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Il Cuore nero del Sangue Antico

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Consegna prevista Giugno 2026

Il Segreto di Sir Carnarvon: Tra Mistero e Storia.
Sir Carnarvon non era un semplice aristocratico, ma un visionario. Preferiva i deserti ai salotti, portava taccuini logori e cercava verità nascoste oltre il velo del reale. Ossessionato dall’aldilà e dalle conoscenze perdute, rideva in faccia al pericolo e si nutriva di storie proibite.
Dalle sale vittoriane all’Egitto, dai Maya ai Druidi, dai Templari ad Atlantide, il suo viaggio lo conduce tra popoli e segreti antichi. Ogni civiltà offre un indizio, ogni incontro lo avvicina a un sapere proibito. Ma oscure società segrete e nemici invisibili cercheranno di fermarlo.
Maledizioni, enigmi e coincidenze inquietanti scolpiscono il mito di un uomo sospeso tra storia e leggenda.
Un romanzo che vi condurrà oltre il tempo, tra sogno e realtà. Lasciatevi catturare dal mistero. Scoprite la storia di Sir Carnarvon.

Perché ho scritto questo libro?

Non ho scritto per raccontare. Scrivo per lasciare andare.
Questo libro non l’hai trovato: ti ha scelto.
Non serve credere, ma sentire.
Tra enigmi e viaggi, parla a quella voce muta che sa che c’è di più.
Il protagonista cerca, come te.
Finzione? Forse. Ma ogni specchio mente dicendo la verità.
Non offre risposte, ma domande che pungono.
E certe domande, una volta nate, diventano ferite luminose.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Il Cuore nero del Sangue Antico

Intorno alle due di quella notte, Carnavorn giunse davanti all’ingresso della prestigiosa University of Sussex, situata a Falmer, immersa in un’area di incantevole bellezza naturale. Parcheggiò la sua auto accanto al vecchio edificio, scavalcò con grazia la recinzione in ferro battuto, entrò nell’oscurità silenziosa dell’università, dove l’austera maestosità si svelava lentamente.

L’interno della struttura emanava un’aura di profonda solennità, avvolta in un’atmosfera inquieta e misteriosa. Corridoi lunghi e desolati si snodavano attraverso pannelli di legno scuro, scolpiti con decorazioni intricate che sussurravano storie di epoche passate. Le alte volte, sostenute da pilastri massicci di pietra grigia, si ergevano minacciose, creando un’architettura gotica che incuteva reverenza e timore. Fioche luci tremolavano attraverso vetrate istoriate, proiettando ombre colorate sul pavimento in pietra consumato dal tempo, segnato dai passi di secoli di studiosi, ciascuno con segreti da custodire.

Al centro del complesso si stagliava la biblioteca, un cuore pulsante avvolto nel mistero, un luogo di bellezza e storia quasi tangibile. Sir Carnavorn si fermò per un istante, il respiro soffocato dal silenzio, mentre l’oscurità lo avvolgeva come un mantello, portandolo sempre più vicino alle verità nascoste che il tempo aveva conservato per lui. L’ingresso era segnato da un portale imponente, realizzato in quercia massiccia, con borchie di ferro battuto che si dicevano forgiate da mani esperte di artigiani medievali. Sopra il portale, un’iscrizione in latino recitava: Sapientia Aeterna Lumen ( La saggezza è la luce eterna ), un monito che accoglieva ogni visitatore in cerca di conoscenza.

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L’interno della biblioteca si apriva in una vastità mozzafiato. Soffitti a cassettoni, decorati con intagli dorati e motivi celestiali, si ergevano sopra file interminabili di scaffali che raggiungevano altezze vertiginose. Le librerie, fatte di legno scuro e lucido, erano colme di volumi antichissimi, le cui copertine in pelle erano adornate da fregi in oro e titoli incisi a mano. Tra di essi si trovavano manoscritti rari, incunaboli e codici miniati, protetti da sottili veli di polvere che sembravano conferire loro un’aura sacrale.

Al centro della sala principale si trovava un grande tavolo di studio, lungo e pesante, realizzato in noce antico. La sua superficie era segnata da graffi sottili e macchie di inchiostro, testimonianza delle molte generazioni di studenti e studiosi che vi avevano lavorato. Su di esso, erano disposte antiche mappe, globi terrestri e strumenti di calcolo astronomico che sembravano appartenere a un’epoca remota. Le lampade, ornate con paralumi in vetro color ambra, diffondevano una luce calda e tremolante che contribuiva a creare un’atmosfera intima e contemplativa.

In fondo alla sala, un’imponente scala a chiocciola, realizzata in ferro battuto con particolareggiati intarsi di intricati simboli massonici, conduceva a un piano superiore, dove si trovavano le sezioni più riservate. Qui, sotto chiave, erano custoditi i tomi più preziosi: pergamene fragili scritte in lingue perdute, volumi di alchimia, astronomia e filosofia antica. Alcuni di essi portavano segni di annotazioni misteriose, realizzate a margine da mani sconosciute.

Nell’aria, un aroma unico: una miscela di pelle, polvere antica e cera d’api, proveniente dal legno impregnato dalle ripetute lucidature che avevano visto protagoniste quelle antiche librerie.

La biblioteca non era solo un luogo di studio; era un santuario della sapienza, un portale verso il passato, capace di ispirare in chi la visitava una devozione profonda verso i segreti che custodiva e un senso di appartenenza a un sapere eletto ed eterno. Antichi candelabri spenti nel tempo giacevano su piccoli altari votivi alla conoscenza.

Arrivato allo stabile designato ne aprì il grosso portone di entrata forgiato in pregiatissimo legno di ciliegio, con una chiave sorella dell’originale di cui ne aveva fatto fare illecitamente una copia.

Percorse un lungo e stretto corridoio, i suoi piedi appoggiavano su un fine pavimento in marmo bianco di Carrara che ricopriva anche parte della parete, in quel momento illuminato dalla luce fioca di piccoli lumini che sembravano grosse tarantole nere aggrappate sui muri, dando a quel corridoio un aria cupa. Lo stesso conduceva all’antica biblioteca. Quando arrivò alla porta, sentiva il cuore battergli forte in gola e prima di spingere in basso la maniglia per aprirla prese un lungo respiro ansioso di ciò che lo aspettava.

Entrò, la sala era completamente immersa nel buio, un’oscurità avvolgente che sembrava risucchiare ogni suono e movimento. Sir Carnavorn prese un altro profondo respiro, un’abitudine che si era imposto ogni volta che apriva quella porta. Amava riempire i polmoni con l’odore unico e inebriante che solo le antiche pagine di carta potevano emanare, impregnate di secoli di saggezza e segreti.

Strizzò gli occhi, cercando di penetrare l’oscurità con lo sguardo, pronto a cogliere anche il più fuggevole fremito nello spazio rarefatto della sala. Dopo un istante sospeso nel silenzio, in fondo alla navata si accese una tenue lucina, pulsante come il battito incerto di un cuore nascosto: era il segnale. Quello convenuto con Mark per i loro incontri segreti, intessuti d’ombre e urgenze.

Con passo risoluto ma silenzioso, Sir Carnavorn si avvicinò. La luce intermittente sembrava guidarlo nel buio come un richiamo antico. Ad attenderlo, immobile nel mezzo della penombra vibrante, c’era Mark. L’uomo pareva scolpito nel buio, il volto appena visibile, tagliato da un’espressione tesa, quasi febbrile.

«Conte, ci siamo,» mormorò Mark, con un sussurro che aveva il sapore di una resa o di un giuramento. «Ho quello che cercavamo da troppo tempo.» Un sussulto attraversò il petto di Carnavorn un fremito improvviso, sepolto da tempo sotto la calma apparente del suo controllo. L’emozione lo sfiorò con dita gelide, cogliendolo alla sprovvista. Non era sorpresa, ma il riconoscimento istantaneo di un destino che aveva sempre saputo sarebbe giunto, e che ora, infine, si manifestava. «Come ci sei riuscito?» chiese, la voce densa di attenzione e gravità.

Mark si avvicinò, gettando un rapido sguardo alle loro spalle, quasi temesse che la notte li stesse spiando. «Il monaco dell’Abbazia di Battle Abbey,» sussurrò, come se pronunciare quel nome potesse risvegliare presenze sopite. «Battle Abbey…» ripeté Carnavorn, la mente già percorsa dai sentieri oscuri della memoria. L’eco di un’epoca remota lo avvolse — quella battaglia del 1066, Aroldo contro Guglielmo, il sangue degli anglosassoni versato sul suolo di Hastings, e sopra quelle rovine, l’abbazia innalzata come monumento alla conquista. Un luogo consacrato al silenzio, ma impregnato di ombre che non si erano mai disperse.

Si fermò un istante, il volto velato da un’ombra interiore. «Sapevo che quel monaco sarebbe stato la chiave. Troppo tempo ho atteso, ma ora il varco si apre.» Mark annuì con gravità. «Non c’è nulla che possa avvicinarci di più a ciò che stiamo inseguendo. Nulla.»

Il silenzio che seguì non era vuoto, ma vivo, carico di respiri trattenuti e presagi taciuti. Le pareti sembravano stringersi attorno a loro, come se la sala stessa custodisse e al tempo stesso temesse ciò che stava per accadere. Con gesto misurato, Mark estrasse dalla tasca interna del trench un cilindro metallico, di rame scurito dal tempo e dalle intemperie della storia. Lo svitò con lentezza, come chi apre una tomba antica. Ne srotolò il contenuto sulla scrivania con mani ferme, ma cariche di reverenza. La pergamena, antica e perfettamente conservata, si dispiegò sotto i loro occhi come un segreto rimasto intatto nei secoli. «Conte,» disse Mark con voce soffocata da una solennità quasi religiosa, «ecco ciò che tanto cercavate.» Carnavorn trattenne il fiato. La sua torcia tascabile proiettava un alone tremulo sulla superficie del documento. Lo osservò con occhi fissi, accesi da un fuoco interiore. Ogni fibra del suo essere era tesa: il cuore martellava come se l’intero universo, in quell’istante, fosse racchiuso tra quei simboli incisi sul tempo. «Magnifico…» mormorò infine, come se parlasse a sé stesso, o a qualcosa di invisibile che stava ascoltando. «Sapevo che almeno uno di questi frammenti era sopravvissuto. Ed ora è qui… qui, davanti a me.»

Si volse lentamente verso Mark. La sua voce si fece più bassa, ma al contempo più grave, come il rintocco di una campana funebre: «Con questo documento… si aprono le porte di un cammino che cambierà ogni cosa. È l’inizio. O la fine.» Mark lo fissava, scrutando con attenzione ogni piega del suo volto, cercando in quegli occhi profondi la chiave di un mistero troppo vasto per essere compreso. «Conte… cosa significa? Cosa abbiamo trovato davvero?» Carnavorn sollevò lentamente lo sguardo dalla pergamena. I suoi occhi scintillavano nel buio con la fredda luce di chi ha contemplato l’abisso e ha deciso di entrarvi. «Abbiamo trovato ciò che ci condurrà alla verità. Non a una verità… ma alla Verità. Quella che solo in pochi hanno osato sognare… e in pochissimi hanno sopportato.» Il silenzio tornò a colmare ogni angolo della stanza. Ma ora era un silenzio denso, colmo, come il respiro trattenuto di un mondo sull’orlo della rivelazione. L’oscurità li avvolgeva, complice e minacciosa, pronta a custodire o a divorare i segreti appena liberati.

Mark tacque, come pietrificato dalla forza delle parole appena pronunciate. Il silenzio si fece denso, quasi sacro, colmo di un’intensità che sembrava provenire da una fonte invisibile, ma palpabile. Il suo sguardo era fisso su Carnavorn, che intanto passava la mano sul documento con una lentezza devota, come se accarezzasse la pelle viva di una donna perduta nel tempo una carezza intrisa di rispetto, brama e antica malinconia. L’aria attorno a loro vibrava, pervasa da un’energia elettrica e inquieta. I contorni della sala sembravano sfumare, dissolversi nell’ebbrezza di quell’istante sospeso tra il reale e l’ignoto. Tutto ciò che era profano veniva respinto ai margini della coscienza: non esisteva più che quella pergamena, fragile custode di verità sepolte e potenzialmente pericolose.

La luce tremula della torcia tascabile gettava riflessi incerti sul volto di Carnavorn, scolpendone i tratti in una maschera di concentrazione quasi estatica. L’ombra delle sue ciglia si distendeva sui suoi zigomi. I suoi occhi erano fissi sulla pergamena, attraversati da bagliori febbrili, mentre l’animo sprofondava in un abisso denso di significati arcani. Le parole antiche, tracciate con una calligrafia d’altri tempi, sembravano respirare sotto la sua attenzione, come se, nel silenzio della sala, esse stesse attendessero di essere rivelate. Carnavorn iniziò a tradurle con voce bassa, quasi un sussurro. Ogni frase, ogni simbolo decifrato, era come un frammento strappato al cuore stesso della notte.

Con una sorta di fervore sacrale, pronunciava quelle formule dimenticate, parole che parevano venire da un mondo dimenticato, da un’età in cui la conoscenza era potere e maledizione insieme. Ogni sillaba pareva depositarsi nell’aria come polvere sacra, ogni significato si insinuava come veleno o balsamo nelle pieghe della realtà. Mark osservava in silenzio, incapace di distogliere lo sguardo, come se temesse che qualsiasi interruzione potesse infrangere l’incantesimo. Sentiva che qualcosa stava cambiando nell’aria, nella stanza, forse nel mondo stesso. Un cambiamento sottile e implacabile, come il lento avanzare di una marea nera. E Carnavorn, rapito, continuava a decifrare. Le sue dita seguivano il tracciato antico con riverenza e brama. Era l’uomo e l’ombra, il sacerdote e il peccatore, il cercatore e il condannato. Quel documento non era solo una reliquia. Era un varco.

E da quel varco, qualcosa stava già iniziando a passare.

All’improvviso, un tonfo ovattato lacerò il silenzio tombale che incombeva sulla sala. Carnavorn e Mark scattarono con lo sguardo verso la fonte del trambusto. Nelle tenebre, le ombre si animavano, dense e fameliche, prendendo forma in figure sinistre che avanzavano con passo misurato e minaccioso, come spettri evocati da una suggestione dimenticata. Un gelo aguzzo corse lungo la spina dorsale di Carnavorn. Con riflessi rapidi, avvolse la pergamena con mani febbricitanti e la ripose nel cilindro di rame, quasi temesse che la luce stessa potesse profanarne il segreto. Mark, senza proferir parola, spense la lampada con un gesto netto. Il buio cadde su di loro come una lama, assoluto, impenetrabile, liquido.

E fu la fuga.

I loro corpi si mossero come ombre tra ombre, scivolando tra scaffali vetusti e pavimenti scricchiolanti, guidati da una memoria ossessiva del luogo. Con chirurgica precisione, attraversavano le corsie come se la notte li avesse plasmati per quel momento. Ma dietro di loro, i passi si facevano sempre più vicini, il battito sordo di un’ira silenziosa che si faceva carne.

Una sagoma scattò fuori da una colonna, fendendo l’aria con una lama ricurva. Carnavorn la intercettò con un movimento secco del braccio, deviando il colpo con un vecchio volume legato in pelle che volò in mille pagine prima di colpire il suolo. La figura sibilò un’imprecazione, ma non ebbe tempo per altro: Carnavorn colpì alla gola con il bordo del gomito, una mossa rapida e brutale. Il nemico crollò con un tonfo pesante tra le braccia del buio.

Mark, nel frattempo, si era gettato in un passaggio laterale che conosceva a memoria, un corridoio angusto tra due archivi chiusi al pubblico, dove i gradini si abbassavano in un’oscura spirale di pietra. “Da questa parte!” gridò, la voce un sibilo concitato. Carnavorn lo seguì, schivando un colpo sferrato da un secondo inseguitore che piombò dall’alto di una balconata.

Il passaggio era stretto, basso, con le pareti fredde che trasudavano umidità e polvere antica. Ogni passo era un’eco metallica, ogni respiro un rantolo. Dietro di loro, altri passi si insinuavano nel corridoio, in rapida sequenza. Qualcuno conosceva quel percorso quanto loro.

«Dannazione, ci stanno braccando come segugi!» sibilò Mark, inciampando su una lastra sconnessa.

«Non fermarti. Se arriviamo al secondo snodo, possiamo chiudere il varco!» rispose Carnavorn. Uno scatto, poi un colpo secco: tirò una leva arrugginita incassata nel muro. Dietro di loro, una lastra di pietra scese con fragore, sbarrando l’accesso al tunnel e separandoli per un istante dal respiro degli inseguitori.

Ma il silenzio durò appena un battito. Grugniti, urla sorde, mani che artigliavano la pietra. Una voce crudele si alzò tra gli echi: «Non fuggiranno. Il sangue li guiderà.»

Emergendo da un arco secondario, giunsero alla Sala dei Globi, un vasto ambiente circolare disseminato di antichi strumenti astronomici. I vetri delle cupole sopra di loro tremavano, e un’ombra colossale sembrò passare oltre, oscurando per un istante ogni riflesso. Svoltarono in un corridoio secondario. Una fila di busti marmorei li osservava con espressioni antiche e indifferenti. Il chiarore lattiginoso della luna filtrava da una vetrata alta, svelando brevemente le figure degli inseguitori alle loro spalle: alti, silenziosi, e ora… armati.

Un altro gruppo di figure emerse dall’estremità opposta della sala, lame lucenti, cappucci neri, mantelli che fluttuavano come corvi. Carnavorn afferrò un’asta di ottone e la brandì come una lancia. «Indietro!» ringhiò, mentre lanciava il pesante strumento contro il primo degli aggressori. Il metallo colpì il volto celato sotto il cappuccio, spezzando ossa e lasciando dietro sé un urlo soffocato.

«Passaggio sotto il planetario!» gridò Mark, indicando un’apertura semicircolare nel pavimento, da cui saliva un soffio d’aria stantia.

Scesero tra scrosci di polvere e antichi odori dimenticati. Le scale cedevano sotto i piedi, ma reggevano. Il tunnel che li accolse era un tempo usato dai bibliotecari per trasportare documenti rari – ora diventava la loro unica via di salvezza. Alle loro spalle, la discesa si popolava di scricchiolii e versi distorti. Le voci degli inseguitori si mescolavano a un suono basso e profondo, come un lamento del sottosuolo.

Quando finalmente raggiunsero la fine del cunicolo, il portello in ferro si aprì su un’ala laterale abbandonata della biblioteca. Da lì, scivolarono attraverso corridoi dimenticati fino all’uscita secondaria. Le porte si chiusero dietro di loro con un colpo secco, come un giudizio inappellabile.

Fu allora che la voce si alzò, profonda, cavernosa, grondante veleno e maledizioni. «Non devono sfuggirci. Prendeteli, o ciò che siamo sarà polvere e dimenticanza. Muovetevi!»

«Sì, Conte Blakett…» rispose un’eco servile, obbediente come un’ombra incatenata. Quel nome cadde nella notte come un anatema, penetrando l’aria e le ossa con la gelida forza di un coltello affondato nel cuore.

Carnavorn sentì il sangue farsi più denso, il cilindro stretto nel pugno quasi gli bruciava la pelle. La consapevolezza del pericolo lo artigliava al petto: la notte era cominciata, e nulla sarebbe più stato certo.

Correvano a perdifiato lungo il controviale, i polmoni che bruciavano, i passi un ritmo martellante sull’asfalto scuro. Quando raggiunsero il lato ovest dell’edificio, Carnavorn intravide la sua auto – ma le gomme erano state squarciate con furia chirurgica. L’odore della sconfitta si insinuava nell’aria, un presagio nero.

«Dove hai parcheggiato la tua?» domandò con voce tagliente, la tensione che gli colava dagli occhi.

Mark esitò, il fiato corto. «Al solito posto…» rispose tra i denti, una vena di collera sotto la frustrazione.

Carnavorn si fermò. Lo fissò. «Hai sentito quel nome?»

Mark annuì, il sudore freddo che gli rigava la tempia. «Chiaramente. Conte Blakett. Ma chi è? Chi può essere?»

«Lo scopriremo presto. Troppo presto…» mormorò Carnavorn, prima di riprendere la corsa.

Un lampione esplose alle loro spalle con un bagliore improvviso, una pioggia di vetro che illuminò per un istante le sagome dei persecutori. Figure vestite di nero correvano compatte, silenziose, determinatissime. Alcune si riversavano lungo i vialetti laterali, sbucando da ogni angolo come se il buio stesso le partorisse.

Mark arrancava, ansimando con le gambe corte che si muovevano come pale impazzite, un mulino d’acqua in tempesta. Era un uomo basso, compatto, sulla quarantina, con occhi rotondi e scaltri. Nonostante la stazza e il fiatone, sprigionava un’energia disperata, come un animale in trappola che lotta per la fuga.

Accanto a lui, Carnavorn correva con fluida determinazione. Alto, i lunghi capelli mossi dal vento della corsa, gli occhi chiari come vetro antico, un nocciola che sfiorava l’ambra. Il suo volto regolare, scavato dalla vita, portava l’impronta dell’abisso: naso diritto, labbra precise, uno sguardo che tagliava la notte. Ogni cicatrice sul suo corpo era una pagina di storia. La più preziosa, una ferita profonda sul petto, gliel’aveva inflitta un guerriero dei Baka durante uno scontro nel cuore selvaggio del Congo. “La mia medaglia più vera”, soleva dire.

Giunsero al cancello. Mark tentò di scavalcarlo, ma il suo corpo lo tradiva. Carnavorn lo sollevò con vigore, spingendolo in alto con una forza quasi paterna.

Poi il brusio. Un bisbiglio maligno. «Eccoli… i dannati… sono nostri!»

Carnavorn si voltò di scatto. Uomini incappucciati stavano emergendo dall’oscurità, figure nere e alte, avvolte in mantelli lugubri, con cappucci conici che celavano completamente il volto. Solo due occhi vuoti, traforati nel tessuto, sembravano brillare come brace.

Mark atterrò malamente, ruzzolando su se stesso e gemendo mentre si massaggiava il fondoschiena, imprecando a denti stretti. Carnavorn, intanto, scalava le sbarre con la grazia di un felino antico. Le sue braccia erano archi tesi, i muscoli vibranti come corde al limite della rottura. A metà altezza, sentì il gelo. Un tocco. Una mano lo aveva sfiorato alla caviglia – dita gelide e ossute, come artigli usciti dalla tomba.

Con un sussulto, scattò all’indietro, guadagnando slancio. Con un colpo secco, si issò e superò il cancello in un sol gesto. Atterrò con eleganza silenziosa, i capelli che si sollevavano come ali nell’aria. Ma nel cuore del gesto, sentì quel tocco ancora. Un’impronta invisibile che sembrava marchiargli l’anima.

Riuscirono a liberarsi dall’abbraccio dell’oscurità, ma il senso di pericolo non svaniva mai. I loschi inseguitori si aggrapparono al cancello, frustrati e affannati. Le loro mani, grondanti sudore e livide d’odio, scivolavano inutilmente lungo le sbarre fredde, mentre dalle loro gole emergevano maledizioni gutturali, invocazioni nere come la pece, cariche di rancore antico. I volti celati sotto i cappucci sembravano distorti da una furia primordiale, il respiro affannoso come quello di bestie ferite e affamate.

Mark, con il fiato corto, indicò un punto oltre i cespugli. “È lì,” disse sottovoce, “la mia auto.”

Carnavorn annuì, senza perdere tempo. “Andiamo.”

Raggiunsero il veicolo, e Mark si mise subito al volante. Il motore si accese con un ringhio secco, e l’auto balzò in avanti, scomparendo tra le ombre. Le ruote stridevano sull’asfalto umido mentre si lasciavano alle spalle il cancello e le grida confuse degli inseguitori.

Dentro l’abitacolo, nessuno parlava. Il rumore del motore e il battito accelerato del cuore erano tutto ciò che restava. Carnavorn sedeva rigido, il cilindro stretto tra le mani come fosse l’ultima certezza rimasta.

“Cosa facciamo adesso?” chiese Mark, gli occhi fissi sulla strada nera.

“Ci allontaniamo, mettendo più distanza possibile tra noi e loro” rispose Carnavorn, freddo. “Poi penseremo al resto.”

L’auto si perse nel buio, mentre il mondo alle loro spalle sembrava sospeso in attesa.

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Patrik ZetA
Viaggiatore solitario, raccolgo silenzi e sorrisi, frammenti di mondo nascosti tra la polvere e la luce. Amo l’archeologia, l’arte, ma soprattutto la fotografia: uno sguardo rapido che coglie l’assurdo, il buffo, il vero. Al Ministero dell’Interno cambio spesso pelle: uffici, ruoli, strade. L’inquietudine è la mia bussola. Sono sereno, ironico, a volte sfuggente. Piaccio e infastidisco con la stessa naturalezza. Non cerco eroi, solo autenticità. Mi piace perdermi nella malinconia dolce della solitudine, o lasciarmi trascinare dall’allegria più semplice. Vivo in bilico tra profondità e leggerezza, dove nulla è scontato e tutto può brillare, anche solo per un istante.
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