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Il punto Gaia

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Consegna prevista Gennaio 2026

DINAMITE. Questo romanzo non è altro che DINAMITE!
Michelangelo Serranova è un ventisettenne tutto libertà e testosterone che si lascia con la ragazza che ha amato di più nella sua vita e insieme a lei perde la bussola: passa da una relazione all’altra, da un lavoro (o dovremmo dire licenziamento?) all’altro, poi sbronze, scazzottate e qualche sonnifero di troppo. Gaia, la sua ex mai del tutto ex, sembra l’unico punto fermo davanti a tanta precarietà lavorativa, sentimentale, esistenziale. Sebbene Michelangelo faccia di tutto per distrarsi, non riesce a dimenticarla… e chissà se lei tornerà mai da lui per dare un nuovo senso alla sua vita… oppure mettere definitivamente un punto, il punto Gaia.
Finalmente una storia esplosiva che cattura il lettore fin dalla prima pagina, grazie soprattutto alle gesta di un protagonista spaccone, sfrontato, eccessivo, un vero stronzo che in fondo all’anima è in realtà sensibile e vulnerabile. Parliamo di DINAMITE, nient’altro che DINAMITE!

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questo libro perché quando ho l’amore sogno la libertà e quando riconquisto la libertà aspiro all’amore.
Perché nessun amore del passato può cadere nell’oblio se è stato vero amore.
Perché apprezzo l’erotismo senza censure in tutte le sue dimensioni.
Perché ero stanco di leggere romanzi pesanti e noiosi, mentre cercavo qualcosa di avvincente, frontale, a tratti volgare, ma sempre tremendamente vero. Soprattutto per questo è nato “Il punto Gaia”.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Prologo

– Io non ce la faccio più. Perché non riesci ad avere fiducia in me? Per quale motivo non riesci a lasciarmi libero?

– Hai il coraggio di chiedermi il perché? E’ vero che mi hai mentito e nascosto interi capitoli della tua vita, oppure me lo sono inventata io?!

– E perché l’ho fatto? Forse perché temevo le tue reazioni da pazza? Forse perché conosco la tua sconfinata sensibilità e non volevo che soffrissi? Ma non è una giustificazione; ho sbagliato a mentirti, quindi adesso cercherò di essere il più sincero possibile: vivere con te è diventato troppo pesante, sei piombo, il residuo fisso nell’acqua della mia vita che vorrebbe solo scorrere; scorrere libera. Da adesso mi riprendo la mia leggerezza, la mia libertà, il mio destino. Mi riprendo tutto quello che mi hai tolto.

E me ne andai, portandomi dietro molte delle sue speranze.

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Qualche settimana più in là

Mi portai a casa una sciacquetta che lavorava nel Bridge bar. Viso lungo e un po’ spigoloso, carnagione abbronzata ma poteva essere terra, gran culo. Seno, non pervenuto.

Appena a casa, buttò la giacca per terra e si stese prona sul divano. Lo fece come fosse la cosa più naturale del mondo. Sollevò le gambe e iniziò a muoverle avanti e dietro, avanti e dietro, mentre sfogliava un settimanale di gossip che era rimasto lì da solo. Guardarla in quella posizione mi fece eccitare. Iniziai a sfilarle i pantaloni. Lei reagì: «Ehi, non perdi tempo tu!» Aveva una cadenza strascicata, lamentosa, come se parlare le desse sofferenza. «Sono un sostenitore del ‘carpe diem’ oraziano» risposi. «Carpe cosa?» «Lasciamo stare, aiutami a toglierti questi dannati jeans.»

Mentre le ero sopra, da dietro, dovevo togliermi i suoi ricci dalla bocca e dal naso. Loro tornavano a infastidirmi ogni tot di spinte e ogni volta dovevo spostarli dal viso. In prossimità dell’orgasmo, tuttavia, non ci feci più caso.

Non me la sentivo di addormentarmi con una sconosciuta in casa. Ci rivestimmo e la riaccompagnai. Abitava ai confini remoti del San Paolo: un cesso di palazzo in un cesso di quartiere. «Speravo mi chiedessi il numero di telefono, sei come tutti gli altri» disse. «Questo è un insulto, io sono assai peggio.»

E mentre se ne andava sfoggiando il suo dito medio, io, guardando più in basso, fissavo compiaciuto la ragione dondolante per cui me la portai a letto.

Un tempo ero molto romantico. Mi capitava spesso di portarmi ragazze a casa, vedere film insieme, magari parlare per tutta la notte. Non era così male, grazie a serate come quelle ho imparato molto sulla psicologia femminile: ho imparato, ad esempio, che alle donne piace andare al sodo e che a differenza nostra lo tacciono più spesso. Una mi raccontò di aver visto molte poetiche albe in spiaggia prima di arrivare alla fatidica “prima volta”, e ogni volta che tornava a casa a bocca asciutta si disperava e si masturbava, la seconda con risultati deludenti.

Il giorno dopo mi alzai a mezzogiorno. Accesi il cellulare e trovai diverse chiamate: mamma, Hank, papà, Francesca. Non c’era quella che avrei voluto trovare, un classico. Mi ero lasciato da poco con Gaia e in cuor mio, meglio, in una parte del mio cuore, speravo tornasse. È stata la ragazza che ho amato di più nella mia vita, l’unica che mi ha fatto accantonare la mia voglia di libertà. Almeno per un po’. Poi è ritornata prepotente, disposta a prendersi tutto ciò che si era persa a causa delle regole di un rapporto di coppia “sano”, e lì hanno avuto inizio i problemi… Era indubbio che mi mancasse, ma più i giorni di pausa trascorrevano, più iniziavo ad apprezzare i doni di nostra signora Libertà. Le scopate erano la ciliegina sulla torta, in realtà prima c’era molto altro: innanzitutto il silenzio. Quando sei solo, non hai bisogno di molte parole. Non devi aggiornare nessuno sui tuoi spostamenti e i tuoi intendimenti. Gaia mi accusava di essere incoerente e inaffidabile e questo avveniva perché mi sentivo costretto a esternare i miei progetti. Tutti i miei affari dovevano essere condivisi. Poi magari cambiavo idea, e io cambio idea come cambio le mutande, e mi dava dell’incoerente.

Adesso potevo apprezzare il silenzio. Silenzio vuol dire non motivare le proprie scelte, non giustificarsi per quello che si fa o si smette di fare, evitare discussioni e litigate sul nulla, risparmiare preziose energie; nel silenzio si diventa più sani. Vallo a dire agli psicoterapeuti.

Passai quello che restava della mattinata sul divano a cazzeggiare su Internet, era troppo tardi per uscire. Ma dovevo uscire. La casa era un porcile e il cibo era finito. Convivevo tutto sommato bene col porcile, assai meno con la fame. Mi chiamò mia madre. «Ciao Miki, tutto bene a casa?»

«Una favola.»

«Stai cercando un lavoro?»

«Certo, mamma.»

«Stai mantenendo casa pulita?»

«Come la mia coscienza, mamma.»

Verso il tardo pomeriggio il mio stomaco cominciò a suggerirmi le motivazioni per uscire. Andai a fare la spesa. Ritornando dal supermercato intravidi una luce blu che lampeggiava. Di lì a qualche passo capii che era un’autoambulanza. Non era una cosa che mi avrebbe incuriosito troppo se l’autoambulanza e, come constatai appena dopo, anche alcuni vigili del fuoco, non fossero stati  proprio di fronte al mio portone. Mi feci il segno della croce temendo il peggio. Salendo le scale arrivai al mio pianerottolo e vidi due crocerossine e un pompiere davanti alla mia porta d’ingresso spalancata. Un’amara consapevolezza mi strinse le viscere.

DUE ORE PRIMA.

Era una paesana che avevo conosciuto su Facebook e con la quale avevo chattato per molti giorni. Si chiamava Lucrezia. Detesto le paesanotte che si fingono sofisticate, ma per lei era diverso. Le cose che diceva erano profonde, sensate, e sembravano genuine. Si era rifiutata di vedersi con me per rispetto di un ragazzo che non era il suo ragazzo, ma che, diciamo, aveva grosse possibilità di diventarlo. Un comportamento che aveva il dolce aroma della rarità. Riuscire a vederla era diventata una sfida. Mi piaceva quello che diceva, avevamo un interesse in comune: la psicologia. Lei come lavoro, io come uno dei miei interessi. Usai tutte le mie carte, ma non ci riuscii. La chat mi limitava molto. Se anche solo avessi potuto chiamarla al telefono, le chances sarebbero aumentate. Ma lei non mi concedeva neanche la possibilità di ascoltare la sua voce. Riusciva a essere incredibilmente aperta su certi argomenti, e parimenti rigida, più che talebana, su altri. Questa apparente contraddizione mi affascinava.

Ero un po’ giù perché sentivo la mancanza di Gaia e volevo un’emozione che mi rincuorasse. Lucrezia era on line. Le scrissi:

«Ho bisogno di parlarti. Anche solo per pochi minuti.» «Che è successo?» «Sto male, ho preso dieci pasticche di EN.» «Ma sei pazzo! Dici davvero?» «Sì, non mi sento bene, ho bisogno di parlarti…» «Ok ok, dammi il tuo numero.»

Era fatta. Finalmente avrei ascoltato la sua voce.

Gaia mi mancava ed ero triste. Non dovetti fare altro che cavalcare fino in fondo quel sentimento per assumere una tonalità molto depressa. «Lucrezia, ti chiedo scusa se ti sto coinvolgendo in questa storia… ma io… io… non riesco più, non ce la faccio!» «Cosa ti è successo, Miki? Perché stai così giù?» «Io non ti ho detto una cosa durante le nostre lunghe conversazioni… non ti ho detto che ho amato una donna più di ogni altra cosa, e, io… io l’ho tradita. La cosa si venne a sapere e lei… lei non mi ha mai perdonato, mai. Adesso mi manca più dell’ossigeno, non credo di farcela. Sono stanco di soffrire.»

Il colloquio andò avanti per un’oretta circa. Il marcato accento bitontino unito a un tono piacevole quanto una cantilena non voluta, avrebbe potuto aggravare uno stato di depressione. Le cose che mi ha detto non meritano di essere ripetute: banali. Alla fine, come spesso accade, da paziente diventai dottore: le accennai qualche consiglio di vita e la tranquillizzai sul mio stato di salute. Credevo di averla tranquillizzata, finché non trovai una donna in divisa sul pianerottolo di casa che faceva domande: «Lei è Michelangelo Serranova?»

«In persona.»    

«Abbiamo ricevuto una segnalazione…»

È stata Lucrezia, pensai.

«…abbiamo provato a citofonare ma nulla. Siamo entrati nel portone. Abbiamo bussato e non rispondeva nessuno.»

«Infatti non c’era nessuno.»

Dalla porta aperta nel frattempo uscivano due vigili del fuoco.

«Sì, ma abbiamo dovuto forzare la porta perché temevamo il peggio, temevamo che potesse essere in coma a causa degli ansiolitici. O addirittura fosse morto.»

Non ce l’avevo con quella fottuta ragazza, ce l’avevo con me! «Sono sano come un pesce. Ma che è successo alla porta?»

«Purtroppo nel cercare di aprirla hanno rotto la serratura. Rimedieremo all’accaduto quanto prima. Adesso per chiuderla può arrangiarsi in questo modo», accostò la porta, ma non si sentì lo slack della serratura.

«Lei mi vuole dire che non posso chiudere la mia porta?!»

«La può socchiudere, vede, dall’esterno sembra chiusa normalmente» disse, “chiudendo” la porta. «Domani mandiamo un operaio a rimettergliela a posto.»

«Domani. Siamo sicuri che sarà domani?» feci allarmato.

«Assolutamente, può stare tranquillo signor Serranova.»

Il giorno dopo mi svegliai con il pensiero della vigilessa del fuoco. Accesi il cellulare. Trovai tre chiamate: mamma, Hank e Francesca. Mi avvicinai alla porta d’ingresso e la osservai molto attentamente, come fosse la prima volta in vita mia che avevo a che fare con una porta. Toccai la parte della vernice vicino alla serratura che si era tolta come una pellicina dalle dita, e iniziai a preoccuparmi. Mio padre è attaccato alla casa e a tutto quello che si trova in casa, se la trovasse in questo stato, pensai, farebbe al mio culo quello che i pompieri hanno fatto alla porta. Il problema sarà giustificare l’accaduto; non potevo mentire perché sicuramente qualcuno nel condominio avrà sentito, e io sapevo che i mediocri sgomitano per afferrare l’occasione di sputtanare la gente. Dovevo prendere rapidi e decisi provvedimenti. Ma ora non mi andava.

Il cellulare suonò e apparve mamma 3 sul display.   

«Miki, tutto bene a casa?»

«Meravigliosamente, mamma.»

«Ci sono novità?»

«Tutto nella norma, mamma.»

«Stai cercando lavoro?»

«Certo mamma, ma sai… la crisi rende tutto più difficile».

Decisi di chiamare Francesca. Con oggi erano passati sei giorni senza sentirla perché non rispondevo alle sue chiamate e ai suoi messaggi. Ma ora avevo voglia delle sue labbra. Il mio problema, uno dei tanti, è che sono un ricercatore di emozioni. La vita la voglio piena. Piena di emozioni. E non riesco proprio a separare il concetto di emozione da quello di donna. Ci siamo conosciuti questa estate a Rosa Marina, un villaggio-vacanze di figli di papà a due passi da Ostuni, la celebre città bianca. Ogni anno andavo lì per godermi un po’ di relax e lavorare come PR per mettere qualcosa da parte. Ci sapevo fare con la gente: un martedì riuscii a fare entrare centoquarantasei persone con le mie riduzioni; la mia media era intorno alle novanta —cento il martedì e una quarantina il sabato. Il sabato era più difficile perché c’era maggiore concorrenza. Anche se lavoravo per una discoteca, non mettevo piede in pista perché detestavo i luoghi troppo pieni e la musica ad alto volume. Quando gli amici mi domandavano come mai non mi avessero visto, io chiedevo loro in che zona ballavano, e rispondevo sempre che ero dalla parte opposta. Era strano che alcuni mi dicevano: «Ti ho visto ieri sera che ti scatenavi come un matto!» oppure «Hai stappato nel privé circondato da belle fighe, sempre il solito!» e altra roba simile. Io confermavo sempre, ringraziando di avere in giro qualcuno che mi somigliasse e un sempre crescente numero di rincoglioniti.

Francesca era nuova del villaggio, nel senso che questa estate aveva l’età per interessare i ragazzi: sedici anni. Praticamente una bambina. Tuttavia, la sera, con tacchi e minigonna si trasformava in una femme fatale che lasciava dietro di sé una moltitudine di sguardi bramosi, incluso il mio. I maschi, quando si tratta di una bella fica, oscillano spesso tra il futile e il prevedibile. Era la cugina di un mio caro amico, Gianni Mottola. Quando me la presentò non immaginava che avrei potuto… e nemmeno io lo immaginavo. Non avrei mai pensato di provare qualcosa per una sedicenne. Il mio cuore è come una spugna, c’è poco da fare. Mi piaceva chiamarla Cockerina, perché quando aveva i capelli sciolti le aderivano al viso e mi ricordavano le soffici orecchie di un Cocker; erano mossi e foltissimi, del colore del miglior grano. Aveva degli occhi dolci e si lasciava coccolare. Francesca è stata uno di quei piaceri semplici ai quali, ogni tanto, uno spirito complesso sente il bisogno di approdare.

Non c’è stato molto tra noi, questo perché ho sempre avuto difficoltà nel violare la verginità di una ragazza. La vedo come una gran responsabilità. Il mio timore è illudere le persone e questo timore è particolarmente forte nei riguardi di chi risiede in una posizione di svantaggio. Ma lei mi piaceva, cazzo. Pensai per un attimo alle possibili conseguenze del mio agire: la chiamo, ci vediamo, le offro qualcosa da bere, ma poi vorrò portarmela a letto. È questo lo sbocco fisiologico, non c’è nulla da fare, anche con una sedicenne. L’istinto mi diceva di chiamarla, ma il mio cervello sapeva che era troppo piccola, così pensai di desistere. Ma poi mi venne in mente la frase del protagonista di Arancia Meccanica, Alexander de Large: «È da stupidi pensare, i cervelluti si lasciano guidare dall’ispirazione». Le telefonai.

«Ciao Cockerface.»

«Ehi, ciao! Ma che fine hai fatto? E la vuoi smettere di chiamarmi così?!»

«Ho avuto un po’ di casini, scusami…»

«E ora li hai risolti?»

«Aggravati, ora che ti chiamo li ho aggravati.»

«Sceemooo! Perché li hai aggravati?»

«Perché sai cosa voglio da te.»

«Cosa vuoi da me?»

«Voglio farti cambiare segno zodiacale.»

«Perché?»

«Tutte prima o poi lo cambiano, solo le suore restano vergini. E non ne sono neanche così sicuro.» «Ma la vergine è un bel segno, razionale, preciso, affidabile…»

«Prevedibili, taccagni e molto pedanti.» Rise un poco. La incalzai: «Allora piccola, posso passare a prenderti?»

«Adesso non posso, ho un impegno.»

«Va bene, ci vediamo quando lo finisci, questo impegno.»

«Non so se lo finirò.»

«Cosa devi fare?»

«Mi sto rivedendo col mio ex.»

«Perché ti rivedi? È il tuo ex, appartiene al passato, no?»

«Diciamo… che… da ieri non è più così ex.»

La stronzetta era tornata sulla vecchia via. «Lo sai, spero che il tuo ex faccia quello che ti meriti.»

«Cioè?»

«Farti cambiare segno e mandarti a fanculo. Sei ancora piccola, ma hai le carte in regola per diventare una gran puttana.» Restò in silenzio per diversi secondi. Appena iniziò a balbettare qualcosa del tipo: «Non pensavo che te la prendessi così…» le sbattei il telefono in faccia. Mi riprovò a chiamare diverse volte, ma evitai di risponderle. Aveva la scusa di avere sedici anni; a quella età le ragazzine non mantengono mai un’idea ferma per più di ventiquattr’ore (se va bene). Volubili e inaffidabili. Io lo sapevo, ma volevo che abbozzasse un senso di colpa. Dopotutto, lo facevo per lei: soffrirà un po’, forse, e dicono che la sofferenza serva per crescere.

Se avessi avuto un lavoro, adesso mi sarei concentrato su questo e non avrei pensato a Francesca. Invece ero lì sul divano, imprigionato in un corpo che chiedeva solo di non far niente, un nuovo pezzo di arredamento della casa; una casa ridotta a porcile, con la porta rotta e il frigo vuoto.       

Era ancora mattina. Nel portafoglio sapevo di avere da diversi mesi un numero di un’offerta di lavoro: «Sei giovane e positivo? Abbiamo il lavoro che fa per te!»

Non ho mai chiamato perché intuivo che sarebbe stato uno schifo di lavoro, però adesso mi pareva che potessi accontentarmi di tutto. Così chiamai e rispose una ragazza. Mi disse che eccezionalmente il colloquio sarebbe stato possibile nel primo pomeriggio di oggi, alle 16,00. Accettai senza pensarci. Avevo a disposizione ben tre ore per prepararmi, molto più del necessario. Mi lavai in breve tempo. Mi tirai un po’. Non pensavo che quella potesse essere l’occasione della mia vita, tuttavia volevo fare una figura decente. Camicia, pantaloni in lino e mocassini: eleganza ricercata mai sbandierata. Adesso mancavano due ore e mezza all’incontro. Aprii il frigo ed ebbi conferma che era vuoto. Non del tutto però. Mio padre aveva lasciato in fondo, seminascoste, tre Tennent’s. Buongustaio. Iniziai a bere per ingannare l’attesa. La prima Tennent’s andò giù come l’acqua, il sapore amaro come doveva esserlo, la temperatura ideale. Fantastico. La birra placò subito la leggera tensione che avvertivo. Erano i primi di settembre, ma climaticamente Bari e soprattutto la mia casa erano rimaste a fine luglio. Passai alla seconda Tennent’s. Prima di berla la strusciai sul collo e sul petto sudati. Che goduria. Nel giro di mezz’ora mi scolai anche la terza birra e adesso ero completamente ubriaco, ma non tanto da non trovare la strada del colloquio di lavoro. Barcollando arrivai a destinazione con tre quarti d’ora di ritardo. Ero euforico e sicuro di me.

Quella che doveva essere la segretaria mi guardò disgustata. «Lei è il signor Serranova?»

«Come ha fatto a indovinarlo?»

«È l’unico che manca all’appello.»

«Mi sono distinto con il mio ritardo, eh?»

«Ci aspetteremmo che chi lavora per noi si distingua positivamente.» Aveva una voce da stronza. Una faccia da stronza. Finanche gesticolava come una stronza.

«Ma io non lavoro per voi.»

«E se questi sono i presupposti non ci lavorerà.»

«Ah ah ah! Mi sei simpatica piccola, ci scambiamo i numeri?»

«Non mi sembra davvero il caso.»

«Per quale ragione?»

«ANTONIO, STA ARRIVANDO IL SIGNOR SERRANOVA!»

«Venga pure avanti!» si sentì da una porta. La segretaria con la mano destra me la indicò.

Entrai in una stanza che sembrava arredata da Ikea. Ma i mobili dell’Ikea sono molto meglio, pensai.

«Si sieda pure, signor Serranova.»

Lo feci.

«Come mai questo ritardo?»

«Ho bevuto un po’ troppo e ho perso la cognizione del tempo.»

«Beh, questo potrebbe essere un problema per…» Lo interruppi: «Ma non bevo ogni giorno, è capitato.»

«Lei beve solo prima dei colloqui di lavoro?»

«Esattamente.»

Sorridemmo.

«Lei sa di che lavoro si tratta?»

Feci no con la testa.

«Noi vendiamo libri, libri di settore. Per lo più medicina, prima infanzia, psicologia. La vendita avviene via telefono.»

Feci sì con la testa.

«Ogni libro ha un prezzo fisso… è un prezzo molto conveniente considerando che sono libri di settore: trenta euro.» Dovevo apparire meravigliato: «Trenta euro?»

«Le sembra troppo? Calcoli che sono libri di settore.»

«Ma trenta euro sono trenta euro. A chi dovrei venderli? Studenti universitari?»

«A chiunque. Anche casalinghe.»

«Lo sa che alla Sognidaleggere i libri di settore, come li chiama lei, non superano i venti euro?» «Lei si sbaglia.»

«Può darsi, ma trenta euro sono troppi. Siamo un paese di drogati di social-network e serie tv. I libri si trovano su internet. Io leggo un libro a settimana e in genere non spendo più di quindici euro.»

«Ma non sono mica libri di settore!»

«Ma secondo lei alla casalinga media cosa gliene frega di comprare un libro di settore? Non è una ricercatrice universitaria, non è una esperta… del settore. E la crisi perenne di questo paese? Dopo la crisi siamo ancora in crisi, si rende conto? Trenta euro sono troppi per chi a stento riesce ad arrivare a fine mese.»

Mi guardò per qualche secondo senza dirmi nulla. Sembrava contrariato. «A lei interessa davvero lavorare?»

«Accetterei il lavoro se potessi venderli a quindici euro.»

«Temo che sia impossibile, mi spiace.»

“Neppure venti?”

Indicò l’uscita con decisione, e io obbedii. Prima di andarmene chiesi alla segretaria il suo nome. «Marta». Le chiesi anche il cognome per beccarla su facebook, ma alzando sopracciglia e spalle disse che non poteva. Ci avevo visto bene: era una stronza.

Ritornai sulla strada per casa mia, anche se non volevo; mi sentii triste. Quando non so cosa fare mi intristisco. Tutto ciò è patetico, ma sono figlio della cultura del fare, non dell’essere. Quando non riesci a essere molto, hai bisogno di fare molto, e io non facevo nulla.

Tornai indietro, dritto verso il Bridge bar.

Il Bridge era situato all’esterno del ponte che congiungeva Japigia con il lungomare, su una piattaforma di cemento del tutto abusiva, poi condonata, che svettava come una base aerea. Entrai e presi a sedere. La sciacquetta dell’altra volta assunse un’espressione strana quando pronunciai: «Una coca». Dopo avermi servito, preoccupata, chiese cosa mi fosse successo.

«Nulla.»

«Non ti ho mai visto prendere una coca.»

«C’è sempre una prima volta.»

«Mi sembri molto giù.»

«Indovinato.»

«Che è successo?»

«Nulla.»

«Fanculo.» E mi lasciò solo con la mia coca.

La guardai tornare al bancone. Aveva davvero un bel culo. Iniziò a lavare e asciugare i bicchieri.

Aveva anche delle belle mani affusolate, non le avevo notate l’ultima volta. Era quasi rabbiosa quando lavorava sui bicchieri. I suoi ricci ondeggiavano al ritmo delle sue braccia. Mi piaceva guardarla.

«MARY, UN’ALTRA COCA PER FAVORE!»

Arrivò al tavolo e me la servì senza nemmeno guardarmi. Le misi una mano al fianco la attirai a me. «Mi dispiace Mary, sono stato poco carino, solo è un momento di merda.» Mi tolse la mano dal fianco e corse via al suo da fare. Continuava a lavare e asciugare, ora meno nervosamente.

Arrivò un uomo sulla quarantina che ordinò una vodka liscia. Era molto elegante; si sedette e iniziò a parlare con lei. Non riuscivo a sentire esattamente cosa diceva, ma le parole «yacht»e «vacanze a Cortina» mi sembrarono piuttosto chiare, così come la risatina compiaciuta che le seguiva; più parlava, più lei sembrava interessata. A un certo punto Mary smise di occuparsi dei bicchieri, regalandogli tutta la sua attenzione. Sentii ancora: «La mia villa.» «I miei due cani mi stanno rovinando il giardino e…» «Ma gli affari sono affari…» Continuava a pavoneggiarsi mentre Mary gli sorrideva. Non ero geloso, ero nervoso. Pensai, cazzo, quel figlio di puttana mi sta scippando la mia scopata. Dovevo intervenire. «MARY, UN’ALTRA COCA PER FAVORE!» La puttana gridò: «Frank, mi dai una mano col cliente?»

Frank era il proprietario del Bridge ed era perennemente sbronzo. Se ne stava seduto tutto il giorno con la sua birra sulla panchina appena fuori il locale. Mi stava simpatico. «Che succede piccola?» chiese appena entrato. «Il cliente ha bisogno di te! Io sono troppo occupata adesso…» Hai capito la stronza?, pensai.

Appena Frank mi vide, sorrise. «Mister Serranova! Non l’ho vista entrare! Come sta?»

«Ciao Frank. Sto benissimo. Solo volevo un’altra coca.»

«Adesso arrivo io con la tua coca.»

«Ma io la volevo da Mary

«Credo che Mary abbia trovato il suo principe azzurro, meglio lasciarla stare.»

«Chi è quel pallone gonfiato?» chiesi indicandolo con lo sguardo.

«Nulla più che un pallone gonfiato.»

«Detesto quel tipo di gente.»

«Io li ucciderei tutti, ma prima li farei soffrire.»

«Farli soffrire… come?»

«Beh, loro temono di non essere nessuno, temono il giudizio degli altri. Li farei sentire dei falliti.» «Ma sono dei falliti, e lo sanno pure. Solo cercano disperatamente di dimenticarlo.»

«Allora glielo ricorderei tutti i santi giorni!». Ridemmo. Il vecchio Frank non ragionava male per essere un ubriacone. Mi servì la coca e ammiccò prima di tornare al suo posto.

I due piccioncini erano ancora lì che parlavano con un’aria sempre più intima. Presi il cellulare e vidi alcuni nomi in rubrica. La quasi totalità era composta di numeri mai chiamati. “Alain”,

“Albert” , “Alessandra Vacca” . Come potrei chiamare una che fa “Vacca” di cognome? Passai alle foto. C’erano le foto più belle del mondo: quelle con Gaia. La nostalgia mi sfiorò e poi mi toccò. Ero lì lì per sprofondare nella palude dei ricordi del perduto amore, ma ecco che il pallone gonfiato finalmente scollò il culo dallo sgabello e io tornai alla realtà del presente. Tirò fuori il telefono e Mary fece lo stesso. Si stavano scambiando i numeri. Lei aggirò il bancone per salutarlo. Si abbracciarono e Mary gli diede un bacio sulla guancia piuttosto forte: riuscii a sentire lo smack. «MARY, AVREI BISOGNO DI UNA… BIRRA!»

Venendo verso il tavolo accennò un sorriso. Aveva uno sguardo che esprimeva furbizia e soddisfazione. Servendomi la birra, disse: «Prego, signore.»

«Molte grazie signora. Che voleva il pallone gonfiato?»

«Quello che vuoi anche tu. E che volete tutti.»

«Non tutti vogliono una birra dopo due coche.»

«Ah ah ah! Sei sempre stato simpatico. Peccato che sei anche uno stronzo.»

Stava per andarsene, ma le presi il polso e la trattenni. «Mary, quando finisci qui?»

«Ho ancora molto da fare.»

«Ti aspetto. Io non ho niente da fare.»

«Ma cosa vuoi da me?!»

«Quello che vogliono tutti.»

Sorrise e tornò a lavorare.

Mi ruppi pesantemente il cazzo fino alla mezzanotte. Poi Mary bisbigliò: «Mi cambio e vengo.» E io: «Ti aspetterei tutta la vita».

Per ingannare l’attesa ebbi la brillante idea di sbronzarmi e non ci volle molto considerando le tre Tennent’s all’attivo.

La portai a casa. «Cos’è successo a questa porta?» mi chiese.

«Sono venuti i pompieri.»

«C’è stato un incendio?»

«No.»

«E allora perché sono venuti?!»

La strinsi a me e la baciai. La sua lingua saettava dentro la mia bocca come un pesciolino fuori dall’acqua. La sollevai per le chiappe e la misi a sedere sul tavolo del salone. Tra una slinguazzata e l’altra ci togliemmo i vestiti e, con decisione, entrai dentro di lei. I suoi gemiti partirono subito motivandomi a dare il meglio di me. E mi stava piacendo, ma non riuscivo a venire in quella posizione, così la presi in braccio fino a buttarla sul divano come un sacco di farina. «Adesso ti scopo per bene, come una puttana» «Sììì!». Spingevo, spingevo e spingevo e ogni colpo sembrava più forte e sembrava che a lei piacesse così. Le venni dentro.

Fu una gran scopata, ma avevo fatto praticamente tutto io. Ero sbronzo, triste, insofferente e volevo sfogarmi con qualcuno o qualcosa, e trovai Mary. Con qualunque altra non sarebbe cambiato molto.

«Vuoi dormire qui?» le chiesi.

«Cooosa?»

«Hai capito bene.»

«Me lo chiedi perché ti sei ingelosito al bar, vero?»

«Sì.»

«Voi maschi, siete tutti uguali.»

Mentivo, ma non avevo voglia di parlare e mi parve giusto concedere soddisfazione al suo ego da provinciale.

L’indomani Mary andò a lavoro e io continuai a dormire fino a svegliarmi definitivamente a mezzogiorno. Trovai diverse chiamate e oltre alle solite (mamma, Hank, Francesca) c’era il numero di Gaia. Fui felicissimo e il primo impulso fu di telefonarle, senza esitazioni. Finalmente la smetto con questa vita sconclusionata, pensai, approdo alla mia rassicurante vita di coppia. Basta rimorchiare cameriere, basta sbronze, basta colloqui per lavori assurdi, e basta sedicenni inaffidabili. La mia fidanzata, il mio porto sicuro, finalmente. Ma poi iniziai a pensare anche alle discussioni senza senso, alle scenate di gelosia, alle passeggiate al guinzaglio, ai «dove sei?» e i «con chi sei?», alle uscite a quattro e a sei con gli zombie reduci da anni di serena vita di coppia… Non è tutto coppe di champagne e caviale. Se lo fosse sarei ancora con Gaia.

La strada era piena di annunci di lavoro:

«Il lavoro che fa per te: chiamaci!»

«Vuoi lavorare divertendoti? Chiama!»

«Sei simpatico/a e perspicace? Entra nel nostro staff!»

Ogni tanto mi fermavo per appuntare qualche numero. Mi accorsi che stavo andando all’università. Era da giugno che non la bazzicavo. Mi mancavano otto esami per la laurea in legge. Mi mantenevo agli studi grazie ai guadagni di ogni estate organizzando feste in discoteca. I soldi non bastavano più, così decisi di cercare un lavoro per l’inverno. Questi lavoretti non mi potranno dare un futuro, pensai, ma almeno un presente. E di questi tempi mi bastava.

La mia università era un palazzo anonimo di sette piani. Nelle aulette con gli studenti attivi politicamente quasi tutti fumavano, ed era vietato fumare. Molti di loro parlavano ad alta voce disturbando i veri studenti; anche questo era vietato. I ragazzi attivi politicamente erano raccomandati. L’università di legge era fuorilegge.

Io andavo innanzitutto per rendermi conto degli appelli e ogni volta che vedevo le date ero sempre indietro coi tempi, anche per questo vivevo l’università con addosso una nausea costante. Mi piaceva stare nel seminario giuridico (la “sala studio”), questo perché trovavo persone che come me amavano parlare più che studiare. Si parlava di politica, di donne, di calcio e si evitavano chirurgicamente le materie giuridiche.

In sette anni di università nessun grande amico, a parte Giovanni. Amava Bukowski, per questo iniziai a chiamarlo Hank, e molti dei suoi amici mi seguirono. Lui aveva quasi finito con gli studi, gli mancava un esame più la tesi. Lo vidi, era lì che studiava o fingeva di farlo; anche lui mi vide e mi raggiunse. «Dottor Serranova, che piacere vederla dopo così tanto tempo! Come sta?»

Era molto gentile, a un passo dal paraculismo. Un’anima nobile.

«Ciao Hank! Sto bene, vorrei solo diventare ricco.»

«Ah ah ah! E cosa te lo impedisce? Rapina una banca!»

«Sono pigro, molto pigro… Che si dice qui?»

«Tutto uguale, si studia, si cazzeggia, il solito. E tu? Passate bene le vacanze?»

«Sì, ho lavorato, e mi sono divertito.»

«Gaia?»

«Ci siamo lasciati.»

«Non ci posso credere. Perché?»

«Non riuscivo più a fare il fidanzato.»

«Ma non eri innamorato di lei?»

«Forse la amo ancora, ma amo anche molte altre cose, che erano inconciliabili con lei. Dovevo fare una scelta.»

Lo invitai per la serata a casa mia, e accettò senza esitazioni, precisando che sarebbe venuto con la sua ragazza, che non avevo mai avuto il piacere di conoscere. Era una storia fresca.

Sulla via del ritorno a casa pensai alla libertà e all’amore. Era ingiusto dover scegliere una delle due cose. Perché in questa società si è costretti a scegliere tra due beni così importanti, non sarebbe meglio tenersi la propria donna e la propria libertà? Non sarebbe bello che lei accettasse, anzi, addirittura pretendesse la libertà dell’uomo? Parlo di libertà sessuale, libertà sentimentale, libertà di ascoltare i propri istinti, libertà di essere se stessi fino in fondo. Perché le ragazze cercano di trasformare il partner in un pupazzo, e il più delle volte ci riescono?

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Nicola Loiacono
Quarantenne di Bari, proveniente da studi classici, ho provato a fare il commerciale per un'azienda di spedizioni con esiti deludenti: mi dimetto un anno dopo. Poi scrivo un romanzo, il mio primo romanzo – a ventisette anni – e lo tengo in cantiere per lungo tempo. Nel frattempo provo diversi lavoretti, che hanno vita breve.
A trenta anni mi affaccio al mondo della comunicazione e della formazione: mi iscrivo a una scuola accreditata presso il Miur, 130 ore di formazione mai finita (nel senso che continuo a formarmi) mi concedono una certificazione come mental coach; quando mi chiedono cosa faccio, amo dire: aiuto le persone a sviluppare il loro potenziale. Tracciamo insieme una linea per arrivare esattamente al punto dove si vuole arrivare, a volte anche oltre; mai prima.
Ad oggi scrivo, leggo, viaggio e amo molto, quello che ho sempre sognato di fare.
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