Ogni mattina, la campana del campanile rintoccava, scandendo il tempo e separando il giorno dalla notte, l’inizio dalle ore di lavoro e il loro lento tramonto. Era un suono familiare, tutti a Bellavalle lo conoscevano e quasi si confondeva con il battito del cuore del paese. Un battito che, apparentemente, non conosceva mai una pausa. Ma per Ludovico il tempo sembrava non scorrere affatto o forse scorreva troppo in fretta.
Era un giovane di vent’anni, alto e snello, con i capelli castani disordinati e occhi di un verde profondo che sembravano scrutare sempre oltre l’orizzonte, si sentiva come un estraneo nel suo stesso mondo. Aveva vent’anni e sentiva il peso del paese sulle spalle. Sebbene fosse cresciuto amando quelle colline e le storie di antichi misteri che il nonno gli raccontava da bambino, col tempo aveva cominciato a percepire la vita a Bellavalle come una prigione dorata, troppo stretta per contenere i suoi sogni di avventura.
Gli sembrava quasi di riuscire a percepire le mura invisibili che lo circondavano, quelle stesse mura che per gli altri abitanti di Bellavalle rappresentavano sicurezza e continuità. Ludovico, invece, le vedeva come barriere, ostacoli che gli impedivano di scoprire cosa ci fosse oltre.
Le case di Bellavalle erano costruite in pietra grezza con tetti di tegole rosse che brillavano sotto il sole e balconi fioriti che sfoggiavano gerani dai colori vivaci, come se ogni angolo fosse stato pensato per mantenere l’apparenza di un passato che non voleva essere dimenticato. Le strade, strette e lastricate di ciottoli, si intrecciavano come vene intorno alla piazza principale dove l’antico orologio del campanile, puntuale nel suo ritardo, segnava il passare delle ore con un’inevitabile lentezza.
Il fiume, poco lontano, scorreva placido tra i prati e le colline, come un antico testimone delle storie passate. Un filo di racconti che si intrecciava con il battito lento di quella vita. Chi nasceva a Bellavalle, spesso rimaneva lì; si diceva che il paese avesse un’anima che accoglieva i suoi abitanti e li tratteneva tra le sue braccia; come una madre gelosa che non voleva mai lasciarli andare. C’era chi trovava conforto nella routine, chi si sentiva a casa nei gesti quotidiani, e chi, come Ludovico, cominciava a sentire il peso di una vita già scritta.”
“ Le serate d’inverno a Bellavalle erano un rituale fatto di storie che si intrecciavano al crepuscolo, quando il vento freddo accarezzava le pietre e il buio avvolgeva tutto come un manto silenzioso. La gente del paese, riunita nelle case con il camino acceso, si passava di padri in figli racconti che parlavano di battaglie lontane, di spiriti che vagavano nei boschi e di draghi protagonisti delle leggende più antiche. Ma tra tutte quelle storie, ce n’era una che si distingueva, che sembrava avvolgere il paese come un velo di mistero: la leggenda del Giardino dei Destini Sospesi.
La prima volta che Ludovico sentì parlare di questo luogo magico, era una sera d’inverno, quando il fuoco scoppiettava nel camino e il vento soffiava forte fuori, facendo tremare i vetri delle finestre. Aveva appena otto anni e sedeva accanto al nonno, avvolto in una coperta mentre il crepitio del fuoco accompagnava le parole del vecchio. Il nonno, un uomo di poche parole ma di infinita saggezza, iniziò a raccontare senza preavviso, come se quella storia fosse una parte di lui, radicata nei suoi ricordi più lontani.
«Esiste un luogo, Ludovico, nascosto tra le radici della nostra valle. Un luogo che non si trova su nessuna mappa, che non può essere cercato ma solo trovato. Lo chiamano il Giardino dei Destini Sospesi.»
Ludovico si strinse nella coperta, il cuore che batteva più forte. Sentiva il calore del fuoco, ma era il freddo mistero di quelle parole che lo faceva tremare.
«Chiunque entri in quel giardino, vede le vite che avrebbe potuto vivere. Ogni strada che non ha percorso, ogni possibilità che ha lasciato dietro di sé, ogni scelta non fatta. Le persone dicono che il giardino sussurra, che mostra i volti di chi saremmo potuti essere. Ogni abitante può visitare il giardino una volta sola, ma è sufficiente per trasformare profondamente chiunque vi entri.»
Ludovico, con gli occhi spalancati, chiese ansioso: «E chi ci è entrato, nonno?»
Il nonno si fermò, guardando il fuoco con uno sguardo lontano, quasi come se stesse guardando oltre la memoria.
«Pochi, e quei pochi non sono mai tornati gli stessi.»
Un brivido percorse la schiena di Ludovico. «E tu, nonno? Ci sei mai stato?»
Il vecchio sorrise appena, un sorriso che portava con sé il peso di anni e di esperienze vissute.
«Si. E ciò che ho visto mi ha cambiato per sempre.»
Da quella sera, Ludovico non riuscì più a liberarsi dalla visione del Giardino. Ogni notte, prima di addormentarsi, si chiedeva se quella leggenda fosse solo una favola o se esistesse davvero. E se fosse reale, dove si trovava? Cosa avrebbe visto se ci fosse entrato?.
Gli anni passarono ma l’idea che esistesse un luogo capace di rivelare tutte le sue vite possibili lo ossessionava. La routine di Bellavalle, per quanto confortante, non gli dava più pace. La curiosità che cresceva in lui era come un seme che sbocciava e lo invitava a cercare qualcosa oltre i confini del suo mondo.
Isabella avrebbe riso di lui, ne era certo. Eppure, una parte di lui voleva crederci. Se c’era una possibilità che il Giardino esistesse, valeva la pena cercarlo.
Ma non lo fece subito. Per settimane osservò il paese con occhi nuovi, come se avesse paura di perdere ogni singolo pezzo di quella realtà: le botteghe, la piazza, il circolo degli anziani, le case dai tetti rossi, ora ogni dettaglio gli sembrava più vivido.
Una sera Ludovico restò sveglio, tormentato dai suoi pensieri, e mentre il campanile scandiva la mezzanotte, per la prima volta, l’idea di andarsene non fu solo un sogno ma divenne un pensiero reale.
Quella notte senza dire nulla a nessuno e senza esitare, preparò uno zaino e mise dentro una borraccia, un pezzo di pane e la bussola del nonno. Poi, con il cuore che batteva forte, uscì di casa, camminando silenziosamente sulla fredda pavimentazione di legno lasciando che i suoi passi si perdessero nel buio. L’idea di partire lo spaventava, ma l’idea di rimanere lo terrorizzava di più.
Passò davanti alla casa di Isabella, si fermò un momento davanti alla finestra, ma non bussò. «Questa», pensò, «è una strada che devo percorrere da solo».
La notte era fredda e senza luna, i sentieri del bosco si perdevano nell’oscurità, rischiarati appena dalla fioca lanterna che Ludovico si era portato dietro. Il suo respiro era l’unico suono a rompere la quiete del bosco, oltre al vento che frusciava tra i rami degli alberi secolari creando sussurri che parevano parole incompiute. Ogni tanto, un gufo lanciava il suo richiamo solitario.
Da bambino, Ludovico si era perso in quel bosco. Era successo anni prima, in un pomeriggio d’autunno quando aveva seguito un coniglio oltre la radura e si era spinto troppo in là.
Ricordava il terrore che lo aveva paralizzato quando si era accorto di non sapere più la strada per tornare indietro. Le ombre degli alberi sembravano grandi e minacciose, e ogni suono gli era sembrato un pericolo in agguato.
Aveva corso a caso, chiamando aiuto, finché il nonno non lo aveva trovato e riportato a casa.
Quella notte, rimboccandogli le coperte, il nonno gli aveva detto: «Non è il bosco a farti paura, Ludovico. È il non sapere dove andare.»
Adesso, mentre camminava su quel sentiero, sentiva la stessa inquietudine ma questa volta non si sarebbe fermato a chiedere aiuto per essere riportato a casa. Questa volta avrebbe continuato senza esitazione, come i protagonisti dei libri di avventura che piacevano tanto ad Isabella. Sarebbe stato un coraggioso esploratore; e se il suo viaggio non avesse portato a nulla, a nessun giardino e a nessuna scoperta, avrebbe comunque avuto un’esperienza da raccontarle.
Il terreno si faceva via via più accidentato, le rocce scivolose per l’umidità. L’aria era satura di profumi umidi, di muschio e resina: il dolce odore della terra bagnata. A ogni passo, la luce della sua lanterna tremava, proiettando ombre lunghe sugli alberi. Il sentiero si restringeva, inghiottito da una vegetazione sempre più fitta. Era come se il bosco stesso lo volesse trattenere, mettere alla prova la sua determinazione, gli sembrava di avvertire un’eco lontana di parole incomprensibili, fruscii di qualcosa che non apparteneva al mondo reale.
Ma continuò a camminare.
La leggenda diceva che il Giardino non si potesse cercare ma solo trovare e quella notte, ogni ostacolo che incontrava, sperava lo avrebbe condotto più vicino a un luogo nascosto.
Dopo ore di cammino i suoi muscoli protestavano, le palpebre pesavano ma l’adrenalina non gli permetteva di pensare alla stanchezza. Il suono di un ruscello lo fece rallentare, il gorgoglio dell’acqua che scivolava tra i sassi aveva un che di familiare e rassicurante. Vi si avvicinò, s’inginocchiò e bevve con avidità da un punto in cui l’acqua sembrava pulita e fresca. Inginocchiatosi alzò lo sguardo e fu allora che lo vide: un antico arco di pietra, era più antico di qualsiasi cosa avesse mai visto, semisepolto tra muschi e radici che sembravano volerlo divorare. Emanava un’aura di mistero: le pietre, levigate dagli anni, mostravano simboli incomprensibili. Ludovico trattenne il fiato, sentì un richiamo nel petto, come se il suo cuore fosse una bussola che puntava proprio lì.
Con le mani chiuse a pungo si stropicciò gli occhi per essere certo che non fosse la stanchezza o la speranza a giocare brutti scherzi, ma l’arco era davvero lì, era reale. Con un misto di timore e speranza, fece un passo avanti poi esitò. Sarebbe potuto tornare indietro al calore sicuro del suo letto, alla routine di Bellavalle, al suono familiare della campana del paese. Ogni battito del cuore rimbombava nelle orecchie, ogni respiro sapeva di attesa. Passare sotto quell’arco significava forse oltrepassare il confine fra il noto e l’ignoto, fra la vita che aveva vissuto e tutte le vite che avrebbe potuto vivere. Eppure, chiuse gli occhi un secondo, inspirò a fondo e poi un coraggio nuovo lo spinse avanti.
Oltrepassato l’arco, sentì un vento caldo accarezzargli il viso, diverso dal freddo pungente della notte. Al di là dell’arco trovò un bagliore diffuso ad accoglierlo, come un’alba perenne che illuminava un giardino senza confini visibili. Gli alberi non erano più quelli del bosco ma avevano tronchi imponenti coperti di cortecce dai riflessi metallici e foglie che parevano intessute d’oro e argento. Fiori luminescenti punteggiavano il sottobosco e un sentiero di pietre lisce si perdeva in lontananza. Era un mosaico vivente di colori, forme e suoni che mutavano ad ogni passo.
Il Giardino dei Destini Sospesi non era solo un luogo fisico ma il riflesso dell’anima di chi lo attraversava. Ogni fiore, ogni albero e ogni pietra sembrava pulsare di vita propria, raccontando storie senza tempo. I colori vibranti dei fiori, dal rosso ardente delle rose al blu intenso dei fiordalisi, creavano un arazzo vivente che mutava con il passare del sole. I profumi avvolgevano Ludovico come un abbraccio materno, mescolando l’essenza di lavanda, gelsomino e muschio in un’armonia perfetta.
Le statue di marmo sparse nel giardino rappresentavano figure mitologiche, eroi e divinità, che sembravano osservare Ludovico con occhi saggi.
Ludovico avanzò, incantato. Tutto era vivo, tutto era reale o almeno lo sembrava. L’aria stessa sembrava respirare avvolgendo i suoi pensieri in un silenzio ovattato. Fu allora che percepì una voce, o forse un sussurro nella mente, impossibile dire se fosse reale o frutto della suggestione.
«Non fermarti troppo a lungo e non credere a tutto ciò che vedrai.»
Sussultò, guardandosi attorno ma non c’era nessuno, solo il fruscio delle piante. La sua coscienza gli stava parlando? O era l’anima del giardino che voleva metterlo in guardia? Poi, un altro mormorio:
«Ogni scelta ha un prezzo e ogni passo che fai qui dentro è un passo dentro di te. Non esiste inganno più grande di quello che la tua anima vuole mostrarti.»
Un brivido gli percorse la schiena e nel cuore di Ludovico nacque un misto di soggezione e meraviglia. Il giardino sembrava essere vivo e se quello era davvero il Giardino dei Destini Sospesi, stava per andare incontro a qualcosa che avrebbe cambiato la sua vita.
Avanzò ancora di qualche passo… “
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