Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors

Il dolce sussurro del male

Copia di 740x420 - 2025-05-23T121730.849
8%
184 copie
all´obiettivo
95
Giorni rimasti
Svuota
Quantità
Consegna prevista Febbraio 2026
Bozze disponibili

Se potessi avere un superpotere, quale sceglieresti?
Per Luca Vanni, giovane mago e illusionista milanese squattrinato e in crisi, la risposta arriva con l’incontro di Dimitri Velan, un misterioso magnate moldavo che gli insegna una tecnica arcana: un potere occulto tramandato nei secoli, che si dice abbia forgiato tiranni e imperatori. Sedotto da questa forza antica, Luca intraprende l’ascesa verso fama e ricchezza, rapida e incontrastata, ignaro che ogni dono esige sempre un prezzo da pagare. Un giorno, sulla sua strada appare Mei Lin Chen, una giovane donna cresciuta in un monastero tibetano con i principi del buddismo, e portatrice di un potere ancestrale: il tocco della redenzione. L’incontro tra Luca e Mei Lin dà inizio a un duello tra manipolazione e compassione, potere e riscatto, in un susseguirsi avvincente di colpi di scena. Mentre la tensione cresce, antichi segreti vengono a galla, rivelando che le radici di quei poteri sono più oscure di quanto chiunque immagini.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questo libro perché sentivo l’urgenza di raccontare una storia che, prima di tutto, ha folgorato me. Perchè non volevo che questa idea finisse come tante altre, chiusa in un cassetto per mancanza di tenacia. Perchè avevo voglia di indagare la natura ambigua dell’essere umano, la continua tensione tra la sua parte oscura e quella che cerca redenzione. Perchè volevo scrivere una storia capace di intrattenere e far riflettere allo stesso tempo. Spero davvero di esserci riuscito.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Capitolo 1 — Dimitri Velan

Monti Carpazi – 1984

Le cime montuose si stagliavano come un drappo bianco e silenzioso, velate da una neve che pareva eterna. Il vento si insinuava tra gli alberi spogli come un sussurro antico, trascinando con sé fiocchi gelati e sprazzi di nebbia tagliente.
Sulla cresta di un’altura scoscesa, incastonata tra le rocce, si ergeva una piccola costruzione in pietra, un rudere abbandonato nel gelo e nell’oblio. Alcune travi del tetto si erano arrese al tempo; le porte giacevano divelte; le finestre sembravano occhi ciechi, spalancati sul nulla.

Dalla bruma emerse una figura.

Un giovane uomo, non più di venticinque anni, vestito con indumenti logori che non bastavano a fermare il freddo. Camminava con lentezza, trascinando i piedi nel fango gelato. I suoi occhi febbrili erano persi in un orizzonte che solo lui vedeva. Salì a fatica i gradini dell’antico portico, come un penitente che varca la soglia dell’ignoto.

All’interno del rudere, l’aria era densa di freddo e silenzio sospeso. Le assi del pavimento misuravano ogni suo passo, di fronte a lui un grande camino con il focolare nero di tempo e abbandono. In un angolo, resti d’ossa animali — forse reliquie di un sacrificio o forse semplici scarti dimenticati. Una lanterna a petrolio giaceva su un vecchio tavolo al centro della stanza, la piccola fiamma tremolante sembrava dare vita agli affreschi che adornavano le pareti. Ritraevano un uomo e una donna, senza dubbio di nobile lignaggio, tanto era evidente la magnificenza delle corone che ornavano le loro teste. Accanto a ognuno di loro era rappresentata una figura evanescente, simile ad un’ombra, che sembrava sussurrasse nelle loro orecchie.

Continua a leggere

Continua a leggere

Davanti a un piccolo braciere acceso, era seduto un vecchio. Aveva la pelle sottile come carta antica, gli occhi vuoti, spenti e rivolti al nulla. Non parlava e non si muoveva. La sua era una presenza che sembrava un’attesa.

Il giovane si inginocchiò di fronte a lui con le mani tremanti e mormorò:

«Vago da tre giorni e tre notti. Solo neve, digiuno e silenzio.»

«Un sogno antico vela il tuo spirito e ti annebbia la mente come fumo d’incenso in una cripta chiusa,» disse il vecchio, con la voce ruvida come la roccia. «Raccontami del sogno.»

Il ragazzo lo guardò. Quegli occhi velati di bianco sembravano vederlo dentro, scavarne i pensieri. Abbassò lo sguardo, come per difendersi.

«Mia madre… la sentivo chiamarmi. Mi cercava. Il cane di mio padre… impiccato. Una lingua che non conosco… ma parlava di me.»

Il vecchio si alzò lentamente. Ogni gesto era misurato, solenne. Si eresse con la gravità di chi non obbedisce alla terra, ma la comanda.

«Se vuoi che gli uomini ti seguano senza mai dubitare, se desideri che ti obbediscano senza sapere perché, dovrai sacrificare qualcosa di tuo. Non sarà la tua coscienza — quella svanirà da sola, giorno dopo giorno. Ma il tempo, quello sì. Rinuncerai al tuo tempo, e con esso, al tuo respiro più lungo.»

«Ho tutto il tempo che serve,» rispose il giovane.

Lentamente, il vecchio aprì un tomo antico, rilegato in pelle rossa. Sulla copertina vi era un simbolo inciso: un orecchio stilizzato, contornato da lettere in cirillico e glifi sconosciuti. All’interno, le sue pagine emanavano un odore di terra e muffa, formule e simboli arcaici correvano tra le righe come serpenti risvegliati da un lungo sonno. Successivamente, l’anziano divinatore svelò un’ampolla avvolta in una stoffa scura: all’interno, un fluido scuro si muoveva come se respirasse.

Baciò l’ampolla e la sollevò al cielo. Cantilenò parole antiche, in una lingua che sembrava scolpita nei secoli, poi si tagliò il palmo della mano e fece colare il sangue sul piccolo recipiente. Il fluido nell’ampolla si mosse con velocità crescente, come se volesse librarsi in aria.

Il vecchio avvicinò l’ampolla al viso del ragazzo ancora inginocchiato e la aprì. Il fluido fuoriuscì, insinuandosi nelle sue narici. Poi, appoggiando una mano sulla sua testa, il vecchio disse con tono solenne: «Chi possiede questo dono… vive come una stella. Più luce dà… più in fretta brucia.»

Al pronunciare di quelle parole, una folata di vento gelido attraversò la casa, il braciere sfrigolò.

Il corpo del giovane si irrigidì e iniziò a tremare. Gli occhi si spalancarono, mentre le vene sul collo e sulle braccia si scurirono per qualche istante. Il pavimento tremò, poi… silenzio.

Il giovane cadde a terra, ansimando. L’eco della voce del vecchio gli rimase nella testa.

«Ora ti ascolteranno. Tu non abiterai più lo stesso corpo che, d’ora in poi, parlerà una lingua diversa.»

Il vecchio si mosse con passo lento e sparì dietro una tenda.

Il giovane ragazzo si rialzò lentamente, si passò una mano sul volto.

Non era più lo stesso.
E non lo sarebbe mai più stato.

Un’altra folata di vento penetrò dalla porta sfondata, sollevando cenere e neve.

Capitolo 2 — L’illusione dell’illusionista

Milano, 2025. Una sera qualunque.

Il pub odorava di birra calda, fritto stantio e rassegnazione. L’aria era densa, umida, e vibrava appena sotto il ronzio dell’impianto audio, come un malessere di fondo che nessuno nominava.

Il palco era piccolo, appena rialzato da terra, il legno scricchiolava sotto i passi incerti di Luca Vanni, il mago illusionista che si stava esibendo quella sera.

Le luci, troppo basse per sembrare teatrali e troppo fioche per creare intimità, lasciavano ombre malate negli angoli del sipario, come presenze stanche in attesa di essere congedate.

Una ventina di persone erano sparse tra le sedie del locale. Non c’era silenzio, né attenzione, qualcuno mangiava con svogliata indifferenza, altri con lo sguardo rivolto verso il proprio telefono. Un adolescente rideva in modo sguaiato, senza nemmeno nascondere il sarcasmo. In prima fila, una donna con il rossetto sbavato e lo sguardo stanco, sbadigliava con teatralità.

Luca era sudato. Non di quel sudore da palcoscenico, carico di tensione creativa e desiderio di riuscire. No, era il sudore di chi sa che qualcosa sta per crollare e non ha alcun modo per impedirlo; di chi si rende conto che la realtà non ha alcuna intenzione di piegarsi alla propria volontà, eppure insiste, cocciuto, nel tentativo di plasmarla.

Andava avanti con caparbietà. Impostava la voce come aveva fatto decine di volte davanti allo specchio, negli anni in cui ancora credeva che bastasse il timbro giusto, l’intenzione giusta, per tenere viva la magia. Come se bastasse la voce, da sola, a riempire un vuoto che ormai sembrava troppo vasto.

«Signore e signori…» disse, «ora vi chiedo solo un po’ della vostra concentrazione. Pensate a un numero tra uno e cento. Qualsiasi numero.»

La sua voce si perse in mezzo a una risata grassa dal fondo della sala. Uno spettatore alzò una mano con fare teatrale, sfidandolo. Luca lo indicò.

«Bene, signore… ha pensato al ventisette, vero?»

L’uomo lo guardò con un sopracciglio alzato. «No, cinquantaquattro.»

Luca accennò una risata nervosa e incerta.

«Beh… quasi. Due cifre su due, è già qualcosa.»

La battuta cadde come un sasso nell’acqua stagnante, una risata forzata si spense prima ancora di nascere. Provò con un trucco di carte, ma gli tremavano le mani. Durante l’esecuzione del numero, un uomo alzò la voce per ordinare una birra al cameriere, distraendolo del tutto.

Il vociare del locale tornò a salire. Il palco si era di nuovo allontanato, come se lui non ci fosse mai stato. Luca rimase immobile un istante, tenendo il mazzo con una gestualità inutile, poi lo lasciò cadere lentamente sul tavolino di scena.

Nessuno se ne accorse.

«Magia…» mormorò piano, quasi solo per sé, «serve solo se c’è qualcuno disposto a crederci.»

Stette lì, in silenzio. Come uno spazio lasciato vuoto da chi non si presenta.

Il sipario cominciò a scendere, le luci si abbassarono ancora, qualche applauso svogliato rimbalzò contro le pareti, più per abitudine che per merito.

Luca rimase lì, dietro il velo di stoffa, con la sensazione che ogni trucco fallito avesse tolto qualcosa. Non al pubblico, ma a lui.

Scese dal palco a testa bassa. Ogni gradino scricchiolava sotto i suoi passi come un promemoria.

Quella non era più magia, era sopravvivenza.

Capitolo 3 — La prossima volta

Il freddo della sera gli mordeva la pelle come una lama sottile. Luca era appoggiato al muro esterno del locale, le spalle curve e il cappotto troppo leggero per quella temperatura. Le dita gli tremavano mentre accendeva l’ennesima sigaretta, il fuoco del fiammifero danzava un istante prima di morire. Un tiro profondo e il fumo si mischiò al vapore del suo respiro, confondendosi nell’aria umida di quella sera di gennaio.

Il cellulare vibrò nel suo taschino. Lo schermo si illuminò brevemente, svelando il testo del messaggio:

“Saldo disponibile: -87,40 €”

Luca rimase a fissare quelle cifre per un momento, come se aspettasse che si aggiornassero da sole, che qualcosa cambiasse. Ma il numero rimase lì, impietoso. Abbassò lentamente lo sguardo, poi fece un altro tiro dalla sigaretta, più lungo, più rabbioso.

Le porte del locale si aprirono dietro di lui, lasciando uscire una scia di rumore e voci. Alcuni spettatori ridacchiavano mentre andavano via, la serata per loro era già diventata un aneddoto da raccontare.

Due ragazzi gli passarono accanto e non fecero nulla per abbassare la voce.

«Doveva essere uno spettacolo di mentalismo, non di autolesionismo,» disse il primo, ridendo.

L’amico lo seguì con finta sorpresa negli occhi. «Oh, mio Dio, è lui! Il grande David Copperfield!!»

Scoppiarono a ridere, allontanandosi tra le ombre della strada.

Luca rimase immobile, le pupille ancora puntate sulla loro sagoma in dissolvenza. Non disse nulla, non ne valeva la pena. Il silenzio era una corazza che ultimamente indossava sempre più spesso.

Un’altra coppia gli passò accanto, questa volta due anziani. L’uomo, col volto gentile, si fermò un attimo e gli rivolse un sorriso compassionevole, poi gli diede una pacca sulla spalla, come si fa con un nipote deluso dalla vita.

«Coraggio, figliolo. Forse la prossima volta…»

Luca ricambiò con un sorriso spento, vuoto, ma non ingrato. Poi portò la sigaretta alle labbra e fece l’ultimo tiro. Il tabacco gli bruciò la gola.

«La prossima volta…» mormorò appena, come un’eco destinata a spegnersi nel nulla.

Gettò la cicca sul marciapiede e si allontanò lentamente, il passo incerto lungo il buio del viale, con le mani in tasca e il cuore a pezzi.Capitolo 4 — L’uomo al tavolo

L’indomani, Milano si svegliava sotto un cielo basso, grigio come piombo fuso. Le strade del centro erano, come sempre, caotiche e brulicanti di persone, indaffarate come api in un alveare. Luca sedeva in un bar del centro. Nel dehor il rumore delle tazzine sui piattini, si mischiava con il mormorio delle conversazioni. Il tavolino a cui era seduto era sporco di briciole e polvere di zucchero e davanti a lui giaceva un caffè freddo, abbandonato. Non lo beveva, lo fissava senza guardarlo veramente, i suoi pensieri erano rivolti altrove.

Con la mano destra faceva ruotare una moneta tra le dita come un tic nervoso, un gesto oramai automatico. La moneta salì, ruotò e ricadde nel palmo. Poi di nuovo e poi ancora, come un metronomo senza tempo. Un piccolo trucco di destrezza, l’ultimo frammento di un’illusione che nessuno voleva più guardare.

A pochi passi da lui, un bambino seduto al tavolo con i genitori, si annoiava, giocherellava con la cannuccia nel bicchiere. Luca lo osservò, e d’istinto, fece sparire la moneta, riapparsa magicamente dietro l’orecchio del piccolo. Il bambino spalancò gli occhi, rise e si rivolse al padre:

«Papà! Hai visto? »
Un sorriso — breve, quasi colpevole — sfiorò le labbra di Luca. Quel gesto, così semplice, aveva creato un momento di meraviglia. Ancora funzionava, pensò. Ancora c’era qualcosa.

«Bel trucco, fa sempre effetto ai piccoli,» disse il padre del bambino con aria gentile.

«Anche ai grandi, se bevono abbastanza,» rispose Luca con aria ironica.

Poi, si udì una risata e qualcuno aggiunse con un leggero accento dell’Est:

«Non tutti i giorni si vede un prestigiatore altruista.»
Non era una voce comune. Veniva da poco distante, ma pareva sussurrata direttamente nel cervello.

Luca si voltò.

Seduto a un tavolino poco distante, un uomo distinto osservava in silenzio. L’abito scuro che indossava, impeccabile e su misura, sembrava modellato sulla sua figura con la precisione di una seconda pelle. Non era giovane — forse sulla soglia dei settant’anni — ma portava l’età con una grazia severa. Sotto un Borsalino nero, il volto spigoloso e segnato conservava una fermezza scolpita nel tempo. Una barba brizzolata, curata con rigore, incorniciava lineamenti austeri, mentre due occhi chiari, freddi e impenetrabili, scrutavano il mondo con la calma di chi ha visto troppo per restarne turbato.

Luca si irrigidì e rispose secco:

«Era solo un trucchetto banale.»

«Un trucco, certo» ribatté Dimitri. «Ma si può considerare anche come un invito. Un ponte fra due menti, una che offre… e una che accetta.»

Luca non rispose.

Rimise la moneta in tasca, non serviva più, il bambino era già tornato al suo tablet.

L’uomo si alzò, si avvicinò con passo silenzioso e si sedette al tavolo di Luca senza chiedere.

«Il mio nome è Dimitri Velan,» disse tendendo la mano.

Luca la fissò, poi la strinse, un po’ riluttante. La stretta di Dimitri era forte e decisa.

«Ti stavo osservando.»

«Complimenti,» disse Luca, ironico. «Ci sono stalker che impiegano mesi, prima di ammetterlo.»

«Io non ti seguo, ti ho visto. È diverso. Penso che tu abbia bisogno di un’opportunità.»

Luca lo guardò di traverso.

Un silenzio pesante si frappose tra i due, rotto solo dal lontano fruscio delle auto e dal tintinnare di una posata.

«Dimmi, ragazzo: se potessi avere un superpotere… quale sceglieresti?»

«Un superpotere? Tipo… volare? Sparare laser dagli occhi?»

«Quale vorresti davvero?»

Luca ci pensò per un attimo, poi sorrise leggermente.

«L’invisibilità.»

Dimitri ridacchiò, scuotendo la testa.

«Un classico. Così puoi entrare nei camerini delle donne senza essere arrestato, eh?»

Luca sorrise e alzò ironicamente le mani.

«L’invisibilità è la tipica scelta di chi vuole fuggire, nascondersi. Ma non si ottiene nulla stando nell’ombra.» disse Dimitri.

«Ok, ci riprovo: l’immortalità.»

«L’immortalità è una condanna. Immagina di guardare morire tutti quelli che ami, per sempre. E tu… tu rimani con quel peso sulle spalle per l’eternità. Nessuno può sopportarlo, nemmeno gli dèi.»

«Va bene, mi arrendo. Allora dimmelo tu. Qual è, secondo te, il superpotere ideale?»

Dimitri aspettò qualche istante, prima di rispondere.

«La persuasione.»

Luca alzò un sopracciglio e aspettò che Dimitri motivasse quella strana scelta.

«Avresti a disposizione il potere supremo. Quello di convincere chiunque… di qualunque cosa. Niente sforzi, niente compromessi. Solo parole… e una volontà piegata ai tuoi piedi.»

«Bella trovata. Ti è venuta in mente guardando un film degli X-Men?»

«E se ti dicessi che non è una trovata? Che esiste una tecnica? Reale, antichissima, insegnata solo a chi è degno.»

Luca esitò. Non rispose subito.

«Mi stai prendendo in giro.»

Dimitri lanciò una rapida occhiata ai tavoli vicini.

«Guarda lì, vedi quell’uomo che legge il giornale? Osserva con i tuoi occhi.»

Dimitri si alzò, andò a sedersi di fronte a lui e iniziò a parlargli.

Luca osservava la scena, il dialogo tra i due era muto, la distanza non permetteva di ascoltare.

Dopo meno di un minuto, l’uomo sorrise a Dimitri e annuì, prese il portafoglio dalla giacca e poi lo smartphone. Li poggiò sul tavolo e glieli diede. Dimitri li prese, si alzò con calma, tornò al tavolo e mise gli oggetti davanti a Luca.

Luca trattenne per un attimo il respiro, poi con un sorriso beffardo disse:

«Chi vuoi prendere in giro? È un complice, una scenetta. Un bluff da pessimo giocatore di poker.»

Dimitri sorrise.

«Un bluff? Allora vieni a vedere la mano. Fai la tua puntata e saprai se sto bluffando.»

«E se decido di non farlo?»

«Semplice. Tornerai a esibirti in locali di terz’ordine per gente che ti ride in faccia.»

Luca cercò di nascondere il turbamento per quelle parole.

«Come fai a sapere dove…?»

Dimitri lo interruppe.

«Tu hai già un dono, io lo vedo. Ma è grezzo, contaminato dalla paura e da un ego smisurato che devi imparare a contenere.»

Luca provò a replicare, ma il suo scetticismo si era incrinato.

L’aria attorno a Dimitri sembrava più densa. Come se la realtà gli cedesse il passo.

A quel punto, Dimitri si alzò.

«Se vuoi saperne di più… devi seguirmi.»

Si allontanò, lasciandogli il conto da pagare e un’opportunità difficile da ignorare.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

Ancora non ci sono recensioni.

Recensisci per primo “Il dolce sussurro del male”

Condividi
Tweet
WhatsApp
Gianfranco Barberi
Sono nato a Catanzaro nel 1973 e, fin da bambino, ho imparato a fare amicizia con i mostri nascosti sotto il letto. Dario Argento, John Carpenter e Sam Raimi hanno provato a spaventarmi, ma non ci sono riusciti: invece di terrorizzarmi, mi hanno ispirato. Ho sempre nutrito una forte passione per le arti visive e narrative, strumenti preziosi che mi hanno aiutato ad esprimere questa macabra passione. Il dolce sussurro del male è il primo romanzo che ha visto la luce, mentre altri suoi fratelli più sfortunati giacciono, ancora a pezzi, in qualche angolo nascosto della mia mente. I miei autori di riferimento sono Donato Carrisi e Giorgio Faletti.
Gianfranco Barberi on FacebookGianfranco Barberi on Instagram
Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors