Maggio era letteralmente volato via quell’anno, sospinto lontano da una tiepida brezza che preannunciava l’arrivo dell’estate.
L’ultimo sabato di quel mese, così come la tradizione imponeva, migliaia di persone, provenienti fin dal più sperduto paesino della provincia, si ritrovarono nel capoluogo virgiliano per prendere parte all’annuale “Minciomarcia”.
Per una sera le vie di Mantova si tramutavano in un pittoresco circuito podistico, animandosi di una contagiosa allegria.
Al fianco dei veri atleti – che gareggiavano col chiaro intento di arrivare primi al traguardo – vi era anche chi prendeva parte a questa non impegnativa mini-maratona solo per passare una serata diversa dal solito in compagnia degli amici più cari.
Altri ancora approfittavano di questo festoso evento per riscoprire – almeno fino a quando le gambe avrebbero retto – angoli dimenticati della città.
La gara si svolgeva su di un tracciato che, di norma, non superava mai gli undici chilometri di lunghezza. Vi era anche un percorso alternativo di appena sette chilometri riservato ai bambini ed a chi proprio non se la sentiva di affrontare il circuito principale.
Piccole frecce segnaletiche erano state affisse lungo le vie che, per quella sera, avrebbero fatto parte del tracciato podistico.
Lungo il percorso erano stati strategicamente dislocati tre posti di ristoro. Il primo di essi si trovava appena un paio di chilometri dopo il punto di partenza.
Una processione di sacchetti di carta – recanti il simbolo grafico della manifestazione – erano ordinatamente allineati sul lungo banco.
Dentro a quelle buste i concorrenti avrebbero trovato un panino imbottito, un’arancia e una bottiglietta d’acqua con i quali reintegrare parte delle energie spese.
Come sempre, la corsa prendeva il via e terminava nella suggestiva cornice offerta da piazza Sordello che, per l’occasione, veniva addobbata a festa.
Per quell’anno era prevista una affluenza record così come stavano a dimostrare le quasi settemila pre-iscrizioni raccolte durante il mese.
Gli ultimi ritardatari avevano comunque anch’essi la possibilità di iscriversi alla gara presso gli appositi tavoli sistemati sotto al colonnato del Palazzo Ducale.
L’imponente costruzione – edificata progressivamente fra il quattordicesimo ed il diciassettesimo secolo – con la sua mole chiudeva il lato est della piazza.
Guardando le polverose finestre di quell’antica dimora si aveva quasi l’impressione che i fantasmi degli ex signori di Mantova spiassero quell’allegro assembramento di varia umanità con un sorriso benevolo sulle labbra.
Il loggiato della Magna Domus che dava sulla piazza, ospitava in quel momento due lunghi tavoli – posti di fianco al portone d’ingresso della costruzione su cui campeggiava un colorato manifesto che pubblicizzava la mostra ospitata al suo interno – dietro a cui una decina di addetti prendevano le iscrizioni per gli ultimi ritardatari di quella corsa.
Sempre sotto al porticato, proprio a lato dei tavoli per le iscrizioni, vi era poi un quarto posto di ristoro a disposizione di chi sarebbe rimasto nella piazza ad attendere la conclusione della gara. Dietro di esso l’aria era satura dello stuzzicante aroma delle salamelle messe a rosolare – fianco a fianco con dorate fette di polenta – su lunghi barbecue. Brevi e vivaci sfrigolii si udivano ogni qual volta una goccia di grasso cadeva sulle braci ardenti.
Lo striscione dell’arrivo era posizionato parallelamente al portone d’ingresso della Questura di Mantova che distava appena un centinaio di metri dalla fine del colonnato della ex reggia gonzaghesca.
Dietro al bancone del suo furgoncino, un venditore ambulante di patatine fritte decantava a gran voce la qualità della sua merce.
Solo nel primo pomeriggio si erano finiti di innalzare, nel bel mezzo della piazza, i due spaziosi palchi sui quali avrebbero avuto luogo le premiazioni. Grandi drappi multicolori nascondevano la loro struttura portante che andava a poggiare sull’acciottolato sottostante.
Una decina di persone aspettavano l’inizio della gara sedute sui tre bassi gradini della scalinata del Duomo.
Questa cattedrale – dedicata a San Pietro – era stata edificata, all’inizio del dodicesimo secolo, sul lato nord della piazza.
Due diversi stili architettonici coabitavano in quell’antico luogo di culto. Questa strana commistione era dovuta ad una sua parziale ricostruzione voluta da Francesco Primo Gonzaga, sul finire del quattordicesimo secolo.
La gotica facciata della chiesa era illuminata a giorno da potenti riflettori sistemati sulla sommità di alcuni tralicci appositamente eretti per quell’occasione. Esternamente della vecchia struttura di stile romanico, restava solo la massiccia torre campanaria. Quel solido torrione rimaneva quasi di fianco alla casa dove, secondo la leggenda, sarebbe vissuto Rigoletto, il buffone di corte protagonista dell’omonima opera lirica musicata da Verdi.
Anche la natura sembrava aver dato il suo benestare per la buona riuscita della manifestazione con cielo limpido trapuntato di stelle.
Una luminosa mezzaluna crescente rimaneva sospesa nella volta celeste all’altezza del Castello di San Giorgio, subito dietro al Palazzo Ducale.
Grandi striscioni, inneggianti alla gara, ondeggiavano pigramente sulle teste degli astanti. L’aria andava raffreddandosi e, previdentemente, la maggior parte di essi aveva indossato qualcosa di più pesante di una semplice maglietta a maniche corte.
Un elicottero sorvolò la piazza. Il colpo d’occhio che si aveva dall’alto lasciava senza fiato. Un oceano di corpi in continuo movimento occupava ogni spazio del largo piazzale. Se qualcuno avesse lanciato una moneta da quell’altezza non avrebbe mai avuto la certezza di vederla rimbalzare per terra tanta era la gente ammassata lì sotto.
Come sempre, in mezzo a quella variegata ressa si potevano trovare anche persone mascherate nei modi più strani.
Immancabili erano i due “infermieri” con tanto di barella e “ammalato” vestito con un lungo camice bianco e finta flebo nel braccio. Vi era poi un “Guglielmo Tell” con balestra e freccia “Made in Hong Kong” a trapassargli il cranio.
Una mezza dozzina di “fantasmi” saltellavano per la piazza. Forse alcuni di loro, il giorno dopo, sarebbero incappati nelle ire delle rispettive madri per aver usato come costume il lenzuolo buono della povera nonna.
Intere scolaresche si presentavano al via con la non tanto segreta speranza di riuscire ad aggiudicarsi il premio riservato al gruppo più numeroso.
Il primo cittadino in persona, a fine gara.- dopo aver premiato i primi tre classificati – avrebbe consegnato i vari premi speciali messi in palio dagli sponsor della manifestazione.
Benché mancasse ancora parecchio tempo alla partenza della gara, nell’aria si riusciva già a percepire tutta la tensione che precedeva gli attimi prima del via.
– Ma sei proprio sicuro di farcela?- chiese Fabio Mauri al ragazzo che, inginocchiato al suo fianco, stava finendo di allacciare le sue bianche scarpe da ginnastica.
Rialzatosi, questi gli rispose:
– Spero proprio di si. Lo so’ anch’io che è da parecchio che non faccio una vera gara. Ma non poteva capitarmi un’occasione migliore di questa per vedere veramente fino a che punto sono arrugginito.
– Ma, a proposito? Cosa cavolo ci fai tu qui?! Non ti facevo così sportivo.- Davide Vitali diede un leggero colpetto sulla pancia dell’amico.
– Per me qui c’è sotto qualcosa di strano…- concluse.
– Ottima deduzione, signor Holmes.- sogghignò Fabio.
– La vedi quella ragazza?- aggiunse indicando all’amico una giovane che, solitaria, sostava davanti ad una delle due cariatidi poste ai ai lati del portone d’ingresso della Curia di Mantova.
– Quella con la tuta rossa?- chiese conferma Davide indicandola a sua volta.
– Proprio quella!- gli confermò Fabio.- Si chiama Tatiana e frequenta il primo anno delle magistrali.
– Abita vicino a me ed è da un po’ di tempo che la punto.
– Stasera ero sicuro che sarebbe venuta e così, con la scusa della Minciomarcia, vorrei tentare di rimorchiarla.-
– Bhe! Allora buona fortuna.- gli augurò Davide.
– Fortuna? E chi ne ha bisogno?- fece finta d’indispettirsi Fabio.
– Basterà che dia libero sfogo al mio fascino animale e cadrà ai miei piedi come una pera matura.- scherzò il ragazzo scuotendo comicamente con una mano i suoi corti capelli castani.
– Sarà?- fu il dubbioso commento di Davide.
– Guarda e impara!- Fabio, dopo aver dato una vigorosa manata sulla schiena dell’amico, si accomiatò da lui. Fischiettando si avvicinò disinvoltamente alla sua “preda”.
Per farsi notare da lei adottò una ben strana tattica d’approccio: prese infatti a zampettarle attorno con la stessa leggiadria di un ippopotamo.
Quando si fermò sbuffava come un mantice!
Appena ebbe ripreso fiato, il robusto ragazzo iniziò a parlarle ma, con ogni probabilità, finì col dirle qualcosa di troppo. Infatti la ragazza lo squadrò da capo a piedi con un’espressione schifata sul volto.
Dopo averlo apostrofato con parole non certo adatte per una ragazzina di quell’età, gli appioppò un violento ceffone sulla guancia sinistra. Fatto ciò gli voltò le spalle e si allontanò evidentemente offesa. Fabio, però, non si diede per vinto e continuò a tallonarla.
– Ti prego, aspetta! Hai capito male!- urlò mentre la seguiva sparendo in mezzo alla calca al centro della piazza.
Davide, che aveva assistito da debita distanza a quel comico quadretto, non poté fare a meno di ridere dell’amico.
Fabio non sarebbe cambiato mai! Era un vero Don Giovanni ma con lo stesso tatto di un elefante!
A Davide però piaceva quel carattere schietto che il paffuto compagno di classe sembrava aver ereditato dal sangue toscano dei suoi genitori, entrambi fiorentini di nascita.
Il padre, vicequestore a Mantova, era stato trasferito nella città lombarda pochi mesi prima che la sua gentile consorte decidesse che era giunto il momento di mettere al mondo il suo primo – e finora unico – erede. Per questo motivo Fabio amava definirsi un “mantovano adottivo”.
Al contrario Davide era di Mantova sotto tutti i punti di vista. Sua madre era infatti nata e cresciuta in città mentre il padre era originario di Cerese, un paese ad un tiro di schioppo da essa.
Sedicenni, entrambi alti un metro e settantasei centimetri e per di più con la stessa sfumatura castana di capelli, quando erano insieme venivano spesso scambiati per fratelli. La cosa che più li differenziava era la loro costituzione fisica. La rotondeggiante mole di Fabio faceva a pugni con la tonicità del fisico di Davide. Inoltre quest’ultimo aveva i capelli lunghi fin quasi sulle spalle mentre Fabio li teneva sempre cortissimi.
Frequentavano entrambi il terzo anno presso l’Istituto Tecnico per Geometri “Carlo D’Arco” e, fin dai tempi della prima media, venivano a trovarsi inseriti nella medesima classe.
A differenza di Fabio, cresciuto senza grossi problemi famigliari, Davide finora aveva avuto una vita un po’ più travagliata.
Aveva appena tre anni quando i suoi genitori divorziarono. Crebbe quindi con la madre – che fu anche l’unica dei due a richiederne l’affidamento – che cercò in tutti i modi di non fargli troppo pesare la totale assenza del padre.
Come Fabio anche Davide era figlio unico. Sua madre non si era più lasciata incastrare – così come era solita dire – e, a parte un paio di relazioni durate l’arco di qualche mese, aveva sempre anteposto la felicità del figlio alla propria.
Purtroppo tutti questi elementi – una madre iperprotettiva e la mancanza di una vera figura paterna – influirono non poco sul carattere del ragazzo rendendolo estremamente timido ed introverso.
Solo dopo aver finito le elementari, Davide riuscì a stringere delle vere amicizie con i nuovi compagni della scuola media. Amici che lo aiutarono ad uscir fuori da quella sorta di cupola a tenuta ermetica che egli sembrava aver eretto attorno a se.
Mentre Fabio conduceva una vita fin troppo sedentaria – che egli definiva “meditativa” – Davide, al contrario, praticava attivamente vari sport.
Calcio, nuoto, tennis ed atletica. Ed era proprio questa ultima disciplina che egli prediligeva.
Spinto dagli esaltanti successi di Alberto Cova nelle gare di mezzofondo, appena ne ebbe l’occasione si iscrisse alla locale sezione della “Libertas”, la società sportiva di atletica di Mantova.
Da quel momento prese ad allenarsi con sempre maggior impegno con la speranza di riuscire ad emulare le imprese europee del suo idolo.
Dopo neppure un anno dall’iscrizione, cominciò già ad ottenere alcuni lusinghieri risultati in varie gare regionali sulla distanza dei cinquemila metri.
Risultati che gli erano anche valsi una convocazione per i prossimi campionati italiani di categoria.
Una brutta e banale caduta dalle scale di casa aveva bruscamente interrotto i suoi allenamenti e infranto i suoi sogni di gloria.
Frattura composta della caviglia sinistra: questo era stato lo spietato responso delle radiografie che gli vennero fatte all’ospedale. Per tre mesi sarebbe stato costretto a portare uno scomodo e pesante gesso a protezione dell’arto spezzato.
I campionati italiani passarono ed egli li seguì confinato nel letto della sua camera senza aver neppure l’agio di poter poggiare i piedi per terra.
Quello sfortunato incidente però non fece altro che rafforzare ulteriormente il carattere del ragazzo già così temprato dalle intemperie della vita. La sua volontà ne uscì ulteriormente rafforzata.
Meno di quaranta giorni erano passati da quando il gesso gli era stato tolto.
– La frattura si è risaldata alla perfezione. Comunque, per un po’ di tempo, devi cercare di non sforzare troppo la caviglia.- gli era stato consigliato dall’ortopedico che l’aveva visitato.
Ma il ragazzo sentiva quei tre mesi di forzata inattività pesargli troppo sulle spalle.
Lui VOLEVA correre, anche a costo di star male. Non si era mai arreso in vita sua e non voleva cominciare proprio ora!
Eppoi, checché ne dicesse il suo medico, si sentiva già pronto a ricominciare gli allenamenti.
E così, nelle due settimane appena trascorse, aveva ripreso segretamente ad allenarsi arrivando a coprire distanze piuttosto considerevoli. Ma correva sempre da solo, senza un vero confronto con altri concorrenti motivati. Dunque quella Minciomarcia capitava giusto a fagiuolo per testare le sue ritrovate capacità fisiche.
Durante gli allenamenti la caviglia non gli aveva mai dato problemi – a parte un leggero dolorino che tendeva a svanire appena si fermava – ed egli si augurò che non gliene desse neppure quella sera.
Mentre si aggiustava il pettorale con il numero 6649 stampato in rosso sulla bianca felpa – decorata sulle spalle da motivi geometrici nerazzurri – sentì lo speaker annunciare che mancavano due minuti alle ventuno, ora di partenza della gara.
Una strana ansia lo pervase. Stava finalmente per giungere il momento della verità. Fra poco avrebbe scoperto se tutte le fatiche sopportate finora erano servite a qualcosa.
– Ce la puoi fare! Ce la puoi fare!!- pensò stringendo forte i pugni.
Preso il cronometro che teneva nella tasca posteriore delle nere braghe della tuta, andò poi a mescolarsi con gli altri concorrenti che si accalcavano all’imboccatura di via Cairoli sotto lo striscione del via.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.