrei dovuto scrivere i miei dati, c’è una domanda. Una domanda che hai scritto tu.
“Chi sei?”
Fisso quelle due parole per un tempo interminabile, mi distrae solo qualcuno che bussa alla porta.
Alessia Passaseo (proprietario verificato)
Ho avuto il privilegio di poter leggere questo libro in anteprima e vi assicuro che viaggerete non solo con la fantastica per tutto il Sud America ma anche e soprattutto con il cuore!!! Diventerete un tutt’uno con i pensieri e le emozioni della protagonista tanto che le sue sfide diventeranno le vostre. Super consigliato!!!