Il suo tono di voce era scosso, non l’avevo mai sentito così, ma soprattutto se ci fosse stata una persona che poteva capire l’importanza di un momento del genere a livello televisivo, era proprio lui. Mi stupiva quindi che anche lui avesse deciso di chiamarmi proprio in quel momento. Inatteso, era la parola giusta.
“Non può aspettare dopo la puntata di Dragon Ball?”
“No.”
“Dai cavolo, sei sicuro?”
“Fidati.”
“Ok, passo io o vieni tu?”
“Devi venire tu.”
“Ok, prendo la bici e arrivo.”
Ale ed io non vivevamo lontani. In bici ci mettevo 10minuti. Mamma non era troppo contenta quando scorrazzavo in bici a destra e a manca, ma sapere che avevo una destinazione la rasserenava. Chiaramente i patti erano che la dovevo avvisare dal fisso di casa dei miei amici appena arrivavo.
Le vacanze estive, di quelle che, quando siamo bambini ci sembrano infinitamente lunghe, erano quasi giunte al termine. La scuola non era ancora ricominciata, ma mancava poco. Il rientro lo si sentiva nell’aria, del resto Roma è una città che scandisce perfettamente i periodi di cosiddetta villeggiatura. Il grado di “romanità’” delle persone si può facilmente capire da quanto amino o odino la capitale ad agosto. Calda, deserta, quasi torrida. Se ami Roma, l’ami soprattutto ad agosto. Il traffico scompare. I ritmi si rallentano. Lo si potrebbe definire una sorta di letargo estivo. Proprio a settembre invece, la città riprende la sua calma frenesia di sempre, si risveglia piano piano. Tra un tramonto settembrino e il cielo azzurro che sembra finto, la capitale sbadiglia e torna ad essere sé stessa, odiata e amata allo stesso tempo, tra una suonata di clacson ed un “mortacci tua” che rimbalza come un’eco tra le macchine ferme.
Conoscevo Ale dalle elementari. Era un tipo buffo, buono d’animo e faceva morire dal ridere quando voleva. Mi ricordo benissimo quando il primo giorno di scuola della seconda elementare, me l’ero trovato improvvisamente di fronte, con una polo azzurra, sull’uscio della classe. E lui dava la mano a tutti, e si presentava.
“Ciao, sono Alessandro. Sono nuovo qui, piacere conoscerti.”
C’era una leggera discrepanza tra quello che diceva e il suo sguardo. Sembrava un po’ sperduto, ma con delle chiare istruzioni in testa. Qualcosa del tipo “Quando oggi arrivi a scuola, mettiti all’ingresso della classe, presentati, stretta di mano forte, e guarda gli altri bambini negli occhi.” Recitava molto bene la parte, ma potevi vedere che questo comportamento non era nella sua natura.
Quel giorno fu l’inizio della nostra amicizia. Diventammo inseparabili. Dovunque andava, io c’ero. Dovunque andavo, lui c’era. Se mai avessi dovuto ipotizzare di condividere un segreto importante con qualcuno, quella persona sarebbe stata senz’altro lui.
- A Roma ogni parco aveva la sua particolare identità. Vill’Ada era la controparte selvatica, forse leggermente scorbutica, di Villa Borghese. In certe zone sembrava più curato di tanti altri parchi, mentre in altre poteva sembrare di essersi persi in una giungla del Vietnam.
Ale viveva di fronte ad uno degli ingressi del parco. Era proprio lì che noi ci perdevamo nelle nostre esplorazioni avventurose, facendo finta di trovarci dentro ad un film come “Rambo” o come “Il ponte sul fiume Kwai”.
Citofonai.
Nessuno mi rispose.
Ri-citofonai.
“Scendo.” Era Ale.
Ero in dubbio se mettere la catena alla bici o no. Non sapevo se mi sarebbe servita.
Il portone si aprì e ne uscì il mio amico.
Non che io fossi grande e grosso per la mia età, però Ale era molto mingherlino.
Era un pochino più basso di me, ma compensava intanto in agilità. Se dovessi pensare ad un animale, avrei pensato ad un furetto, esile, snello, ma agile e imprendibile. Sulla corsa non conoscevo nessuno più rapido di lui. Aveva anche vinto delle medaglie a scuola. Ero stato anche un po’ invidioso, ma poi mi era passata. “Non si può avere tutto” dice sempre Mamma. E Papà ci teneva a sottolineare un concetto simile dicendomi sempre che “vincere non è sempre la priorità”.
Lo guardai in faccia ed ebbi conferma di quello che avevo pensato quando ci avevo parlato poco prima. Aveva un’aria strana, distratta, come se ci fosse qualcosa di enorme lo faceva essere altrove con i pensieri.
“Cos’era tutta questa urgenza dai?”
“Aspetta, prima camminiamo, ti devo far vedere una cosa.” E si grattò il naso come solo lui faceva, mettendoselo tra l’indice ed il medio della mano dx.
“Non me la puoi dire ora o far vedere adesso?”
“No. E dai Fra, molla la bici.”
Lo guardai, annuì e legai la bici ad un palo di fronte casa sua.
“Senti ma mi puoi almeno accennare cosa è successo?”
“Non riesco, devi vederlo di persona.”
Sentì qualcuno in balcone al secondo piano aprire una finestra.
“Ale!”
Era Maria, la sorella maggiore di Alessandro. Maria era bella come il sole. Durante l’estate era come se fosse sbocciata. L’anno scorso mi stava antipatica, ci rompeva sempre le scatole e faceva la spia di continuo. Ma quest’estate qualcosa era cambiato ed aveva messo piede in quella terra di nessuno tra l’essere bambina e il diventare donna. Quelle volte che mi guardava con i suoi occhi azzurri, mi faceva sentire lo stomaco in maniera strana. Sembrava quasi dovessi vomitare, ma poi non veniva su niente ed era anzi una sensazione quasi piacevole, di vuoto, come quando vai sulle montagne russe e ti senti la pancia in gola. In quei momenti in cui mi guardava e mi sorrideva, dovevo guardare da un’altra parte e sentivo tutta una sensazione di calore sulle guance e sul collo.
Ale si girò stranito ed innervosito. Qualcuno stava interrompendo la nostra ennesima misteriosa avventura, se così poteva chiamarsi, dato che non avevo idea di cosa mi attendesse.
“Che c’è?!”
“Oh, non usare quei toni con tua sorella! Dove andate a fare danni tu e Franci?”
Quando sentì pronunciare il mio nome dalla sua bocca mi sentì improvvisamente pronto ad affrontare qualsiasi cosa.
Ale la guardò un attimo e sbuffò:
“Torniamo dopo, andiamo al parco.”
“Okay non fare tardi, Mamma e Papà ti aspettano per la merenda.” Poi mi guardò, mi fece l’occhiolino e mi disse di stare attento al suo fratellino.
Ero pronto a tutto.
Iniziammo a camminare. Ale era silenzioso, si grattava il volto e guardava per terra. Non capivo.
Vill’Ada non era ancora stata presa d’assalto. Il grosso dei romani doveva ancora rientrare dalle ferie e si vedeva. C’era qualche turista in giro, qualche vecchietto con un cane al seguito e qualche coppietta che probabilmente approfittava del parco per fare le zozzerie (che poi Mamma diceva sempre “quelli fanno le zozzerie”, ma non avevo mai capito in cosa consistesse in questo concreto esempio “una zozzeria”, forse si baciavano? Forse il bacio, come quello che vedevi nei film, era una zozzeria? Però a me pareva bello.)
Ale continuava a camminare in silenzio. Io lo seguivo. Non sapevo bene che dire per spezzare questo strano silenzio.
“Pensi anche tu che è oggi la puntata in cui Goku si trasforma?”
Nessuna risposta.
“Perché voglio dire, ha appena lanciato la Genkidama su Freezer, mi sa che ci siamo, lo sento nelle ossa. Tu che dici?”
“Dico che Dragon Ball forse non mi piace più.”
Se avessi sentito Ale bestemmiare sarebbe stato meno peggio di sentirgli dire che non gli piaceva più il mondo di Dragon Ball.
La sua risposta mi zittì. Non sapevo più che dire e preferì il silenzio anche io.
Arrivammo ad una radura in penombra dove la luce entrava a malapena dati gli enormi pini ad ombrello fittissimi.
“Siamo arrivati?”
“Non ancora.”
Ale si inerpicò su per una scarpata abbastanza ripida e lo seguì senza battere ciglio. Faceva caldo nonostante l’ombra, e la mia maglietta era ormai del tutto appiccicata alla schiena. E mentre osservavo Ale che saliva, mi rendevo conto sempre di più di quanto fosse più rapido ed agile di me.
Giunti in cima, c’era un’altra radura, più piccola, circondata da cespugli.
A prescindere da tutte le volte che ero stato in questo parco, qui non c’ero mai arrivato. Mi guardai intorno e vidi che l’unico modo di arrivarci era o salendo per la scarpata, e non era una salita facile, né comoda, oppure direttamente dalla boscaglia, dove un accenno di sentiero serpeggiava tra la vegetazione.
Ale si girò e guardandomi gravemente, ma alternando anche sguardi verso le sue scarpe da ginnastica impolverate, mi chiese se mi ricordassi della pistola di suo nonno che una volta mi aveva fatto vedere.
Dissi di sì.
Come dimenticare quel pomeriggio fichissimo quando Papà mi aveva accompagnato a casa del nonno di Ale e lui mi aveva spiegato come sapesse benissimo dove il nonno teneva una sua vecchia pistola?
Mi ricordo che non volevo credergli, pensavo volesse fare solamente il duro, ma Ale non diceva panzane. Quando diceva queste cose diceva il vero, quindi gli avevo creduto, a patto che ovviamente mi facesse vedere questa famigerata pistola.
C’era una piccola libreria in salotto dal nonno. Ricordo che prima verificammo che il nonno stesse veramente facendo il suo solito riposetto pomeridiano ed una volta appurato, Ale prese una sedia e cominciò ad arrampicarsi tra i vari scaffali.
Per quanto fosse agile ed esile, non era alto quanto me e non riuscì ad arrivarci.
“Fai provare a me, dai.”
Si arrese suo malgrado e ci provai io.
Ci mancava poco che con il mio peso maggiore sfondavo uno dei ripiani, ma alla fine con la mano, sentì qualcosa in cima.
Tirai giù una mitraglietta.
Ma era finta, di plastica.
“Ma questa non è vera. È di plastica.”
“Non è quella.”
“Ma non trovo altro. Non c’è mica bisogno che mi dici le bugie, già questa mitraglietta è fichissima.”
Era una replica di quella in dotazione ai carabinieri.
“No, no fidati, sta li. Riprova.”
Continuai a cercare con la mano. Stavo quasi per cadere quando afferrai qualcosa di freddo e metallico. Se era davvero la pistola, l’avevo presa per la canna.
Il cuore mi iniziò a pulsare. Era una vita che volevo vedere una pistola vera. Ogni anno chiedevo a Babbo Natale armi finte, e ogni anno neanche quelle riusciva a portarmi. Maledetto.
Ma ora ero lì, a casa del nonno di Ale, e ne tenevo una in mano. Scesi dalla libreria e poi dalla sedia e tutti e due, in un misto di segno di reverenza e di rispetto, rimanemmo in silenzio ad osservare la rivoltella che avevo in mano.
“Secondo te è carica?”
“Non lo so, il nonno me l’ha fatta vedere una volta ma senza aprirla. Quindi non lo so.”
“Ma non è pericoloso?”
“Si, penso che tutte le armi siano pericolose, stiamo attenti.”
“Mi sento proprio come Tex Willer, cavolo.” E la puntai contro il muro.
“Ecco evitiamo di puntarcela addosso.”
“Non si arrabbia tuo Nonno se sa che l’abbiamo presa?”
“Non deve saperlo. Infatti, ora la guardiamo un attimo, e la rimettiamo a posto.”
“Cavolo, è veramente pesante. Pensi che tutte le pistole siano così pesanti?”
“Non lo so, penso di sì?”
“Se questa è così pesante, pensa che muscoli ti servono per tenerla a mezz’aria quando spari.”
“Pensa invece a quanto può pesare un fucile. Pazzesco, no?”
“Si, fichissimo.”
Rimanemmo così, in silenzio, ad osservare questo oggetto affascinante, pericoloso, poggiato sul tavolo.
C’era qualcosa di innatamente meraviglioso in questa cosa che noi due bambini stavamo li ad ammirare. Era solamente un pezzo di ferro in fin dei conti, vecchio tra l’altro, ma sapevamo entrambi che pezzi di ferro come quello avevano ucciso tantissime persone nelle ultime due guerre mondiali e non solo. Nei fumetti di Tex che leggevo gli indiani d’America le chiamavano “canne tuonanti” e forse non c’era descrizione più accurata. Era impensabile di poter tenere in mano un oggetto allo stesso tempo così pericoloso, ma anche così propenso a far sognare tutti i ragazzini del mondo. Tutti i modelli di eroi che ci circondavano non sarebbero stati tali senza almeno un’arma, o quantomeno un coltello (l’anno prossimo avrei provato a chiedere a Babbo Natale un coltello come quello di Rambo, ma forse sapevo già da adesso che mi sarei dovuto accontentare di un piccolo Opinel). Bastava pensare a Tex, ma potevamo anche riflettere sull’esempio di fumetti oltre oceano, la Marvel e la DC. Tutti, ma veramente tutti i super eroi che tutti i bambini del mondo, bambini come noi, ammiravano, avevano armi di qualche tipo, oggetti per difendersi ma anche per attaccare e soprattutto per salvare vite di altri. E se poi ci fossimo spostati agli esempi del grande schermo con cui ci trovavamo a crescere, sarebbe bastato pensare ai film di Sergio Leone (Papà una volta mi aveva fatto vedere “C’era una volta il West” ma mi aveva anche detto di non dirlo a Mamma che poi si arrabbiava perché’ diceva che era troppo adulto e violento per me) e anche ai più recenti film di Stallone e Schwarzenegger. Insieme a Tex ed il team di Dragon Ball Z, in effetti loro erano i miei idoli assoluti. Speravo un giorno di poter anche io avere gli stessi muscoli, di essere così fico e di poter combattere con le armi per poter raddrizzare torti. Non è forse questo il sogno di tutti i bambini? Diventare eroi, raddrizzare torti, non avere mai paura, salvare la donzella in pericolo e tornare a casa in tempo per cena, magari dopo un bacio sotto alla pioggia?
Abbandonai le mie riflessioni per tornare ad Ale.
“Pensi che ci puoi uccidere una persona?”
“Certo che sì!”
“Beh, però dipende dove gli spari, no?”
“Eh beh, certo. Se gli spari in faccia, muore sicuro. Se gli spari da altre parti, non lo so.”
“Sai che male deve fare se ti sparano nelle palle? Cioè, già fa malissimo quando prendi una pallonata, pensa se ti ci sparano.”
“Non mi ci far pensare.” E così facendo si toccò in maniera protettiva ed automatica quelli che ci piaceva ogni tanto chiamare i “gioielli di famiglia.”
La continuammo a guardare affascinati, ognuno perso nel suo mondo immaginario di avventure, e di che tipo di eroi saremmo potuti essere con un’arma del genere.
“Ok dai rimettiamola a posto prima che Nonno si svegli.”
Mi ri-arrampicai e la rimisi dove l’avevo trovata, ben attento a non toccare il grilletto.
Ale mi continuava a guardare:
“Te la ricordi quindi?”
“Sisi certo, me la ricordo benissimo perché?”
“Lo sapevi che mio Nonno aveva trascritto qualche episodio di quando era militare e quando Roma era occupata dai Nazisti?”
“No, non lo sapevo. Ma che c’entra. Dai dimmi che siamo venuti a fare qui.”
Il nonno di Ale, Nonno Gastone, era fico quasi quanto mio Nonno Umberto. Gli comprava sempre quello che desiderava, gli sganciava ogni tanto qualche soldo per qualche lavoretto e aveva qualche storia buffa e divertente da raccontare del suo periodo durante la “guerra”. Lo dico tra virgolette perché non era mai, fortunatamente, stato mandato al fronte, e le uniche esperienze di simil guerra che aveva avuto erano dovute al presidio di Roma semi occupata dai nazisti, e anche in questo era simile a mio Nonno.
“C’entra che c’è una storia dietro alla pistola.” E così dicendo, la tirò fuori dai pantaloni, mentre con la mano dx, quasi fosse divenuto un tic, si rigrattò il naso tra il dito indice ed il dito medio.
Sgranai gli occhi.
Come era possibile che non mi ero ancora accorto del fatto che ce l’aveva addosso?
“Ale!! L’hai portata qui?? E tuo Nonno?”
“Quando avevo trovato questa sorta di mini diario di mio Nonno, mi era rimasta impressa la storia dietro a questa rivoltella, perché conoscevo questa pistola e noi l’avevamo già vista insieme quel giorno che ti eri arrampicato sulla libreria.”
Tirò fuori dai pantaloncini due pezzi di carta stropicciata ed iniziò a leggere.
“Cap IV: Il misterioso uomo con la valigetta
Sapete cosa si intende quando a Roma si dice “fare una cosa alla volemose bene”? Significa non essere pignoli, magari nell’attuazione di determinate regole, e lasciarsi andare al buon senso, al quieto vivere e al concetto che “chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni”. In altre parole, vuol dire fare le cose “all’acqua di rose”.
Era il 1943 circa. Ero ancora allievo della Regia Guardia di Finanza. Un mio collega ed io eravamo di pattuglia durante il coprifuoco, che andava dalle 17 fino alla mattina dopo e durante il quale nessuno senza un regolare permesso poteva girare liberamente per strada. Fatto sta che, mentre camminiamo, tra due chiacchiere e silenzi imbarazzanti, il mio collega ed io notiamo un uomo che sul marciapiede ci viene rapidamente incontro portandosi appresso una valigetta. Non era una cosa normale veder camminare un uomo, tra l’altro vestito da civile, nell’orario del coprifuoco.
Guardai il mio collega e gli feci velocemente segno di andarsi ad appostare sul marciapiede opposto con il fucile spianato. Non si sa mai, pensavo. Intimai all’uomo l’Alt. Si fermò e mi guardò con aria strafottente come per dire “ma da me che vuoi”. Sapevo che il mio collega, con il fucile spianato, in preda ad una ovvia agitazione, avrebbe potuto premere il grilletto in qualsiasi istante. Ma volevo ad ogni costo cercare di far terminare bene questo strano incontro. Osservai l’individuo che mi stava di fronte, un po’ più basso di me e con un’aria decisamente laida. Gli rivolsi la parola dicendogli:
“Sai bene che c’è il coprifuoco. Che ci fai fuori a quest’ora? Ci sono tre cose che voglio vedere: un documento, un permesso ed il contenuto della valigetta che ti trascini appresso.”
L’uomo mi osservò da cima a fondo, sputò per terra e affermò, con fare arrogante:
“Senti lascia perdere. Fammi andare che ho fretta e basta. Sono un ufficiale, tiè il documento.”
Guardai il documento. Era vero, era un ufficiale. Eppure, c’era qualcosa di strano; non aveva il portamento degno di un ufficiale. La cosa che mi sorprese fu che invece il permesso era scritto in tedesco. Non capivo nulla di quella strana lingua ed anzi mi impauriva anche un po’, aveva una sorta di aura di prestigio il tedesco a quei tempi. Però avevo precisi ordini e intendevo rispettarli. Gli intimai allora:
“Fammi vedere ‘sta valigetta dai. Poi puoi andare e ti lascio in pace.”
Egli continuò a fissarmi con aria di sfida, valutò al volo la situazione, vide che avevo la mano sulla fondina, e riguardò il mio collega. Allora sbuffò e aprì la valigia per terra. Strabuzzai gli occhi.
Era piena di rivoltelle.
“Che ci fai con tutta sta roba?”
La sua risposta, sempre con tono strafottente fu:
“La devo portare qui vicino. C’hai qualcosa da dire a tal proposito? Dai che devo andare sto pure di fretta.”
Lo guardai, riguardai la valigetta, e osservai nuovamente il documento ed il permesso. In che razza di affare era invischiato questo losco individuo?
Come affermavo prima…Prevalse la soluzione alla “volemose bene” o anche “all’italiana”. Gli ridiedi tutto e lo lasciai andare. Sapevo che era stata la cosa giusta da fare. Certo non sarò un eroe, ma in certi casi meglio farsi i fatti propri piuttosto che alzare un polverone senza avere abbastanza dettagli per poter decidere. Si era tutto svolto nel giro di pochi minuti, ma è un episodio che in qualche modo ha lasciato il segno. Anche perché, quando richiuse la valigetta e scappò via come una furia in ritardo ad un appuntamento, non realizzò che una piccola rivoltella era caduta per terra. Non feci neanche in tempo a dirglielo che già aveva voltato l’angolo. Guardai il mio collega, sollevai la rivoltella e me la misi nei pantaloni. Ce l’ho ancora oggi.”
Ale ripiegò il foglio stropicciato, se lo rimise in tasca e continuò a guardarmi mentre io invece non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla pistola, che ficata (!), che gli pendeva dai pantaloncini. Mi sentivo gasato a mille, pur non essendo io quello con l’arma. Era assurdo pensare che suo nonno Gastone l’aveva letteralmente “rimediata” da chissà che tipo di persona tanti anni prima. Il mondo era andato avanti, ma la pistola era sempre lì, a riprova del fatto che più le cose cambiavano, più alla fine rimanevano le stesse.
Margherita Granati
❤️ bravissimo e orgogliosa.
Sabatino Carriaggio (proprietario verificato)
Bravissimo Frank