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Il Prezzo della dignità

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Consegna prevista Aprile 2026
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“Il prezzo della dignità” è una storia che scava nei silenzi, nei desideri, nei compromessi che facciamo quando la vita ci toglie tutto. Davide, 33 anni, ha perso il lavoro, la fiducia e se stesso. Emily, segnata da un passato difficile, ha scelto di esporsi su una piattaforma per adulti per sopravvivere e proteggere chi ama. Le loro vite si incrociano per caso, ma nulla accade davvero per caso. Insieme si addentrano in un mondo che giudica, desidera e consuma, dove ogni giorno perdi un pezzo di te, ogni scelta è un rischio, ogni corpo racconta una storia. E un pericolo si avvicina.
Ambientato in una Sicilia calda e accogliente, ma segnata da precarietà, omertà e Patriarcato, il romanzo tocca identità, amore, ossessione, dipendenza dai social, violazione della privacy, depressione, desideri inconfessabili e femminicidi.
Un thriller psicologico e sociale che svela le fragilità di una generazione e racconta da vicino il mondo, ancora poco esplorato, delle piattaforme per adulti.

Perché ho scritto questo libro?

Ho iniziato a scrivere questo libro dopo aver perso il lavoro, per dare un senso al vuoto che sentivo. Ma tutto è nato prima quando lavoravo come social media manager: una ragazza mi chiese di gestire il suo profilo su una piattaforma per adulti. Ho conosciuto la sua storia che mi ha toccato tanto e scoperto quel mondo fatto di desideri, paure e pericoli. Non potevo ignorarlo. Così ho trasformato quella realtà in una storia romanzata, in cui potevo raccontare apertamente i lati oscuri di essa.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Capitolo 17: Il profilo misterioso

Avevo trascorso l’ultima settimana immerso tra mille cose: Emily, i lavori alla sua casa, il mio progetto, e il bisogno costante di trovare un equilibrio tra tutto ciò che stava accadendo. Quella mattina, finalmente, mi presi del tempo per riprendere il lavoro al mio libro. Era come un piccolo spazio per me stesso, una finestra di normalità in mezzo al caos.

Mi sedetti al tavolo con il portatile aperto e Instagram già attivo. Iniziai a scorrere tra i profili suggeriti, lasciando che l’algoritmo facesse il suo lavoro. Stavo cercando qualcosa, qualcuno, una storia che potesse aggiungere profondità al mio libro. Avevo intervistato diverse ragazze, e ognuna aveva condiviso un frammento del proprio mondo. Ma c’era ancora un pezzo mancante, qualcosa che sentivo di dover trovare.

Poi lo vidi. Un brivido mi percorse la schiena. Un profilo tra tanti, ma che mi colpì immediatamente. Era diverso dagli altri: una sola foto. Una ragazza in camicetta bianca e una gonna scura, seduta su una sedia, con le mani appoggiate in grembo. La posa era semplice, quasi timida. Notai la texture della camicetta, i piccoli bottoni di perla, il modo in cui la gonna si piegava sul legno della sedia. Non c’era nulla di esplicitamente provocatorio, nulla che richiamasse l’immaginario tipico delle sex workers che avevo incontrato finora. Ma proprio questa discrezione mi incuriosì. Cliccai sul profilo, trattenendo il fiato.

Il nome del profilo era “Venus”, un chiaro riferimento alla dea dell’amore e della bellezza nella mitologia romana, che in Grecia è conosciuta come Afrodite. La biografia era altrettanto vaga, quasi poetica: “Ogni segreto ha la sua ombra”. Un link portava a un account OnlyFans vuoto, con un banner nero e un logo stilizzato, ma senza alcun contenuto. Il feed era deserto, a parte quella singola foto. La foto era in bianco e nero, forse per nascondere dettagli, ma la qualità era buona, tipica di una foto scattata con uno smartphone, con una composizione che sembrava studiata per intrigare senza rivelare troppo. Mi fermai a osservare l’immagine per qualche secondo, cercando di coglierne i dettagli. “Chi sei?” mi chiesi, mentre il cursore lampeggiava sopra il campo dei messaggi, quasi temendo la risposta. Il nome “Venus” mi fece riflettere: era una scelta casuale o c’era un significato più profondo? Forse, come la dea, questa ragazza celava un potere seduttivo o una bellezza che non si mostrava apertamente ma che attirava con la sua misteriosa presenza.

Non c’era nulla che mi portasse a pensare che fosse qualcuno che conoscevo. Era solo curiosità. La discrezione del profilo, la sua apparente semplicità, mi intrigavano. Scrissi un messaggio: “Ciao, sono uno scrittore. Sto lavorando a un libro sulle storie di ragazze che usano piattaforme come OnlyFans. Ti andrebbe di parlarne?”

Il cuore mi batteva forte. Cosa significava questo?

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Inviai il messaggio senza pensarci troppo, ma ogni secondo che passava sembrava un’eternità. Probabilmente non avrei nemmeno ricevuto risposta. La maggior parte delle volte, i profili ignoravano i miei messaggi. Ma non questa volta. Pochi minuti dopo, arrivò una risposta. “Ciao. Grazie per il messaggio. Non sono sicura di voler condividere ancora la mia storia. Ho appena iniziato.”

C’era qualcosa in quelle parole che mi colpì. La calligrafia digitale, se così si poteva chiamare, aveva un’eleganza che mi sembrava familiare. Non saprei dire cosa, ma un sottile senso di familiarità mi rimase addosso. Decisi di non insistere troppo subito. Risposi: “Capisco. Se cambi idea, fammi sapere. Mi piacerebbe capire cosa ti ha portata a questa scelta.”

Nei giorni seguenti, le conversazioni continuarono, sempre brevi e criptiche. Ogni messaggio sembrava un indizio in un puzzle che non riuscivo a completare. La ragazza era gentile, ma riservata. In alcuni messaggi c’erano sfumature che mi facevano pensare a Emily: una frase, un modo di esprimersi, una certa delicatezza. Tuttavia, una serie di conversazioni erano avvenute durante orari in cui sapevo che Emily lavorava alla casa di riposo. Questo dettaglio mi aveva portato a mettere da parte quel mio “assurdo” sospetto. “Davide, stai iniziando a immaginare scenari assurdi,” mi dissi, scuotendo la testa per scacciare quei pensieri.

Qualche giorno dopo, mentre ero a casa dei nonni, Emily era in cucina ad aiutare nonna a preparare il pranzo. Il modo in cui si muoveva con naturalezza mi faceva sempre pensare a quanto fosse adatta a quel ruolo. Lei sorrideva dolcemente mentre mia nonna le raccontava qualche aneddoto del passato. Il rumore delle stoviglie, il tintinnio di un mestolo contro il bordo di una pentola, il borbottio del brodo che sobbolliva suonavano come un’eco lontana, mentre il mio mondo interiore si sgretolava.

Io mi trovavo in soggiorno, con il telefono in mano, quando decisi di controllare di nuovo quel profilo. Non sapevo nemmeno cosa stessi cercando. Fu allora che la vidi. Una nuova foto era stata pubblicata pochi secondi prima. Mostrava un dettaglio: una mano che stringeva un ciondolo a forma di chiave. La mano che stringeva quel ciondolo sembrava familiare… La stessa forma, lo stesso modo di stringerlo come se fosse un talismano. Ogni dettaglio mi assaliva: la luce che si rifletteva sul metallo, la delicatezza con cui le dita avvolgevano la chiave, il contrasto tra la pelle chiara e il metallo dorato. Il respiro mi si bloccò.

“No,” sussurrai, fissando lo schermo. “Non può essere.”

Il mio cuore era un tamburo di guerra; la paura e la speranza si mescolavano in un vortice di emozioni che non riuscivo a decifrare. “Era lei. Emily. Non c’erano più dubbi. Quel ciondolo, quella chiave… L’avevo vista mille volte intorno al suo collo. Come poteva essere lei? La stessa ragazza che si preoccupava per Antonino, che lavorava per dare tutto ai suoi fratelli, che si chiudeva in se stessa per proteggere chi amava?”

La mia mente iniziò a correre. Forse avevo frainteso? No, non c’erano dubbi. Ogni secondo che passava, la verità diventava più chiara, più spaventosa. Come poteva Emily essere questa ragazza? Come poteva anche solo pensare di entrare in quel mondo? Quel mondo che io stesso avevo visto divorare altre persone. Lei non era così. Non poteva essere così.

Le mie mani iniziarono a tremare, seguite da un brivido gelido che mi percorse la schiena. Guardavo lo schermo e poi alzavo gli occhi verso Emily, che era ancora in cucina. Sorrideva dolcemente, sistemando i piatti con mia nonna. Tutto in lei sembrava così normale, così autentico, eppure quella foto mi urlava che qualcosa non lo era.

Il telefono mi scivolò dalle mani, cadendo sul tappeto. Mi chinai lentamente per raccoglierlo, il cuore che batteva come un tamburo nel petto. Tornai a fissare la foto, cercando un dettaglio che potesse smentire quella certezza che ormai si stava facendo strada dentro di me. Ma non c’era spazio per il dubbio. Quel ciondolo era unico. L’avevo visto mille volte intorno al collo di Emily.

“Emily,” la chiamai, cercando di mantenere la voce ferma, ma fallendo miseramente.

Lei si voltò, con un’espressione sorpresa. “Stai bene, Davide? Sembri… diverso.”

La guardai, incapace di rispondere subito. I suoi occhi erano limpidi, sinceri, eppure io non riuscivo più a vedere la persona che pensavo di conoscere. Era come se avessi davanti a

me una sconosciuta, una versione di Emily che non sapevo esistesse.

“Sì, tutto bene,” mentii, girandomi lentamente verso il soggiorno. Mi sedetti di nuovo, ma le mani continuavano a tremare.

Il mio pensiero tornò all’algoritmo. A quel giorno in cui Emily mi aveva scritto su Instagram per chiedermi aiuto, quando suo padre era entrato in casa. Era stato quello il momento in cui si era creato un collegamento. L’algoritmo aveva tracciato quella connessione, costruendo un filo invisibile che mi aveva portato a questo profilo. Era come un “effetto farfalla”: un evento minuscolo, un messaggio inviato in un momento di disperazione, che aveva scatenato una serie di coincidenze fino a quel punto.

Non sapevo come affrontare tutto questo. Sapevo di non avere il diritto di giudicarla, ma non riuscivo a fermare quel tumulto dentro di me. Crescendo, ero stato circondato dal giudizio, dalle aspettative della mia famiglia, e ora quella parte di me si ribellava. Non stavo giudicando Emily come persona, ma non potevo fare a meno di giudicare il suo comportamento. Era come se stesse distruggendo l’immagine che avevo costruito di lei. Ma forse il problema ero io. Forse non avevo mai conosciuto davvero Emily. Forse mi ero innamorato di un’idea, e non della realtà.

Mi alzai di scatto. Non potevo restare lì, non con lei così vicina e io che non riuscivo più a nascondere il mio stato d’animo. “Devo andare,” dissi in tono neutro. “Ho un impegno urgente.”

Emily mi guardò sorpresa. “Oh… va bene. Tutto a posto, vero?” chiese Emily, con una nota di preoccupazione che non riuscì a nascondere.

“Sì, certo. Ci vediamo dopo,” risposi, evitando il suo sguardo. Tornai in camera mia senza aggiungere altro, sentendo il suo sguardo confuso che mi seguiva. Ero confuso ma una cosa era certa: nulla sarebbe stato più lo stesso. Mentre chiudevo la porta dietro di me, sapevo che avevo lasciato lì più di un semplice saluto. Avevo lasciato indietro un pezzo di me, un pezzo che forse non avrei mai più ritrovato, e il ciondolo di Emily brillava nella mia mente come una chiave che apriva a una realtà inaspettata, a un abisso di domande senza risposta.

Capitolo 18: Giorni senza Davide

Emily si sedette sul bordo del letto, il sole del pomeriggio filtrava appena dalle tende, stanca dopo un’altra notte alla casa di riposo. Sentiva il peso di un altro giorno incombere su di lei, come un filo spezzato che non riusciva a riannodare. Non vedeva Davide da tre giorni. Tre giorni di silenzio che le facevano girare la testa. Ogni volta che passava davanti a casa dei nonni di Davide, cercava la sua auto, sperando di vederlo scendere le scale del salone, ma niente. Quel gesto abituale di saluto era svanito.

Prese il telefono dal comodino, lo accese, fissando la schermata. Scrivergli o non scrivergli? Le parole le sembravano tutte sbagliate. Non voglio sembrare invadente, pensava, con il cuore che batteva più forte del solito. Rimise il telefono giù, senza aprire la chat.

Arrivò dai nonni di Davide nel tardo pomeriggio. Rosa la accolse con il solito calore, facendole strada in cucina. “Ciao, cara. Sei pronta? Oggi prepariamo qualcosa di leggero per mio marito. Un po’ di crema di patate e carote, così almeno mangia qualcosa.”

Emily sorrise debolmente, cercando di distrarsi dal nodo allo stomaco. “Va bene, signora Rosa. Mi dica cosa devo fare.”

La nonna le passò un tagliere e una ciotola. “Sai, non so dove abbia la testa quel nipote mio. Non l’ho visto per giorni. Di solito passa a salutarmi prima di andare in palestra o quando esce a fare le sue cose. Forse è impegnato con quel suo libro, chissà.”

Emily annuì, con un senso di disagio che le stringeva il petto. “Sì, forse è così,” rispose, pur sapendo che c’era di più. Non era da Davide sparire così. Sentiva la mancanza della sua presenza rassicurante, di quel modo in cui la faceva sentire al sicuro anche nei momenti peggiori.

Rosa la osservò per un istante, accigliata. “Sai, cara,” disse con tono dolce, “sembri pensierosa. Va tutto bene?”

Emily abbassò lo sguardo, fingendo di concentrarsi sul coltello. “Sì, tutto bene,” mentì. Ma dentro di sé sapeva che Rosa aveva colto qualcosa.

Le giornate si trascinavano, ognuna uguale alla precedente. Emily trovava sempre più difficile concentrarsi, come se la sua mente fosse altrove. Ogni sera, tornava a casa e si sedeva sul divano, fissando il telefono. Apriva la chat di Davide, ma il coraggio le mancava. Che gli dico? Perché mi sento come se stessi perdendo qualcosa senza capirlo?

Mentre il sole cominciava a tramontare, disegnando ombre lunghe sulla strada, Emily si trovò a pensare a come il mondo sembrava più grande e spaventoso senza il conforto della presenza di Davide.

E lui, dalla sua parte, stava probabilmente fissando lo stesso cielo, cercando risposte che non riusciva a trovare.

Non riuscivo a smettere di pensare a Emily. Passavo le ore a scrivere, cancellare, e riscrivere, cercando di dare un senso al caos nella mia mente. Ogni volta che pensavo a lei, mi trovavo davanti a un muro: Come posso affrontarla? Le mie mani tremavano leggermente sopra il telefono. Non era solo rabbia per il profilo OnlyFans; c’era anche un dolore profondo. Una parte di me era arrabbiata perché non si era fidata di me abbastanza da parlarne prima.

Avevo sempre avuto questo complesso dell’eroe; volevo salvare tutti, ma non sono mai riuscito a salvare neppure me stesso. E ora, con Emily, sentivo che avrei fallito ancora. Perché proprio lei? Perché quella scelta? Le sue difficoltà mi sfuggivano, eppure sentivo che era mio compito aiutarla, anche se non ne avevo il diritto.

Mi mancava la sua compagnia, mi dava un senso di importanza che non avevo mai provato nella mia famiglia, dove ero sempre stato considerato un fallimento. Ora, quel vuoto mi consumava. Ma insieme alla voglia di salvarla, sentivo il pungolo della rabbia. Perché ha fatto questa scelta? Perché non mi ha cercato? Eppure, nel profondo, sapevo che non era ancora troppo tardi. Quel profilo era ancora vuoto, un progetto appena iniziato. Forse potevo salvarla, aiutarla a cambiare idea prima che fosse troppo tardi.

Passai la mano tra i capelli, aprendo di nuovo Instagram. Guardai quella foto con il ciondolo, la fissai come se volessi distruggerla con lo sguardo. Poi chiusi l’app di scatto. “Non ancora,” mormorai, lasciando cadere il telefono sul tavolo.

Ma come posso aiutarla senza distruggere tutto? pensai, lasciando cadere la testa tra le mani. Non ero solo arrabbiato con Emily, ma con la situazione che la spingeva in quella direzione, con me stesso per non averla capito prima.

Emily sentì il peso del silenzio crescere ogni giorno di più. Un pomeriggio, mentre era in cucina con Rosa, cercò di trovare risposte. “Signora Rosa, secondo lei tutto bene con Davide? Lo

vedo… diverso, distante. Non so, forse è solo una mia impressione.”

Rosa si fermò, pulendosi le mani sul grembiule. “Sai, tesoro, Davide è sempre stato uno che si porta tutto dentro. A volte sparisce un po’, ma poi torna. Dagli tempo, vedrai che si farà vivo. Forse sta solo cercando di mettere in ordine i suoi pensieri.”

Emily annuì, ma dentro di sé sentiva che qualcosa era cambiato. Tornando a casa quella sera, ogni ombra sembrava una minaccia. Senza Davide, quel sottile senso di sicurezza che aveva provato era svanito, e desiderava quel senso di protezione che lui le dava.

Mentre si preparava per andare a letto, prese il telefono. Questa volta, non volle aspettare oltre. Con il cuore in gola, digitò un messaggio con cura: “Hey Davide, tutto ok? Mi manchi.” Si fermò un attimo, pensando a come lui fosse stato lì per lei quando tutto sembrava crollarle addosso. Premette invio con il cuore che le batteva forte: aveva bisogno di sapere se lui era ancora dalla sua parte.

Il telefono vibrò nella stanza di Davide. Lui lo fissò per qualche istante, immobile, senza prenderlo in mano. Il nome di Emily brillava sullo schermo. Sospirò, alzandosi dalla sedia, lasciandolo lì, con il messaggio ancora da leggere.

Capitolo 19: L’incontro

Non avevo risposto al suo messaggio. Quando il telefono aveva vibrato e il suo nome era apparso sullo schermo, mi ero limitato a fissarlo, sentendo il peso di mille emozioni che mi schiacciavano. Rabbia, dolore, paura… ma soprattutto quell’impotenza che mi perseguitava da giorni.

“Hey Davide, tutto ok? Mi manchi.”

Quelle parole continuavano a rimbalzare nella mia testa come un’eco in una cava vuota. Volevo rispondere, dirle che mi mancava anche lei, che non passava un attimo senza che pensassi a lei. Ma come potevo farlo, sapendo quello che sapevo? Come potevo guardarla negli occhi e fingere che tutto fosse normale?

Alla fine, non ce l’avevo fatta. Avevo preso il telefono, infilato le scarpe e mi ero diretto fuori. Dovevo affrontarla, anche se significava camminare verso il mio stesso abisso.

Ogni passo verso di lei mi sembrava un peso insostenibile. E se peggiorassi tutto? Se dicessi qualcosa di sbagliato? Ma non potevo continuare a fuggire. Avevo bisogno di guardarla negli occhi, di dirle quello che sentivo, anche se questo significava rischiare di perderla per sempre.

L’avevo trovata mentre usciva dalla casa di riposo. Era lì, in quel parcheggio quasi sempre silenzioso e deserto, con le aiuole e gli alberi da cui si sentivano solo gli uccelli cinguettare, e la vista della montagna in fondo, velata dalle nuvole cariche di pioggia imminente. Camminava lentamente, con il volto pallido e stanco, ma c’era sempre quel modo in cui teneva la testa alta, come una guerriera pronta alla battaglia. Quando mi vide, si fermò di colpo. I suoi occhi si spalancarono per un attimo, poi si strinsero in un’espressione di confusione e forse… rabbia.

Il cielo sopra di noi era carico di nuvole scure, quasi a voler riflettere la tempesta che si stava scatenando dentro di me.

“Davide,” disse, la sua voce tremava leggermente, ma il tono era deciso come una sentenza. “Che sta succedendo? Perché mi stai evitando?”

Rimasi in silenzio per un attimo, guardandola. Il mondo intorno sembrava sbiadito, come se esistessimo solo noi due, soli in un deserto emotivo. Poi, finalmente, trovai le parole, che uscirono più dure di quanto volessi, come il suono di un vetro che si frantuma.

“Ho visto il tuo profilo,” dissi. “So tutto.”

Per un istante, Emily sembrò congelarsi, come se tutto il calore del mondo fosse stato risucchiato via. Poi, come una diga che si spezza sotto la pressione dell’ira, esplose.

“E allora? Ti sei fatto un’idea, no? Hai deciso che sono una delusione, che sono sporca o indegna, giusto? Dimmi, Davide, che pensi? Parla! Infondo stai scrivendo anche un libro critico sulle sexworkers! Vuoi scrivere anche di me?”

Mi sentii travolto dalla sua rabbia, ma anche dal dolore che si nascondeva dietro quelle parole, come un coltello che scavava nel cuore della mia anima. Alzai una mano, cercando di calmarla. “Non è questo. Non penso che tu sia indegna o… sporca. Ma Emily, devi capire cosa stai facendo. Ci sono altri modi. Non devi fare questo per forza.”

Lei rise, una risata breve, amara, come il sapore del fallimento. “Altri modi? Davide, quali sarebbero questi altri modi? Ho già provato tutto! Faccio tre lavori contemporaneamente. TRE! E sai cosa ottengo? Una casa che cade a pezzi, due fratelli da mantenere e una vita che mi consuma ogni giorno di più.”

Mentre parlava, ricordai il suo sorriso, quel giorno in cui andai a casa sua mentre faceva fare i compiti ad Antonino. Era stata felice, libera da questo peso che ora la schiacciava come un macigno.

Cercai di interromperla, ma lei alzò una mano per zittirmi, la voce che si alzava mentre continuava, come un grido di battaglia.

“E tu vuoi parlarmi di cosa significa vendere il proprio corpo? Davide, è una vita che vendo il mio corpo! Quando lavoravo al pub, usavo il mio corpo per portare barili pesanti e vassoi colmi di bevande. In cucina lo usavo per preparare cibo, ferendomi le mani e senza alcuna tutela. Alla casa di riposo, sollevo persone pesanti, pulisco la loro merda, lavo i loro culi e le loro parti intime e spesso, ricevo schiaffi, morsi e anche molestie e il peggio di tutto questo e che devo sopportare tutto il silenzio, per tenermi stretto questo misero lavoro!.

Tutti guadagnano soldi con il proprio corpo, Davide. E ora ho deciso di farlo in un altro modo, di poter essere io a scegliere per una volta!. E Almeno, questa volta, nessuno potrà toccarmi fisicamente.”

Le sue parole mi colpirono come pugni nello stomaco. Sapevo che la sua vita non era facile, ma non l’avevo mai vista sotto quella luce, come se fosse stata costretta a vivere in un inferno quotidiano. Cercai di mantenere la calma, di farla ragionare, ma ogni parola sembrava un altro passo verso il baratro.

“Emily, lo capisco. Capisco che sia difficile, ma questo…” Esitai, cercando le parole giuste, come cercare un faro nella nebbia. “Questa strada è pericolosa. Potresti essere scoperta. E se succedesse? Se qualcuno lo scoprisse? Sai benissimo che viviamo in una città piena di pregiudizi, maschilista fino al midollo, dove in un attimo ti marchierebbero come una poco di buono. Qui non ti lascerebbero vivere in pace, Emily. Ti ricordi quella ragazza, quella povera ragazza stuprata e poi massacrata sui giornali come se fosse colpa sua? Palermo non perdona. Non dimentica. E se si venisse a sapere, la tua vita qui diventerebbe un inferno. E se… se Salvatore o Antonino lo scoprissero?”

Lei vacillò per un momento, ma poi riprese, con un’espressione di pura determinazione, come se stesse per lanciarsi nel vuoto. “Non ho più nulla da perdere, Davide. Oggi mi sono licenziata dalla casa di riposo. Non ce la faccio più. Non voglio continuare a vivere così, consumarmi giorno dopo giorno per una miseria. Questa è la mia scelta, e tu non sei nessuno per dirmi cosa devo fare con la mia vita e con il mio corpo. È la mia possibilità di tornare a respirare un po’. La gente parla e giudica sempre, nel bene e nel male… ma sai una cosa? Non ci sono loro a pagarmi le bollette, non ci sono loro a sostenere le spese di casa, né ad occuparsi di due fratelli che hanno bisogno di me.”

Ogni parola di Emily era un altro chiodo nella bara della mia convinzione di poter cambiare le cose. Mi sentii respinto, inutile, come se stessi osservando la nostra relazione disintegrarsi davanti ai miei occhi. Ma non potevo arrendermi.

“Non voglio controllare la tua vita,” dissi, con un filo di voce, come un sussurro tra le rovine. “Voglio solo aiutarti. Perché Emily, se continui su questa strada, potresti distruggerti. E io non posso sopportarlo.”

Per un lungo momento, rimanemmo in silenzio, un silenzio pesante come il piombo. Lei mi fissava, con il petto che si sollevava rapidamente per l’agitazione. Io guardavo a terra, cercando di trovare un appiglio in quel caos. Alla fine, lei scosse la testa, gli occhi pieni di lacrime, come se ogni goccia fosse una speranza perduta.

“Davide, non hai idea di cosa significhi essere me. Non hai idea di quanto io sia stanca, di quanto io abbia cercato di combattere. Se vuoi aiutarmi, allora lascia che io faccia quello che devo fare.”

E con quelle parole, si voltò e se ne andò, lasciandomi lì, con un vuoto enorme nel petto e mille domande senza risposta. La guardai allontanarsi, ogni passo un colpo al mio cuore. Le prime gocce di pioggia iniziarono a cadere, come se anche il cielo piangesse per noi.

Capitolo 20: La distanza che avvicina

Il silenzio della mia stanza era come un ronzio costante, che riempiva ogni angolo con il peso delle parole non dette tra me e Emily. Mi sentivo come un disco rotto, bloccato in un ciclo di domande senza risposta. Come avrei potuto aiutarla senza giudicarla? Ora, ogni soluzione sembrava un’illusione. Il tempo scorreva senza significato, come sabbia in una clessidra che non si capovolge mai.

Mi alzai dalla sedia, i piedi trascinati verso la finestra, dove il cielo grigio sembrava riflettere le nuvole dentro di me. Tutto il mondo fuori era in movimento, eppure io ero fermo, come se i miei pensieri fossero catene che mi legavano al presente. La mia stanza era un caos di fogli sparsi, testimonianze delle mie lotte per dare forma alle parole, alla mia storia. Ogni libro nella libreria era una fuga, un mondo in cui potevo nascondermi, ma oggi non offrivano consolazione.

Il bussare alla porta era un’irruzione nella mia solitudine.

“Davide, possiamo parlare?” La voce di mia madre attraversò la porta, con quella calma che spesso nascondeva decisione. Non aspettò la mia risposta per entrare, la sua testa che si sporgeva con una domanda silenziosa. “Non puoi continuare a isolarti così. Tuo padre ed io vogliamo sapere cosa stai facendo della tua vita.”

Il mio sospiro era più di una resa che di sollievo. “Non voglio parlarne adesso.”

“E quando, allora?” insistette. “Non lavori più al negozio, stai cercando un’altra occupazione? Hai 33 anni ormai, Davide, devi pensare al tuo futuro.”

Prima che potessi rispondere, i passi pesanti di mio padre si avvicinarono, la sua presenza quasi una forza della natura. Apparve sulla soglia, il suo sguardo di disapprovazione come una sentenza. “Scrivi ancora quel libro? Sempre dietro alla scrittura, vero? Una bella perdita di tempo, se vuoi il mio parere.”

Il calore della rabbia mi salì alle guance. “Non è una perdita di tempo,” risposi con un tono che sapeva di veleno. “Sai, dovrei scrivere un libro su di voi due. ‘I genitori modello’. Sarebbe un bestseller… ma non per voi.”

“Sei convinto di star facendo qualcosa di grande? Lascia che ti dica cosa vedo io: stai buttando via la tua vita per scrivere storielle,” disse, alzando la voce. “Forse dovresti trovare un lavoro vero, invece di continuare a nasconderti dietro a quella tastiera.”

Non riuscivo più a contenere la frustrazione. Mi alzai, la sedia cadde con un tonfo che riecheggiò nel silenzio. “Non sai niente di quello che sto facendo! Niente!” gridai. “Sto cercando di fare qualcosa che abbia un senso, ma voi non capite mai niente!”

Mio padre scosse la testa, non più con disapprovazione, ma con un’espressione che suggeriva che si aspettava qualcosa del genere da me. “Già, certo. Sempre la vittima. Sempre il povero Davide contro il mondo.”

Mi girai verso mia madre, sperando di trovare un’alleata, ma trovai solo un sorriso beffardo che mi faceva sentire ancora più isolato, più piccolo. “Come vuoi,” disse con rassegnazione, senza aggiungere altro.

“Lasciatemi in pace,” mormorai, la voce rotta. Mi voltai verso il computer, ma non trovai il coraggio di sedermi. Le mani mi tremavano, stringendo i pugni come se potessi afferrare la mia frustrazione.

Li sentii andarsene, le loro voci smorzate mentre scendevano le scale. Rimasi lì, nel silenzio che ora sembrava un abisso. Mi resi conto che forse Emily si sentiva soffocata dal suo lavoro e dalla vita, proprio come io mi sentivo soffocato dalla mia casa e dai miei genitori. La sua decisione di aprire un profilo da sexworker era forse il suo ultimo tentativo di trovare una via d’uscita, come la mia scrittura era per me. Capivo la disperazione di cercare un’occupazione in Sicilia, dopo averne appena persa una, la sensazione di essere in trappola. Mi avvicinai alla libreria, presi un libro senza neanche guardarlo

e lo riposi, il gesto rifletteva la mia incapacità di trovare risposte.

Emily stava nella cucina, circondata da bollette e domande senza risposta. Il portatile acceso sul tavolo era come un faro nella notte, il suo profilo su OnlyFans una luce incerta. Lasciare la casa di riposo le aveva dato un senso di libertà, ma anche di responsabilità schiacciante. Doveva fare qualcosa, e in fretta, ma il confronto con Davide continuava a tormentarla.

Antonino corse dentro, il suo sorriso un piccolo sole in una stanza piena di ombre. “Emily, guarda! Ho disegnato un robot che spara missili!” esclamò, offrendole il suo mondo colorato. Lei sorrise, accarezzandogli i capelli, mentre l’odore del sugo sul fuoco riempiva l’aria, mescolandosi con le risate della TV.

“È bellissimo, tesoro. Mettilo sul frigorifero, così tutti lo vedono,” disse, cercando di mantenere l’allegria per lui. Ma appena Antonino se ne andò, il suo sorriso si spense.

Si passò una mano tra i capelli, lo sguardo fisso sullo schermo del computer. Aveva deciso di aprire quel profilo, ma il dubbio la consumava. Era la strada giusta? O solo una fuga da una vita che non riusciva più a sopportare? Emily, sempre timida, introversa, che odiava apparire, vedeva questa scelta come un sacrificio necessario, un mezzo per un fine più grande per lei e i suoi fratelli. Ma come far funzionare tutto questo? Era pronta per mostrare una parte di sé che aveva sempre tenuto nascosta? Un tempo aveva sognato di viaggiare, di vedere luoghi

lontani e culture diverse, ma ora sembrava un’illusione lontana.

Mentre sistemava la cucina, i pensieri su Davide non la lasciavano. Aveva cercato di giustificare la sua scelta con lui, ma ora si chiedeva se non ci fosse un’altra via. La sua rabbia verso di lui si mescolava alla rabbia verso sé stessa. Voleva scrivergli, ma la paura di un altro scontro la teneva ferma.

Guardò fuori dalla finestra, osservando i bambini che giocavano nel cortile. Ma proprio in quel momento, iniziò a piovere, e i bambini corsero dentro, cercando riparo. Emily sentì quel desiderio, il desiderio di scappare dalla sua tempesta, di trovare un rifugio.

Il suo telefono vibrò sul tavolo. Una notifica. Forse era Davide? No, non poteva essere. Con riluttanza, lesse il messaggio: era della nonna di Davide. “Emily, puoi venire domani in anticipo? Il nonno non sta bene.” Il cuore le si strinse, ma non aprì subito il messaggio completo. Non era pronta per affrontare un’altra complicazione. Si alzò, riordinò i suoi fogli, e si preparò per il turno come cameriera. Almeno il lavoro le avrebbe offerto una distrazione momentanea dalla tempesta dentro di lei.

Capitolo 20: L’ultimo saluto

Emily arrivò dalla nonna di Davide un po’ prima del solito. Il sole mattutino, pallido e incerto, filtrava appena tra le tende della cucina, gettando ombre lunghe e tristi sulla stanza. L’odore del camino si mescolava all’aria fredda di fuori,

creando un’atmosfera di ghiaccio nonostante il fuoco acceso, che ora stava lentamente spegnendosi. Rosa la accolse con un sorriso stanco, il viso segnato dalla preoccupazione. “Grazie per essere venuta così presto, cara. Non so cosa farei senza di te. È molto debole. Mi spaventa vederlo così.”

Emily annuì, sentendo un nodo stringerle lo stomaco. Si tolse il cappotto e si avviò più avanti nella stanza, dove il nonno era sul letto accanto al camino. Ogni passo sembrava carico di una sensazione di inquietudine che conosceva bene, quella sensazione di morte addosso che aveva imparato a riconoscere durante le lunghe notti alla casa di riposo. “Buongiorno,” disse con dolcezza, ma nessuna risposta arrivò.

Quando si avvicinò al letto, si accorse subito che qualcosa non andava. Il suo respiro si fermò per un istante, e il cuore accelerò. “Signora Rosa!” chiamò, la voce spezzata dall’angoscia.

Rosa accorse immediatamente, e il suo viso si irrigidì quando vide il marito immobile, il volto sereno ma privo di vita. Con un gemito soffocato, si portò una mano al cuore, come se il dolore l’avesse colpita fisicamente. “Oh, Dio mio…” sussurrò, mentre gli occhi si riempivano di lacrime incontrollabili, le guance bagnate da un fiume silenzioso. Tuttavia, cercava di mantenere una certa compostezza, il suo modo di essere forte per tutti.

Emily si ritrasse leggermente, lasciando spazio alla moglie. Non era il momento di dire nulla, solo di esserci. Con mani tremanti, Rosa prese il telefono per chiamare suo figlio, il

padre di Davide, mentre Emily rimase accanto a lei, cercando di offrirle un supporto silenzioso, stringendole leggermente la mano.

Pochi minuti dopo, Davide scese le scale, le sue gambe pesanti come se attraversasse un mare di sabbia. La voce tremante di sua madre gli aveva detto solo: “È successo… tuo nonno…”

Entrando nel salone, si trovò davanti a una scena che sembrava sospesa nel tempo. I tizi delle pompe funebri, vestiti di nero come ombre silenziose, stavano sollevando il corpo di suo nonno. Il cadavere, magrissimo e deforme dopo anni di immobilità, pendeva come una marionetta spezzata, priva di fili che potessero sorreggerlo. La testa inclinata e le braccia ossute sembravano parlare del peso di una vita ormai consumata. Davide rimase immobile, incapace di muoversi, come se il dolore lo avesse paralizzato. Dentro di lui, un tumulto di emozioni si scatenava: tristezza, rimpianto, e una disperazione che ingoiava, trattenendo le emozioni dentro di sé per non esplodere fuori, evitando di incrociare lo sguardo degli altri. Il tempo sembrava essersi fermato, i secondi si dilatavano in minuti, e tutto gli sembrava un brutto sogno dal quale non riusciva a svegliarsi.

Sua nonna era seduta su una sedia vicino al camino, con il viso rigato dalle lacrime. Accanto a lei c’erano Emily, la madre di Davide e anche suo padre, affiancati dagli zii: il fratello e la sorella di suo padre. Il dolore sembrava aver unito tutti in quel momento, trasformando la stanza in un luogo di silenziosa condivisione. Gesti di conforto e vicinanza fisica si diffondevano tra i presenti; una mano sulla spalla, un

abbraccio silenzioso. Ma quando il padre di Davide iniziò a piangere apertamente, senza preoccuparsi di chi lo vedesse, l’attenzione di tutti si focalizzò su di lui. Nessuno, neanche i suoi fratelli, oltre a Davide suo figlio, lo aveva mai visto in un momento di debolezza.

Un ricordo improvviso attraversò la mente di Davide: il nonno che, dopo una giornata di lavoro, mostrava a lui e ai suoi cugini i pesci che vendeva al mercato, con la sua sedia a dondolo di legno vuota ora a testimoniare la sua assenza.

Davide fece finalmente un passo avanti, poi un altro, fino a raggiungere sua nonna. Si inginocchiò davanti a lei e le prese le mani. “Mi dispiace, nonna, davvero non lo sopporto,” mormorò, la sua voce spezzata dal dolore.

Lei annuì lentamente, stringendogli le mani con una forza sorprendente per qualcuno che sembrava così fragile. “Era stanco, Davide. Se n’è andato in pace, finalmente.”

Quando tutto fu sistemato, la casa sembrava immersa in un silenzio irreale. I familiari di Davide restarono assieme alla nonna, osservando le operazioni dei becchini con un rispetto quasi religioso. La luce nella stanza era cambiata, ora più scura, riflettendo l’oscurità del momento. L’orologio ticchettava lentamente, ricordando a tutti che il tempo non si ferma davanti a nessuno.

Emily rimase accanto a loro per qualche minuto, in silenzio, cercando di offrire una presenza discreta ma solidale. Con lo sguardo osservava le cose del nonno, i piccoli oggetti che raccontavano una vita intera: il suo orologio con il cinturino di cuoio e il quadrante rotondo, la sedia a dondolo vuota. Senza dire nulla, prese il giornale e lo piegò con cura.

“Mi dispiace per il tuo nonno,” disse Emily, avvicinandosi. La sua voce era dolce, ma carica di sincerità. Non c’era traccia della tensione che aveva caratterizzato i loro ultimi incontri.

Davide alzò lo sguardo verso di lei, notando per la prima volta quanto fosse pallida. “Grazie, davvero,” rispose, quasi sussurrando.

Rimasero in silenzio per un momento, il peso dell’evento che li circondava come un velo opprimente. Fu Emily a spezzare il silenzio, offrendogli un sorriso triste ma sincero. “Sono qui se hai bisogno di me, ok?” disse, mentre apriva una finestra, permettendo a una brezza fresca di entrare, disperdendo l’odore di fumo del camino.

“Grazie,” ripeté Davide, questa volta con un filo di voce più deciso. In quel momento, il dolore sembrava averli avvicinati, come se fosse l’unico linguaggio che parlavano entrambi.

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Antonino Derelitto
"Scrivere è sempre stato il mio modo di esistere nel mondo".

Mi chiamo Antonino Derelitto, Classe 1991, vivo in una piccola provincia di Palermo chiamata Villabate. Diplomato in Ragioneria, Ho svolto diversi lavori ma le parole sono sempre stati il mio rifugio e la mia linfa vitale. Prima nei testi musicali, con cui per anni ho raccontato emozioni e ribellioni poi nella scrittura narrativa che oggi è diventata la mia vera casa. Il prezzo della dignità è il mio romanzo d'esordio. E' nato in un momento difficile, come scrittura terapeutica dopo una grande delusione lavorativa ma presto ha preso forma, diventando una storia urgente da raccontare. La mia scrittura è riflessiva, introspettiva a tratti provocatoria. Nasce dal desiderio di toccare nervi scoperti, di interrogare e smuovere, di lasciare un segno.
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