Parigi, 1785. Il cimitero dei Santi Innocenti, il più grande della capitale, si avvia verso la sua fine. Le disastrose condizioni igienico-sanitarie in cui versa l’umile e popoloso quartiere degli Champeaux per la fetida presenza di quel camposanto, ha indotto le Autorità a decretarne la demolizione. Una sfida epica, che cambierà per sempre il volto della città. La chiesa, la schola cantorum e gli imponenti ossari saranno smantellati. Le ossa verranno trasportate con spettacolari cortei funebri fino alla Maison de la Tombe Issoire, ingresso alla sconfinata rete sotterranea di cave, nei pressi di Montparnasse. Al commissario Joachim Raphaël Lefebvre è stato conferito l’incarico di supervisionare i lavori, garantendo la sicurezza e il mantenimento dell’ordine pubblico. Dovrà scontrarsi con la superstizione del popolo, caparbiamente legato al cimitero traboccante di corpi. Immerso nella ritualità della morte, il commissario troverà, inatteso, il grande amore della sua vita.
“Joachim” è il primo capitolo della trilogia “I Santi Innocenti”, un thriller storico ambientato nella cupa Parigi pre-rivoluzionaria.
Perché ho scritto questo libro?
Sono un curioso, attratto in particolare dalla Storia. Nell’autunno del 2015 venni a conoscenza, non ricordo più come, della demolizione del cimitero dei Santi Innocenti. Iniziai a scrivere alcune pagine. Poi gli omini che lavorano per me, i veri autori dei miei libri, si presero una lunga, lunghissima pausa. Si sono rifatti vivi nell’agosto del 2024, quando ormai pensavo che si fossero licenziati per sempre. Ho completato questo romanzo perché era un conto rimasto troppo a lungo in sospeso.
ANTEPRIMA NON EDITATA
cap. II
Thibaut Boyer, che amava proclamarsi il miglior oste di Rue de la Lingerie, famoso però negli Champeaux come “Boyer il sudicio”, si accarezzò con soddisfazione il pancione prominente, asciugandosi le mani sul grembiule ingiallito. Quel giorno il suo pasticcio di lepre aveva ottenuto un successo strepitoso. Che il termine pasticcio si adattasse perfettamente alla pietanza che aveva avuto la sfrontatezza di servire ai tavoli, tutti sarebbero stati concordi. In merito alla lepre, va specificato ad onor del vero che la bestia fino al giorno prima era appartenuta ad una razza molto diffusa in tutta Parigi, più che nelle sue campagne, e che potremmo classificare da un punto di vista squisitamente tassonomico come lepus tegularum, la lepre delle tegole. In effetti la povera bestiola aveva provato a difendersi con i denti e con gli artigli, per poi infine cedere con un rassegnato miagolio di protesta, un istante prima che Thibaut le spezzasse il collo con la pressione esperta dei suoi pollici cicciuti. Il timo, la maggiorana e tutte le spezie che l’oste conservava nella squallida dispensa dell’osteria avevano mascherato il sapore; una volta privato della pelliccia, il felino si era dimostrato particolarmente pasciuto, rendendo inutile aggiungere i soliti bocconcini di ratto di stagione che, come tanti anni di esperienza al focolare avevano insegnato, nell’intingolo di pomodoro, patate, aglio e cipolla, facevano sempre la loro porca figura. Boyer si passò la lingua sulle labbra, pensando all’incasso di giornata, costato a lui solo qualche graffio di gatto e nemmeno un misero topo. Afferrò due brocche vuote, sbeccate e non esattamente lustre, e si diresse verso la porta che dava in cantina. Tutti i suoi calcoli si erano rivelati esatti: il suo micio in umido, sapientemente salato e drogato, aveva risvegliato ai tavoli il bisogno di un ulteriore giro di vino. Lasciò la sala gremita dei suoi chiassosi e fedeli avventori, in quel momento impegnati a ruttare sonoramente la loro soddisfazione per il succulento déjeuner appena degustato. L’osteria sembrava all’orecchio dei passanti in strada uno stagno pieno di gonfie rane gracidanti. Aprì la porta che dava sullo scantinato e il suo buon umore passò in un istante. Voltò istintivamente la faccia in una smorfia di disgusto, portando le due brocche vuote davanti al naso, nell’inutile tentativo di proteggersi dal tanfo putrido che giungeva dal basso. «Merda secca!», protestò a denti stretti, trattenendo a stento un conato di vomito che gli serrò immediatamente la gola, «va bene che oggi fa caldo, per essere maggio, ma questo è davvero troppo!». M. Thibaut conosceva perfettamente quel fetore.
Tutti, negli Champeaux, lo conoscevano. L’odeur era un elemento naturale di quel popoloso e modestissimo quartiere.
L’odeur entrava nei polmoni dei neonati al loro primo vagito, facendo immediatamente capire ai malcapitati che razza di posto avessero scelto per venire al mondo. L’odeur quei polmoni non li avrebbe mai mollati, entrando ed uscendo infinite volte attraverso le gole sempre più piagate dalla sua stessa presenza, fino ad abbandonarli in un ultimo, pestilenziale respiro. L’odeur era il profumo della mamma. Anche il latte che i piccoli succhiavano dalle mammelle delle povere donne era inquinato, così come la carne e il pesce, le verdure e la frutta, ogni forma di alimento che nutriva il quartiere. L’odeur serpeggiava sul selciato viscido di feccia, si intrufolava tra gli stalli del mercato di Les Halles e gli usci delle case, saliva dalle cantine umide su fino alle soffitte cotte dal sole. L’odeur non si accontentava di dominare l’aria, e quindi il respiro e il fiato della gente. Intossicava anche l’acqua della fontana delle Ninfe, inquinando così la primaria fonte di vita per ogni essere sopravvivente nel quartiere. L’odeur era il sovrano indiscusso degli Champeaux. Fermo in cima alle scale, l’oste avrebbe preferito desistere, aspettando che quella zaffata pestilenziale si mitigasse almeno in parte. Magari più tardi avrebbe potuto aprire le basse finestre a filo della strada, provando a cambiare l’aria in quell’ambiente venefico.
Ma, pensò il buon Thibaut, gli affari sono affari e se i suoi clienti volevano del vino, del vino avrebbero avuto, poco ma sicuro. Iniziò a scendere gli scalini sbuffando sotto il peso della sua stessa mastodontica mole, attento a non ruzzolare sulla pietra levigata dal tempo. Si sforzò di prendere aria in piccoli respiri superficiali, ma il tanfo era comunque invincibile.
Da quando era venuto al mondo, non aveva mai sentito l’odeur manifestarsi così potente. Aprì svelto le luride finestrelle che davano sul marciapiede, salendo in punta di piedi su una scricchiolante cassetta di legno ad avvicinare il naso all’aria esterna, dove il fetore degli Champeaux era al suo solito, più o meno sopportabile, livello di guardia.
A malincuore scese dal suo provvisorio piedistallo, deciso a sbrigarsi a riempire le caraffe per tornare a rifugiarsi al piano di sopra. Si portò un trespolo sbilenco sotto le chiappe e si accucciò di fronte alla botte. Aprì il rubinetto e il vino, debitamente annacquato, cominciò a sgorgare. Uno scricchiolio cupo e stridente alla sua sinistra lo fece voltare. L’oste chiuse la spina, rimanendo così, accucciato con in mano la brocca mezza piena. Guardò la parete orientale della cantina, aggrottando la fronte, pensieroso. Alla luce pallida che filtrava dalle due piccole finestre di servizio, i mattoni apparivano molto più umidi del solito, soprattutto al centro del muro. Lasciò la caraffa a terra e si alzò, avvicinandosi perplesso. L’odeur si fece ancora più intenso; il che da un certo punto di vista era perfettamente ragionevole, considerando cosa si celasse al di là della parete. Ciononostante era altrettanto chiaro che qualcosa non andasse. Non andasse per niente.
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La parete emise un altro brevissimo gemito, che saettò furtivo lungo la malta tra i mattoni, come se si sentisse colpevole di qualcosa e non volesse farsi scoprire.Thibaut si immobilizzò, sentendo un inatteso dito di paura accarezzargli il cuore. Era stato uno scherzo dei suoi occhi, o alcuni sassi si erano mossi leggermente? Deciso a capire cosa stesse accadendo a quella che da generazioni era la cantina di famiglia, allungò la mano a sfiorare la macchia di fronte a sé. Era fredda e umida. Si portò le punta delle dita al naso, annusando appena con diffidenza: una calda bolla di vomito acido salì immediatamente dallo stomaco, esplodendo contro la parete in uno schiaffo liquido di succhi gastrici e pezzetti semidigeriti di gatto. Quella poltiglia che aveva appena sfiorato era odeur allo stato puro. L’oste rinculò schifato, camminando all’indietro mentre si puliva sommariamente la bocca con la manica della giubba. Colpì con un piede la brocca che aveva lasciato a terra, il vino bagnò il pavimento, quasi cadde inciampando nel basso trespolo. Thibaut non ci fece nemmeno caso. Era venuto il momento di lasciare il seminterrato, e di farlo immediatamente. I suoi commensali potevano aspettare, sissignore. Incominciò a voltarsi verso le scale anguste, quando la parete parlò per la terza e ultima volta: il crepitio crebbe d’intensità in pochi istanti, fino a diventare il rombo possente di un crollo rovinoso. Con gli occhi fuori dalle orbite, M. Boyer vide i mattoni e le pietre franare sulla terra battuta del pavimento. Un’onda nera invase la cantina. Istintivamente l’uomo rinculò di spalle schiacciandosi contro la parete opposta, sotto le piccole aperture, incapace di emettere il più flebile vagito di terrore. Anche i ratti fino a quel momento nascosti negli anfratti più bui del locale stavano scappando dalla frana, accatastandosi vorticosamente ai piedi dell’oste. La terra continuava ad uscire attraverso la breccia, implacabile.
Il rumore riempiva il locale. Presto i piedi dell’uomo furono sommersi, mentre nuove ondate di fango secco fuoriuscivano dallo squarcio. Sembrava che l’inferno vomitasse. Thibaut, impietrito, guardava verso quello che era stato un semplice muro fino a pochi secondi prima: un’orda di ratti cavalcava la frana, galoppandogli incontro, rimbalzando come piccole otri flaccide contro le pietre della parete. L’oste si rese conto che nel tumulto nero diversi oggetti grigiastri spuntavano qua e là come rami secchi. Erano le ossa, ovviamente. Alcune lisce come sassi di fiume, altre parzialmente coperte di carne marcia.
Il pover’uomo ebbe l’inspiegabile lucidità necessaria per notare una mano rattrappita, con un semplice anello di ferro al quarto dito, uno di quei ninnoli che spesso accompagnavano i morti nel loro passo estremo. Lesse nitidamente le parole Requiescat in Pacem nere di terra, a colmare la sottile incisione realizzata chissà quando da un artigiano del quartiere. Pensò che fosse un augurio diretto a lui. La marea fetida ora gli arrivava alle ginocchia, ma lui era incapace di scuotersi per scappare.Con occhio distaccato notò decine di vermi punteggiare come forfora la frana: alcuni minuscoli, altri grossi come un pollice. Il crollo proseguiva, le ossa sbatacchiavano tra loro. I ratti continuavano ad errare impazziti, cercando una via di fuga. Il puzzo colmava il mondo intero. M. Boyer venne coperto fino alla cintura, poi oltre la sudicia prominenza del buzzo.Infine la marea di terra e resti umani gli avvolse il torace. Lui si limitò a restare immobile, come se non volesse essere notato da quella slavina infernale, sperando di essere graziato senza finire sepolto vivo. Il terreno ora aveva invaso quasi tutto il volume della cantina, arrivandogli alla gola. Tra frana e soffitto era rimasto poco più di un braccio. Briciole di terriccio fetido e piccoli vermi unti incominciarono a sporcargli mento, bocca e naso. I ratti che continuavano a girovagare impazziti puntarono finalmente verso le finestrelle, correndo incontro alla libertà: molti gli saltarono sulla pelata, graffiandolo con le unghie e schiaffeggiandolo in viso con le gelide code dure. Ad un tratto la frana si fermò e tutto si fece immobile. L’ultimo ratto rimasto infilò la via di fuga su Rue de la Lingerie con un silenzioso salto sorprendentemente elegante. La quiete regnò assoluta, interrotta solo dallo spostarsi delle sedie in sala, al piano di sopra. I clienti dovevano aver sentito tutto quel trambusto e stavano evidentemente alzandosi per venire a vedere cosa diavolo fosse successo. Per Thibaut, immerso nella fetida terra putrida, era come se quei rumori venissero direttamente dalla luna, per quel che poteva interessargli. Il suo viso emergeva pallido dal fango franato da Les Innocents. Gli occhi erano fissi, spalancati nella penombra. Il peso gli bloccava il respiro, cosa che in quel momento era più una benedizione che una condanna. I vermi ondeggiavano pigri davanti a lui, le ossa spuntavano scomposte. Riconobbe una mandibola, un grosso femore, un costato che sembrava lo scheletro di un vecchio ombrello. Incominciò a pensare di essersela in qualche modo cavata e la sua mente prese lentamente a cercare di ricordarsi come si facesse ad urlare per chiedere aiuto. Poi sentì l’ultimo leggero ruzzolare furtivo venire di là dal muro, dalle tenebre oltre la voragine. Un oggetto vagamente sferico iniziò a rotolare esattamente verso di lui, acquistando velocità nella discesa. Incredulo, rabbrividendo per lo schifo, M. Thibaut si rese conto che si trattava di un teschio avvolto in pezze viscide di pelle putrescente, che gli offriva alternativamente la nuca spelacchiata coperta di vermi e le ghignanti orbite vuote. Un topolino scappò spaventato attraverso il collo da quella che era stata la sua piccola tana. Boyer spalancò la bocca per urlare. Ecco, quella non fu affatto una buona idea. La testa lo raggiunse, colpendolo sul naso: la bocca del morto, o della morta, aderì alla sua, in un bacio grottesco. L’oste sentì entrargli tra i denti un qualcosa di gelido e viscido, che poteva essere un piccolo pesce putrido o, molto più verosimilmente, ciò che rimaneva della lingua del cadavere.A quel punto Thibaut Boyer, sceso due minuti prima in cantina per prendere del vino, alquanto scosso nella ragione e nel fisico, fece l’unica cosa saggia che gli fosse rimasta da intentare: svenne. E per un po’ tutto per lui fu misericordiosamente soltanto buio e silenzio.
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