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Il Maglione Rosso

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Consegna prevista Settembre 2026
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Anna e Ale, come lo chiamano gli amici, si incontrano da adolescenti, i pomeriggi spensierati al muretto con la loro comitiva. Tra risate, stuzzicamenti e prime timide confidenze, nasce un legame profondo, un amore che segnerà le loro vite per anni. Ma il tempo, le sfide personali e le incomprensioni li allontaneranno, costringendoli a confrontarsi con scelte difficili, distanze e relazioni passate. Dopo un lungo periodo di separazione, quando tutto sembra perduto, Anna e Ale si ritrovano, affrontando paure, rimpianti e desideri mai sopiti. Un romanzo intenso e introspettivo, che esplora il delicato equilibrio tra cuore e ragione, tra ricordi del passato e sogni per il futuro, tra passioni travolgenti e momenti di quotidiana tenerezza. Un romanzo che parla di crescita, di cicatrici che diventano forza, e di come, a volte, la vita sa riportarci proprio dove il cuore aveva iniziato a battere.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto Il Maglione Rosso perché avevo bisogno di raccontare una verità semplice ma enorme: che l’amore non è mai lineare, e che a volte per ritrovarsi bisogna prima perdersi. Per me questo romanzo è un luogo sicuro.
È la testimonianza di quanto un amore possa segnare, ferire, guarire e trasformare. Il coraggio di guardare ciò che fa male e trasformarlo in bellezza. La prova che a volte l’amore torna, in un’altra forma, in un altro tempo, ma torna. E che ogni incontro ci lascia qualcosa.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Prologo — Dove tutto è cominciato

Quindici anni prima.

Avevo sedici anni, e il mondo mi sembrava già troppo piccolo per contenermi. Uscivo da scuola chiacchierando con Chiara, come ogni giorno, ridendo per sciocchezze, sognando vite grandi, città lontane e amori da film. Poi, davanti al cancello, le nostre strade si dividevano: lei andava a prendere il pullman , io a casa. Ci bastava poco per essere felici — una sala giochi, un flipper, un gruppo di amici e lillusione che tutto fosse ancora possibile. Non parlavamo damore, o almeno non davvero. Forse perché nessuna di noi lo aveva mai conosciuto per davvero. Ci prendevamo solo qualche cotta leggera, di quelle che ti fanno arrossire e ridere allo stesso tempo. Quel pomeriggio, dopo pranzo, mi misi un filo di trucco e raggiunsi Chiara. Il solito muretto, la nostra piccola tribù, le battute, le confidenze, i segreti a metà voce. Poi arrivò unauto, si fermò davanti a noi. Scese un ragazzo — anzi, due — fratelli, come scoprimmo poco dopo.

Uno dei nostri amici ci presentò: Loro sono Anna e Chiara.” “Simone e Alessandro,” risposero stringendoci la mano.

E io, per la prima volta, sentii il cuore inciampare. Aveva uno sguardo deciso, ma un sorriso che lo addolciva subito. Parlava poco, ma quando lo faceva ti sembrava di doverlo ascoltare per forza. Io, naturalmente, lo trovai antipatico. Troppo sicuro di sé, troppo grande”.

Chiara rideva: Chi si stuzzica si prende!”

Io scuotevo la testa, anche se dentro di me sapevo che qualcosa si era già mosso. Nei giorni seguenti, ogni battibecco diventava un modo per restare un podi più accanto a lui. Poi, un pomeriggio, Chiara non cera, e Ale mi invitò a fare un giro in macchina. Parlammo di tutto: scuola, musica, sogni. E capii che sotto quella corazza da sbruffone cera un ragazzo diverso, profondo, attento, con uno sguardo che sapeva leggerti dentro. Da quel giorno, ogni pomeriggio divenne nostro.

Un appuntamento non detto, una promessa silenziosa. Un giorno mi portò su una collina. Il vento muoveva lerba, il cielo era rosa come le guance che non riuscivo a nascondere.

Anna,” mi disse piano, sono innamorato di te.” E prima che potessi rispondere, le sue labbra trovarono le mie. Fu un bacio timido, goffo, ma pieno. Il primo. Aveva ventun anni, io sedici. Eppure in quellattimo non esisteva altro. Da allora, ogni giornata fu un piccolo mondo costruito a due. Ridevamo, studiavamo insieme, facevamo progetti, ci sognavamo adulti.

Credevamo di avere in mano il futuro. E forse, in un certo senso, lo avevamo davvero. Un pomeriggio, addormentata tra le sue braccia, sul suo lettino stretto ma abbastanza per due, pensai per la prima volta a quanto mi avrebbe fatto male perderlo. E senza saperlo, una lacrima mi scese sul viso. Poi, come un sogno che svanisce allalba, tutto cambiò. Allora non sapevo ancora che certe storie non finiscono mai: cambiano forma, aspettano il loro tempo.

Credevo di averlo dimenticato o che lui mi avesse dimenticato…

Ciao Ale, oggi mi chiedevo se ti ricordi di me?

Ma sì, di quella con i capelli spettinati che è passata davanti alla vetrina del tuo locale migliaia di volte oggi, e non sapeva se entrare e salutarti o rimanere fuori e immaginare come sarebbe stato farlo. Chissà se ricordi quei baci, di cui sento ancora il sapore, quelle carezze che facevano tremare l’anima. Chissà se mi hai notata: avevo una sciarpa alta, che mi copriva il viso. Si vedevano solo gli occhi. E solo tu sai perché sono solita metterla così.

Continua a leggere

Continua a leggere

Quel giorno in macchina me lo avevi chiesto, abbassando la musica alla radio, perché a te interessava ascoltarmi davvero, e non far finta di farlo. Ti ricordi? Me lo hai chiesto mentre con una mano mi abbassavi un lembo della sciarpa, e ti ricordi anche il sorriso che ti avevo rivolto?

Come fai a dimenticarli certi istanti?

Come fai a dimenticare certe cose?

Ti ricordi cosa ti avevo risposto?

“Gli occhi dicono molto di più di quanto la bocca possa dire.”

E tu eri rimasto zitto, stupito, come se avessi detto qualcosa di gigantesco. Io ho ancora nitida nella testa la tua faccia in quel momento: mi guardavi intensamente, come se al mondo non esistesse nient’altro.

Poi mi avevi solo chiesto se avevo voglia di fare colazione.

Ti ricordi cosa prendevo?

Io me lo ricordo quello che prendevi tu: latte macchiato e ciambella. Mai una volta che scegliessi qualcosa di diverso. E ti meravigliavi del fatto che io non prendevo quasi mai la stessa cosa, anche se a pensarci bene il cornetto al cioccolato era quello più gettonato.

Mi ricordo la tua goffaggine nel mangiare in piedi al bancone, e lo zucchero che cadeva come neve sul tuo cappotto nero.

Oh, quel cappotto nero di cui ero innamorata: caldo, elegante, profumato. Ti piaceva avvolgermi dentro quando mi baciavi, o quando avevo freddo—quasi sempre, perché io non avevo mai il capo giusto.

Quel cappotto era quasi un nido per entrambi.

E poi ti stava così maledettamente bene…

Una volta mi chiedesti se sembrava un “giubbotto da vecchio”.

Come poteva essere da vecchio un cappotto che conteneva tutti i sentimenti del mondo?

Mi ricordo i bottoni, uno per uno.

E quello diverso vicino al collo, più piccolo, quello che ti avevo cucito io nell’atrio di casa tua, mentre tu stavi per perdere la lezione perché avevamo passato il pomeriggio a fare l’amore sul divano del rustico.

Quel divano… se potesse parlare.

Mi ricordo la tua università, la sua grandezza che mi toglieva il fiato e mi faceva desiderare di essere parte di quel mondo.

Quante volte ti ho rubato i libri mentre studiavi, solo per leggere, leggere, leggere… come se attraverso quelle pagine potessi starti più vicino.

Come faccio a dimenticare tutto questo?

Come si dimentica qualcuno che ha toccato tutte le parti di te, anche quelle che non sapevi di avere?

E allora eccomi qui, a scrivere questa lettera che non ti spedirò mai.

A chiedermi se anche tu, almeno una volta… almeno per un secondo… hai sentito mancare l’aria pensando a me.

Forse non lo saprò mai.

Ma oggi, mentre passavo davanti alla tua vetrina, ho capito una cosa:

non passa giorno in cui io non ti veda, anche quando non ci sei.

Non passa vita in cui io non ti cerchi, anche senza volerlo.

Scrivo per non dimenticare.

Scrivo per non perderti un’altra volta.

Scrivo perché, se un giorno dovessi rivederti davvero, voglio essere certa di riconoscere la versione di me che ti ha amato senza alcun freno.

Eppure lo so: tu non leggerai mai queste parole.

Sono solo io, qui, con un cuore che continua a battere il tuo nome.

E un foglio bianco che si riempie di ricordi…

ancora vivi, ancora nostri, ancora pieni di te.

Forse un giorno smetterò di scriverti.

Forse un giorno smetterà di farmi male.

Ma oggi no.

Oggi ti penso.

Oggi mi manchi.

Oggi ti amo ancora in silenzio.

E chissà…

forse domani qualcosa cambierà.

Aprii gli occhi.

Guardai il comodino: la sveglia segnava le 6.00. Il letto era vuoto, solo un cuscino a farmi compagnia. Stropicciandomi gli occhi, presi il laptop poggiato a terra. Lo aprii e, senza sorpresa, notai che quel pallino arancione era ancora lì, in alto a destra. Come la sera prima, non avevo il coraggio di aprire le notifiche. Eppure, un tempo ero felice quando quei pallini arancioni spuntavano. Invece, questa volta sapevo che dietro quella notifica si nascondeva una domanda alla quale avrei dovuto rispondere, e che mi spaventava tantissimo. Dovevo scegliere tra cuore e mente. Mi alzai, andai in bagno e mi guardai allo specchio: capelli arruffati e occhi stanchi. Una sistemata veloce, colazione pronta, ma lo sguardo tornava sempre su quello schermo. Volevo che quel pallino sparisse come per magia, ma niente: era ancora lì, fisso.

E pensare che, fino a poco tempo fa, desideravo tanto una domanda simile. Ora che era arrivata, però, sentivo solo un nodo allo stomaco. Accesi la radio. Chissà perché, in quei momenti, Ultimo faceva sempre capolino, come se sentisse il cuore… Il ballo delle incertezze. Mi sentivo proprio come quel ragazzo che balla nel video: preso dalla pazzia, dal sì, ma che me ne frega”, e poi, alla fine, ti guardi allo specchio e capisci che te ne frega eccome, e ti senti uno sciocco in pista. Mi affacciai alla finestra: pioveva. Il cielo era grigio, poche auto e tanto silenzio. Mentre masticavo lultimo biscotto sentii un nuovo trillo. Unaltra notifica. Alzai gli occhi al cielo. Non si dà per vinto, pensai. Ma alla fine mi scappò un sorriso. Come mi ci ero infilata in quella situazione? Come? Perché non posso andare avanti come tutti? Perché non riesco a dimenticare, ad archiviare? Come si fa? Anna, Anna…” mi ripetei davanti allo specchio del corridoio. Anna, lascia stare…” Sarà il mio inconscio, o quei due esseri minuti sulle spalle che continuano a parlarmi.

Mi sedetti sul divano, presi il laptop e lo poggiai sulle ginocchia. Feci un grande respiro, come prima di un tuffo in apnea, e cliccai sulle notifiche.

Eri tu. — “Perché non ci vediamo?” — ore 00.03

Lo so che ti spaventa, lo so come ti senti. Lo so che potrebbe non essere una buona idea, lo so che… io lo so. Ma vediamoci. Ti aspetto dove ti ho sempre aspettato. Ore 9.” — ore 07.45 Buttai indietro la testa, che finì sullo schienale del divano. Fissai il soffitto e, tra una lacrima e un sorriso, ripresi a respirare. Il cuore mi usciva dal petto, il respiro era veloce, mi sentivo agitata. Quanti ricordi riaffiorarono alla mente, quanti pensieri, quante parole non dette, e quanti silenzi rumorosi… Eri stato tu, in quel tempo lontano, a ferirmi. Tu a calpestare il mio cuore. Tu a ridurre in pezzi quel briciolo di fiducia che avevo riposto in noi.

Eri stato tu a guardare solo le apparenze, anche se il mio cuore, il mio corpo e la mia mente non avevano mai smesso di tormentarmi. Aveva fatto tanto male. E faceva ancora un pomale. Per tantissimo tempo non riuscivo nemmeno a indossare un maglione rosso senza pensarti, a sentire la musica senza piangere, a guardare linsegna del tuo locale senza provare la tachicardia. Ogni volta che passo davanti casa tua rischio un incidente: per non guardare quel cancello chiudo gli occhi. Pensa a quanto male ha fatto. Ma quel messaggio, quel semplice messaggio, aveva aperto mille scenari nella mia testa. Aveva riaperto il cassetto delle fotografie: comeri bello, comero bella, come eravamo belli. E poi mi chiedo: qual è il motivo della tua richiesta? Perché vuoi vedermi? Cosa vuoi che cambi? O forse vuoi rompere questo fragile equilibrio che si è creato? Vuoi distruggere di nuovo quel poco di bello che mi è rimasto nel cuore? O, magari, c’è qualcosa di più poetico? La testa viaggiava e il tempo scorreva. Avevo poco tempo per decidere, poco per capire cosa fare: seguire il cuore, ormai già partito per la tangente, oppure la mente e chiudere quel cassetto per sempre. Giravo per casa senza meta. Disegnavo cerchi, poi rombi e quadrati sul pavimento, camminavo allineando i piedi come su un filo, in bilico tra due scelte.

Tornai in camera, aprii larmadio. — “Non ho nulla di decente da mettere”, pensai. Quindi avevo deciso di andare? No, no… ancora non avevo deciso nulla. Ero in preda al panico. Mi sedetti di nuovo e cominciai a respirare piano. Chiusi gli occhi. Dopo un minuto il cuore rallentò, il tremore si affievolì. Aprii gli occhi, e la prima cosa che vidi nellarmadio fu proprio un maglione rosso. — “Anna, è la risposta alla tua domanda.” Mi alzai, sfilai il pigiama e infilai quel maglione. Sapeva di bucato, nonostante fosse lì da tanto tempo, ed era ancora morbido.

Misi un paio di jeans e delle sneakers — non avevo voglia di vestirmi bene. Presi la borsa, le chiavi, il telefono. Scesi le scale in fretta, con dei saltelli, come da bambina. Appena aprii il portone, un vento gelido mi spostò i capelli. Rabbrividii: il naso e le guance divennero rossi, li sentivo bruciare. Iniziai a camminare. Sapevo dove dovevamo incontrarci: uno di quei posti che frequentavamo da ragazzi. In strada non cera nessuno, solo qualche furgone che scaricava merce nei negozi e qualche signore con il cane, dallaria assonnata. Scesi le scale del porticato, a saltelli come sempre, passai sotto il grande pino e arrivai alla panchina. Mi sedetti, incrociai le gambe per il freddo e presi il telefono. Nessuna nuova notifica. Non sapevo se avevo fatto bene o male a non rispondere. Non sapevo se sarebbe venuto, se si aspettava davvero che io fossi lì. Il freddo mi stava gelando le orecchie e le dita. Cercavo di scaldarmi rannicchiandomi. Passavano poche auto e, ogni volta che sentivo un motore, alzavo gli occhi per vedere se fosse lui. Chissà se sarebbe arrivato a piedi o in macchina? Mi domandai. Scrutai intorno, ma nessuna traccia. Guardai ancora il telefono. Nessuna notifica. Stavo impazzendo. — “Anna, hai fatto una gran cavolata! Ma che ci fai qui? Ancora qui?” Stavo per alzarmi… quando sentii una voce: — “Allora era un sì?” Alzai gli occhi, e so per certo che arrossii. Mi si stampò in volto un sorriso da ebete. Lo guardai: era bello come sempre. Dannatamente bello. I capelli neri tirati indietro con il gel, il colletto del cappotto rialzato, il polsino della camicia che sporgeva dalla manica, incorniciando lorologio. I battiti accelerarono, sentii un brivido lungo la schiena.— “Sali, prima che ti prendi un malanno!” Si allungò per aprirmi la portiera, e io sgattaiolai dentro. — “Che tepore”, pensai. E che profumo.” Si avvicinò per darmi un bacio sulla guancia, e io lo assecondai. Mi avvolse un braccio intorno alle spalle, muovendolo per scaldarmi. — “Da quanto sei qui?” Alzai lo sguardo. Con le lenti appannate degli occhiali per lo sbalzo termico, mi venne da ridere. — “Un po’…” dissi, stringendomi nelle spalle.

Lui mi sfilò gli occhiali, pulì le lenti con un fazzoletto e me li rimise. — “Ora meglio.” Sì, era meglio. Mise la mano sul volante e con laltra portò la mia allo stereo. — “Scegli tu.” Stranamente ero taciturna. Girai la manopola del volume e misi la prima traccia della radio, senza nemmeno farci troppo caso. Lo guardavo guidare, muovere i piedi sui pedali. Il cuore batteva allimpazzata. Era tutto così semplice, così normale, che quasi non sembrava reale. — “Allora? Non mi dici nulla?” La sua voce spezzò il silenzio della mia testa. Lo guardai, mi sistemai gli occhiali e feci un respiro profondo. — “Che devo dirti, Ale? Sono in macchina con te, alle nove del mattino, infreddolita… e non so nemmeno dove stiamo andando!” Lui sorrise, mi guardò e disse: — “Non cambi mai.”Io gli feci una linguaccia. — “In realtà sei tu che devi dirmi qualcosa, visto che a mezzanotte mi hai scritto quel messaggio…” Sorrise di nuovo. Ma quanto era bello, pensai. — “Avevo voglia di vederti. Di passare del tempo insieme… non si può?” Lo guardai, sgranando gli occhi. — “Ehm, ti ricordo che abbiamo due vite ben distinte, io e te, no?!” Lui mi guardò e alzò gli occhi al cielo. — «Non ricominciare, ti prego. Ora siamo qui.» Riprese a guidare. Io lo fissavo, indispettita dalla risposta, incrociai le braccia e mi sistemai sul sedile. Guardavo fuori dal finestrino: scorrevano scenari visti e rivisti—il nostro paese, il nostro posto, il nostro bar, persino le nostre case… La pioggia aveva ripreso a scendere, disegnando piccole stradine sui finestrini. Pensai a quando ero bambina e mi divertivo a seguirle con lo sguardo, come se gareggiassero tra loro sul vetro. In tutto questo mio viaggio con la mente, lui rimaneva in silenzio, concentrato alla guida. La radio mandava in sottofondo una melodia che sembrava fare da colonna sonora ai miei pensieri. — «Ehi!» esclamò, poggiandomi una mano sulla coscia. — «Stai tranquilla, ti prego! Stiamo facendo unuscita tra amici, ci stiamo godendo una giornata insieme!» Io lo guardai. Quella mano mi fece salire una scossa fino al basso ventre; la sentivo vibrare in tutto il corpo. Lentamente, posai la mia mano sulla sua, e guardandolo negli occhi dissi: — «Ok.» Scandendo bene le parole, come se pronunciarle fosse un piccolo giuramento. Prendemmo lautostrada. Non cera traffico, si scorreva tranquilli. Io presi tra le mani il telefono e cominciai a scorrere i social. A un certo punto mi apparve un ricordo… — «Ti ricordi Cristina?» Lui si girò verso di me, fissandomi con quellespressione che sembrava dire: Mi prendi in giro?” — «Certo che me la ricordo.» — «Eh beh, come fai a dimenticare…» dissi, sentendo un certo amaro salirmi in bocca. — «Dai, Anna, per favore, parliamo di diciotto anni fa…» tentò di interrompermi. — «Va bene, non è questo il punto. Dicevo: la ricordi, ok? Sai che si è sposata e ha avuto due figli?» Lo fissavo, volendo leggere ogni minima reazione sul suo volto. — «Ah… sono felice per lei.» — «Ah, non ti interessa minimamente? Non ti dà fastidio?!» Mi guardò di nuovo e sorrise. Quel sorriso… straordinario, bellissimo, eccitante. Come si fa a non amarlo? pensai. — «No, Anna, non mi dà fastidio. Perché sono passati diciotto anni. Avevo ventuno anni, tu sedici, e Cristina… sapevi che tipa era.» Lo guardai di nuovo, il cuore che accelerava. — «Sai che tipa era» dissi, «non è una scusa. Se ora noi non siamo una coppia, ma solo amici che passano una giornata di nascosto dalle proprie vite, non è colpa di Cristina… anzi, è colpa tua e di questo pensiero che avevi su di lei!» Lui sorrise ancora. Quella volta il sorriso sembrava più vicino, quasi… intimo. — «Mi hai sempre amato così tanto che io sono sempre stato un cretino a non accorgermene!»Sentii un brivido corrermi lungo la schiena. La sua voce, il suo sguardo, lodore che ancora emanava… tutto sembrava vibrare di tensione tra noi. Per un istante, il tempo si fermò, e ogni parola non detta, ogni desiderio nascosto, sembrava gridare tra di noi. — «Ale… sì, hai detto bene. Ti ho sempre amato… ti ho amato tanto, donato tutta me stessa. Quella relazione ha cambiato il mio modo di vedere le cose e lamore, e ho sempre un polamaro in bocca quando ti vedo… nonostante…» Mi fermai, perché stavo per dire una frase che poteva ritorcersi contro di me… dopo.

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Veronica Sgrulloni
Sono Veronica Sgrulloni, ho 33 anni, vivo in un piccolo paesino sui monti. Sono un operatrice telefonica di professione, da sempre appassionata di scrittura e arte, ho illustrato diversi libri per bambini, pubblicati e autopubblicati. La scrittura e il disegno sono per me strumenti di espressione e liberazione, mezzi catartici per raccontare emozioni, sogni e riflessioni.
Fin da ragazzina ho scritto storie per bambini e racconti di amore e vita a due. Il Maglione Rosso nasce quasi per caso, da un paragrafo rimasto in un cassetto, e si è trasformato in un viaggio emozionale profondo attraverso la vita e i sentimenti di Anna e Alessandro.
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