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Il Sigillo del Re Perduto – Le Frequenze nel Vuoto

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«Se non torniamo… non ascoltate il silenzio. Riempitelo con le frequenze che sanno di vita.»

Aren Vareth è un membro della Gilda dei Cacciatori di Ombre. Nato per ascoltare ciò che il mondo preferirebbe ignorare.
Ma quando trova un anello che pulsa come un cuore e tace come una tomba, il suo destino si intreccia con una minaccia che non chiede permesso per entrare: il Vuoto.
Intorno a lui, chi ama rischia di spezzarsi. Chi ascolta troppo… rischia di perdere sé stesso.
In un mondo dove la magia è Frequenza e la memoria è Risonanza, il vero pericolo non è perdere la guerra.
È dimenticare chi sei.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questo libro come atto di ascolto: di me stesso, del dolore, del Vuoto che avevo dentro.
Scriverlo è stato il mio modo per dire “anche io esisto”.
È un libro per chi sa cosa vuol dire resistere con la propria voce.
Se ti arriverà anche solo un frammento di tutto questo, se in qualche pagina ti riconoscerai,
se leggerai una frase e sentirai qualcosa muoversi dentro allora ti ringrazio.
Perché hai ascoltato.
E a volte, ascoltare è già una forma di salvezza.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

IL SIGILLO DEL RE PERDUTO

LIBRO I

LE FREQUENZE NEL VUOTO

A me,

Che ho camminato a lungo tra macerie silenziose, cercando una Frequenza che mi ricordasse chi ero, per non lasciare che il Vuoto mi facesse dimenticare chi fossi.

A mia figlia Emma,

Perché sappia che anche nel silenzio più assordante, ci sarà sempre una voce che può indicarle la via.

CARO LETTORE

Non sono uno scrittore. Non mi sono mai sentito tale. E mai avrei pensato di trovarmi qui a scrivere queste righe.

Per tanto tempo ho creduto che scrivere fosse una cosa da “altri”. Da

chi sapeva usare bene le parole.

Da chi era nato con un talento chiaro, evidente, riconoscibile. Io no.

Io avevo solo una cosa: un mondo dentro che non riusciva più a stare zitto.

Che premeva nel petto così forte da lasciarmi quasi senza respiro. Dovevo farlo uscire.

Ho iniziato questo libro senza sapere dove mi avrebbe portato. Non avevo un piano.

Non avevo regole.

Avevo solo una domanda:

“Come posso combattere il vuoto che sento dentro di me?”

Da lì è nato Il Sigillo del Re Perduto.

Non come esercizio di stile, ma come atto di ascolto.    Di me stesso.

Del dolore. Della perdita.

Delle voci che non hanno mai avuto spazio per parlare.

Dei battiti che ci tengono in piedi anche quando vorremmo crollare.    So che questo libro non è per tutti.

Non ha draghi. Non ha incantesimi spettacolari.

Ha voci spezzate, battiti interrotti, scelte che fanno male.      Ha un dolore reale, che è stato preso e riscritto per diventare

Frequenza, per diventare qualcosa che restasse, che mi facesse dire “anche io esisto!”

Se ti arriverà anche solo un frammento di tutto questo, se in qualche pagina ti riconoscerai, se hai letto una frase e hai sentito qualcosa muoversi dentro…

Allora ti ringrazio.              Perché hai ascoltato.

E a volte, ascoltare è già una forma di salvezza.

Non sei solo e dopo aver letto questo libro spero tu lo abbia capito.

— Gian Marco

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PROLOGO – IL GIORNO DELLA

FRATTURA

SCENA I – Il Silenzio del Trono

La pioggia cadeva da tre giorni.

Non una pioggia qualsiasi.

Era il tipo di pioggia che lava via la vernice del tempo, che scava le

statue, che spinge i vivi a dimenticare e i morti a salire.

La pioggia che cade su un regno in attesa della fine.

Eldoria non taceva.

Sanguinava.

Sanguinava nei suoi archi spezzati, nei palazzi vuoti, nelle strade ormai

incapaci di portare altro che ricordi.

Ogni pietra sembrava gocciolare memorie e sangue.

L’acqua scorreva dai cornicioni come vene tagliate troppo in alto per

essere curate.

Nel cuore del palazzo reale, la Sala dell’Alleanza respirava un silenzio

che non era pace.

Era giudizio.

Un tempo, lì dentro si stringevano mani, si proclamavano regni, si

innalzavano canti.

Ora il vento fischiava tra colonne spezzate come tra i denti di un

teschio.

Il trono stava al centro.

Non su un piedistallo.

Ma su un altare di onice screziata e ossa di drago.

Intagliato mille anni prima, si diceva che fosse vivo: che ogni re

lasciasse un soffio della propria anima nella pietra.

Quel giorno, però, pareva… inchinato.

Curvo, stanco.

Come se anche lui avesse deciso di arrendersi.

Eldarion era lì.

Non seduto.

Affondato.

Il suo mantello, un tempo vessillo di guerra e bellezza, ora gli

gravava addosso come un sudario.

Il velluto blu imperiale era intriso d’acqua e memoria.

La sua armatura cerimoniale era incrinata proprio sopra il cuore, nel

punto dove una lama nemica aveva cercato la sua vita nell’Assedio dei

Tre Soli.

La ferita, lì sotto, non era mai guarita.

Una fitta, sottile ma eterna, gli ricordava ogni giorno perché

governava. E quanto male costasse.

Ai suoi piedi giaceva la corona.

Non posata.

Caduta.

Come un’ultima rassegnazione.

Lo Zaffiro di Ylarion, incastonato tra i bracci d’oro, non brillava più.

Non rifletteva luce.

Non evocava futuro.

Eldarion l’aveva guardata a lungo.

Fino a capire che non era più un simbolo.

Era una domanda.

Chi sei, quando non sei più Re?

Il suo sguardo era fisso sul pavimento.

Ma dentro, vagava.

Vide Althea.

Nel sogno.

Poco prima del risveglio.

Le sue mani, tiepide, stringevano le sue.

Lei lo guardava negli occhi.

“Perché tremano le tue mani?”

“È il freddo.”

“No. È la paura di decidere. Non mentire alle tue mani, Eldarion.

Loro sanno.”

Un rumore. Debole. In fondo alla sala.

Il re non si mosse.

Ma le torce lungo le pareti si piegarono, tutte insieme, verso una

direzione.

Come se la fiamma stessa sapesse chi stava arrivando.

Kael’Thar.

Il Consigliere dell’Ombra. L’amico. Il traditore.

O forse, solo l’uomo che aveva smesso di sperare prima di tutti.

Entrò senza rumore.

La sua tunica nera bordata d’argento pareva respingere l’acqua,

come se il tempo non osasse toccarlo.

Il suo mantello era perfettamente asciutto.

E i suoi occhi… troppo chiari per essere umani.

“Mio re” disse, inchinandosi leggermente.

“È giunto il momento.”

Eldarion non rispose.

Solo dopo un lungo istante sollevò lo sguardo.

Il suo volto era una rovina sacra:

nobile, ma crepato, degno, ma disfatto.

“Stanotte ho sognato Althea.”

Kael’Thar non si sorprese.

“E cosa ti ha detto?”

“Che le mie mani tremano.”

“E tu?”

“Le ho detto che era il freddo.”

“E lei?”

“Mi ha detto di non mentire alle mie mani.”

Il consigliere fece un passo avanti.

Poi un altro.

I suoi piedi non toccavano il pavimento: lo accarezzavano.

“Hai promesso che avremmo salvato Eldoria,” disse il re.

“E lo faremo.”

“Non con le armi, non con la legge, ma con ciò che ascolta anche

quando la luce tace.”

Un silenzio lungo.

Un battito profondo.

“Il Vuoto.”

Kael’Thar annuì.

“Non è distruzione, mio re, è respiro dopo il respiro.

Non chiede, non giudica.

Accoglie.”

Eldarion serrò la mascella.

“E cosa chiederà in cambio?”

“Nulla che tu non sia già disposto a perdere.”

Un tuono.

Lontano.

Ma profondo come un battito di cuore.

Le colonne gemettero.

I rilievi lungo gli archi sembrarono cambiare.

Per un istante, Eldarion vide un volto… scolpito nella pietra.

Poi svanì.

“Ricordi cosa mi dicesti quella notte, davanti al lago nero?”

“Che un consigliere che non sa farsi scudo per il suo re…

è peggio di un traditore.”

Kael’Thar chinò la testa.

“Ed è per questo che ora ti proteggo… dalla speranza.”

Eldarion chiuse gli occhi.

Li riaprì.

E il mondo… sembrava meno reale.

Era tempo.

Il re si alzò.

Alto.

Ma curvo come chi porta una pietra sulla schiena che ha il nome del

mondo inciso.

Si voltò verso il trono.

Poi verso Kael’Thar.

Poi verso la corona.

“Dove una volta sedeva il cuore…

ora pulsa solo l’eco.”

Si voltò e camminò.

Nel cuore della Sala, le sei colonne degli Obelischi Antichi

cominciarono a pulsare.

Una luce violetta iniziò a filtrare dalle loro basi.

Come se il sangue di un altro tempo stesse tornando a fluire.

Eldarion si fermò.

Fece un respiro e disse “Porta il Sigillo.”

Kael’Thar lo fece.

Era piccolo.

Freddo.

Vivo.

Le rune sulla sua superficie non brillavano.

Sussurravano.

Eldarion tese la mano.

Lo prese.

Lo osservò.

“Se questo è il prezzo per spezzare la morsa di ciò che divora le anime

dall’interno…allora pagherò con la mia anima.”

“E col tuo nome,” aggiunse Kael’Thar.

“Perché nessuno ti ricorderà come eroe.

Solo come… ciò che accadde prima del buio.”

Eldarion sorrise.

Ma era un sorriso rotto.

“Allora che la Frattura abbia inizio.”

E infilò l’anello.

La pietra tremò.

Lo Zaffiro di Ylarion, ai suoi piedi,

emise un ultimo, debole sussurro di luce,

come se stesse cercando, un’ultima volta, il nome del suo re.

SCENA II – Le Mani del Tradimento

Il Corridoio delle Stelle si stendeva sotto il palazzo come una vena

dimenticata del mondo.

Non era solo pietra. Era memoria solidificata.

Ogni colonna, ogni arco, ogni crepa… raccontava qualcosa che nessun

bardo aveva mai osato cantare.

Là sotto, ogni passo pesava come un peccato non confessato.

Le pareti erano scolpite con rilievi profondi, ossidati dal tempo e dalle

preghiere dimenticate.

Su ogni pietra, un nome.

Re. Regine. Giuramenti.

Tutti lì. Tutti a guardare. Tutti a giudicare.

La luce era debole. Non veniva da torce.

Ma da fiaccole sospese nel vuoto, fluttuanti, tremolanti come se

respirassero.

Ogni tanto una si spegneva. E non tornava più.

Camminavano in quattro.

Althea era la prima.

La regina senza corona.

Il mantello pesante le ricadeva sulle spalle bagnate.

I lunghi capelli ramati si appiccicavano al collo, alle guance, alle

scapole.

Ma lei non li scostava.

Non ne aveva il tempo.

Non ne aveva il diritto.

Indossava solo l’armatura del busto, con le braccia e le gambe libere.

Una scelta.

Voleva sentire il freddo.

Voleva sentire tutto.

Dietro di lei camminavano i tre guardiani del Re.

Ultimi rimasti.

Ultimi ancora in grado di pronunciare il suo nome senza piangere.

Vaelor.

Il comandante.

Non portava elmo. Solo cicatrici.

Camminava con passo pesante, eppure ritmico.

Ogni passo era una dichiarazione.

Al fianco, la spada che aveva guidato nell’Assedio del Primo Cerchio.

In spalla, il simbolo dei Guardiani:

una stella spezzata in due, con il sangue che ne usciva inciso.

“Un re non è solo chi comanda.

È chi è disposto a morire per chi lo dimenticherà.”

Così diceva.

E Vaelor… era già morto.

Gli mancava solo il tempo.

Althamar.

Arcanomante Supremo.

Alto. Magro. Affilato.

Vestiva rune viventi che si accendevano e spegnevano ad ogni respiro.

I suoi occhi non guardavano il corridoio.

Lo leggevano.

Con una mano stringeva il bastone d’avorio nero,

con l’altra sfiorava le pareti.

Ogni tanto si fermava.

Sussurrava frasi che nessuno capiva.

Non aveva paura del Vuoto.

Solo della verità.

Sirell chiudeva la fila.

Gran Sacerdote della Luce Eterna.

Vecchio. Curvo.

Ma lo sguardo… intero.

Portava vesti bianche rovinate dalla pioggia e dai canti.

Al collo, un medaglione rotto.

Un sole spezzato.

Un simbolo che non chiedeva perdono.

Tra le mani, un piccolo libro legato in cuoio.

Ogni tanto lo apriva.

Non per leggere, ma per ricordare che le parole… esistevano ancora.

Non parlavano.

Solo camminavano.

E il Corridoio… ascoltava.

Il vento era immobile.

Ma l’aria… spingeva.

Era come se qualcosa li aspettasse.

Come se i nomi sulle pareti stessero trattenendo il respiro.

Le colonne, una ad una, mutavano.

Dove prima c’era il volto scolpito di re Malgareth, ora c’era un’ombra

indistinta.

Dove era incisa la Benedizione dei Tre Dei, ora vi era una fenditura

verticale, come una cicatrice sulla pelle del tempo.

Althea si fermò.

Appoggiò la mano su una colonna.

Le dita tremavano.

Ma non per debolezza.

Per rabbia.

“La Frattura… è già cominciata,” sussurrò.

Vaelor la raggiunse.

Guardò la colonna.

Toccò anche lui.

“Eppure… non tutto è perduto.”

“Non ancora,” mormorò Althamar,

con la voce di chi sa che sta mentendo.

Sirell chiuse gli occhi. Il suo respiro era un lamento sacro.

“Il Vuoto non entra, si insinua. Non urla, si insedia.”

“Come un ricordo di ciò che non è mai stato” aggiunse Althea.

Ripresero a camminare.

La Sala dell’Alleanza era ancora lontana, ma la sentivano, non nel

Suono, ma nella sua mancanza.

Era come se tutto… trattenesse il fiato.

Le ultime colonne erano più strette, più vicine, più buie.

Ogni passo cambiava qualcosa. Le fiaccole si abbassavano, la luce

diventava più liquida, i rilievi… si facevano concavi. Come se la pietra

stessa stesse implodendo.

E poi la videro.

La Porta. Alta dieci metri. Forgiata con argento sacro.

Incisa con i nomi di tutti coloro che avevano giurato protezione eterna

al regno. Ma ora…le rune erano nere. Non scolpite, non incise,vive.

Si muovevano.

Si contorcevano sotto la superficie come vene sotto pelle.

E… sussurravano.

Althamar si avvicinò. sfiorò la porta con due dita, i suoi occhi si

spalancarono. Si ritrasse. Cadde in ginocchio.

“Non è magia umana.

Né elfica.

Né degli Spiriti.

È… altro.”

Sirell avanzò. Aprì il libro. Tirò fuori una piccola ampolla. Conteneva

cera d’altare benedetta.

La versò sulla soglia, tracciò un cerchio e poi recitò:

“Siate occhi. Non lame.

Siate luce. Non giudizio.

Fateci… vedere.”

Nulla accadde.

Vaelor fece un passo avanti. Mano sull’elsa.

“Spezziamola.”

“Aspetta.”

Althea avanzò. Guardò le rune. Quelle tremarono. Poi…

rallentarono. Posò la mano nuda sul metallo.

Un respiro.

Un sussurro.

Le rune… la riconobbero.

Althea chiuse gli occhi e vide Eldarion, in piedi, solo, con il Sigillo

in mano e negli occhi… solo assenza.

Li riaprì. Non tremava. Non piangeva. Solo respirava più forte.

“È tardi” disse. “Ha già aperto la porta.”

Althamar abbassò il bastone. Il suo volto era pallido.

“Allora cosa speri di fermare?”

“La fine.” sussurrò Althea.

La porta si aprì. Non spalancata. Socchiusa.

Come se il mondo stesse… trattenendo l’ultima parola.

Oltre, la Sala. Ma non quella che conoscevano. Una sala spezzata.

Viva. In attesa.

Althea fece il primo passo.

Poi un altro. Poi… si voltò.

Guardò Vaelor, Althamar e Sirell.

“Se io non torno… non sarete in tre a combattere.

Perché chi porta la luce… la porta anche per chi è caduto.”

E passò oltre. Tra le rune. Tra le fiamme che non bruciavano.

Tra i giuramenti che… stavano per essere infranti.

SCENA III – La Frattura del Cielo

La Sala dell’Alleanza era vuota.

E viva.

Come un cuore che pulsa prima di un arresto.

L’aria tremava, non per il vento, perché non c’era più niente da

contenere.

Le vetrate, alte come sogni perduti, lasciavano entrare la pioggia.

Ma non cadeva come acqua.

Sembrava cenere.

Scendeva lenta, spettrale, e si adagiava sul pavimento come se stesse

aspettando di essere calpestata da qualcosa che non esisteva ancora.

L’odore era denso: incenso consumato, ferro, pelle sudata sotto

l’armatura.

E qualcosa che non aveva nome.

Al centro della sala, il cerchio rituale era già stato tracciato.

Sei obelischi neri come ossidiana, alti tre metri, lo circondavano.

Le loro superfici lisce vibravano, non per effetto del rituale…

ma come se volessero liberarsi da esso.

Ogni obelisco era inciso con una runa che sembrava bruciare

dall’interno, ma non dava luce.

Assorbiva.

Eldarion stava al centro.

Scalzo.

Vestito solo con una tunica bianca, senza fregi.

Un uomo, non un re.

Ma c’era più autorità nel suo silenzio che in mille incoronazioni.

Le mani tremavano, non per paura, perché stavano per fare qualcosa che

nessuna mano dovrebbe fare.

Davanti a lui, sospeso su un piedistallo di vetro fumé, c’era il Sigillo.

Un anello.

Piccolo.

Innocente.

Letale.

Non era fatto di metallo.

Era fatto di memoria liquida.

Le rune sulla sua superficie si muovevano come pensieri troppo antichi

per essere definiti.

Come segreti che non vogliono essere raccontati.

Kael’Thar camminava attorno al cerchio.

I suoi passi erano lenti, precisi, silenziosi.

Il mantello fluttuava dietro di lui, senza vento.

Le sue mani erano nude.

Sul palmo sinistro, una ferita sottile.

Da essa cadeva una goccia di sangue ad ogni giro.

Una.

Un’altra.

Un’altra ancora.

“Sei pronto, mio re?”

La voce era calma.

Ma non aveva suono.

Sembrava intenzione fatta parola.

Eldarion non rispose subito.

Guardava il Sigillo.

Poi alzò gli occhi su Kael’Thar.

“Althea non lo capirebbe.”

“Althea non vuole capire,” rispose il consigliere.

“Perché chi ama… dimentica il peso della verità.”

“Tu l’hai dimenticato?”

“Io l’ho raccolto.”

Il cerchio si attivò.

Una luce violacea e azzurra, contorta, cominciò a pulsare sotto i piedi

del re.

Kael’Thar sollevò le mani.

Le sue dita si curvarono come artigli.

Le rune scolpite sul pavimento si accesero una a una.

“Et venit… per nominem qui non es…”

“Et manet… in forma fracta…”

“Et regnum… fiat corvus…”

Non era una lingua.

Era una ferita che cantava.

Ogni parola lasciava un graffio nell’aria.

Eldarion chiuse gli occhi.

E vide.

[Ricordo – La stanza della pioggia]

Era notte.

Althea dormiva accanto a lui.

La pioggia tamburellava sui vetri.

Eldarion si era alzato.

Era in piedi, nudo, davanti al camino.

Non riusciva a dormire.

Althea si svegliò.

“Pensi a lui?”

“Penso a cosa gli lasceremo.”

“Un regno.”

“Un’ombra.”

“Finché avrà te… non sarà mai solo.”

“E se non avrò più me Althea ?”

Lei si alzò.

Gli mise tra le mani il bambino.

Era minuscolo.

Caldo.

“Sarà un re migliore di noi.”

“E se non ci sarà più un regno su cui regnare ?”

Eldarion riaprì gli occhi.

[Nel presente]

Nel cerchio.

Il Sigillo tremava.

Come se avesse sentito.

“Dì le parole,” sussurrò Kael’Thar.

“E se non le dicessi?”

“Allora resteresti l’ultimo a soffrire in un mondo che non merita più la

tua pena.”

Eldarion prese il Sigillo.

Lo sentì vivere.

Inspirò.

“Per Eldoria.

Per il sangue che non si lava.”

E lo infilò.

Silenzio totale.

Le fiamme nere degli obelischi si fermarono.

Ma non si spensero.

Cominciarono a bruciare verso il basso.

Entravano nella pietra.

Poi… il mondo si aprì.

Non con rumore.

Non con esplosione.

Con assenza.

Una fessura nel cielo, nella pietra, nel tempo.

Come se qualcosa di troppo antico per essere spiegato avesse

finalmente trovato un varco.

Kael’Thar cadde in ginocchio.

Le braccia aperte.

Il volto verso l’alto.

“È arrivato,” sussurrò.

“Ha accettato l’invito.”

Il Sigillo si stringeva.

Le vene di Eldarion si annerivano fino al gomito.

Le rune scivolavano sulla pelle, si incidevano come serpenti fatti di

vuoto.

Il suo volto era in preda al silenzio.

Non urlava.

Ma il suo respiro… era spezzato.

Poi urlò.

Ma non fu la sua voce.

Fu quella del mondo dentro di lui.

La fenditura si dilatò.

Il cielo si rovesciò.

Il pavimento si curvò verso l’alto.

Le vetrate non si frantumarono.

Si dissolsero.

E al centro del cerchio…

una presenza.

Non aveva forma.

Non aveva suono.

Ma c’era.

Era il Vuoto.

Non era creatura.

Non era mostro.

Era la risposta che arriva quando nessuno osa più fare domande.

Era il silenzio che segue ogni preghiera inascoltata.

Era ciò che resta quando tutto ciò che sei… non serve più a nessuno.

Eldarion barcollò.

“Althea…”

“Althea, mi dispiace…”

“Io volevo salvarti.”

“Volevo… salvare qualcosa.”

Kael’Thar lo sostenne.

Lo guardò.

Sorrise.

Non con gioia. Con pace.

“Hai salvato tutto. Hai salvato ciò che non era più degno.

Il Vuoto non cancella. Il Vuoto… purifica.”

Il Sigillo pulsava.

Una luce nera esplose verso il basso.

Il cielo si ruppe.

SCENA IV – Il Sacrificio

Il tempo stava cedendo.

Ma non nel modo in cui si frantuma un vaso o si spezza un ramo.

No.

Il tempo stava… implodendo.

Come se il mondo stesso avesse deciso di ritirarsi da sé.

La Sala dell’Alleanza non era più un luogo.

Era una ferita aperta nel corpo del reame.

Un buco nella pelle del tempo.

Le colonne non sorreggevano più nulla.

Tremavano.

Sussurravano.

Gemevano.

Come se volessero fuggire.

Nel cerchio di fuoco rovesciato, sei obelischi, sei fiamme nere, sei rune

vive, Eldarion era in ginocchio.

Il Sigillo al dito.

Le vene annerite fino alla spalla.

Il respiro spezzato.

La pelle… sembrava cedere sotto il peso di qualcosa che non

apparteneva più a questo mondo.

I suoi occhi erano aperti.

Ma non vedevano.

Erano pozzi.

Kael’Thar stava dietro di lui.

In piedi.

Le braccia giunte come in preghiera.

“È pronto,” disse.

“È stato fatto.”

E lo disse più a sé stesso che al Vuoto.

La porta della Sala esplose.

Una lancia di luce azzurra colpì il bordo del cerchio.

Il pavimento tremò.

Una crepa si aprì… ma non nel marmo.

Nel silenzio.

Althamar avanzò per primo, il bastone ancora fumante.

Dietro di lui, Vaelor, già con la spada sguainata.

E poi… lei.

Althea.

Non correva.

Camminava.

Ma il suo passo… rompeva il rituale.

Ogni sua falcata spegneva un sussurro, accendeva una fiamma.

Ogni suo respiro ricordava alla Sala cosa significasse amare.

“Eldarion!”

La voce di Althea non era un grido.

Era un richiamo.

Come il nome inciso sulla tomba.

Come la carezza che viene data a chi sta morendo.

“Eldarion, guardami! Sono io!”

Lui alzò la testa.

Ma i suoi occhi… non erano più suoi.

Erano pieni di qualcun altro.

Qualcos’altro.

“Althea…” mormorò.

“Non avresti dovuto venire…”

Kael’Thar parlò.

“La regina, sempre pronta ad agire per amore.

Peccato che l’amore…sia ciò che ci ha condotti qui.”

“No,” rispose lei.

“Ci ha portati qui il tradimento.

L’amore… è l’unica cosa che ancora resiste.”

Vaelor avanzò.

“Lo portiamo via. Ora.”

Fece un passo nel cerchio.

La sua armatura tremò.

Il suolo lo respinse con forza.

Fu lanciato all’indietro come da una mano invisibile.

Atterrò.

Si rialzò.

Non protestò.

Solo stringeva la spada più forte.

Sirell si inginocchiò.

Aprì il libro.

Parlò.

“Il Vuoto è entrato.

Ma non è completo.

C’è spazio.

C’è ancora luce che non vuole cedere.”

Althamar alzò il bastone.

Lo puntò verso Eldarion.

Recitò.

“Nomen Lux… Vinclum Anima… In veritate, revehere!”

Ma la magia si spezzò.

Come vetro al fuoco.

Eldarion stava tremando.

“Non riesco…

Althea… io non…”

Lei avanzò.

Piano.

Decisa.

Ogni suo passo era un atto di fede.

Un’offerta.

Le fiamme nere si ritrassero.

Solo un istante.

Ma fu abbastanza.

“Guardami,” disse.

“Non sono venuta per salvarmi.

Sono venuta per ricordarti chi sei.”

Kael’Thar alzò la mano.

“Se entra… muore.”

E guardò Eldarion.

“E tu resterai solo. Come me.”

Eldarion guardò Althea.

E per un istante… nei suoi occhi tornò la luce.

“Lei… è la parte di me che non si spegne.”

Althea attraversò il cerchio.

Il fuoco le lambì il corpo.

Ma non la bruciò.

La riconobbe.

Arrivò davanti a lui.

Lo prese per il volto.

Lo guardò.

E sorrise.

“Ti ho perso Althea.

E ora ti sto perdendo di nuovo.”

“No,” sussurrò.

“Adesso mi scegli.

E io ti salvo.

Come tu hai salvato me…

quando il mio nome tremava tra le labbra dei consiglieri.

Quando il trono era più pesante del mio amore.

Quando non avevo una voce…

e tu mi hai donato la tua.”

Il cerchio cominciò a tremare.

Gli obelischi urlavano.

Le fiamme nere si avvolgevano su sé stesse.

Il Vuoto stava arrivando.

Non con forma.

Non con corpo.

Ma con intenzione.

Una massa invisibile, sentita solo da chi aveva perso qualcosa.

Un’entità fatta di dolore dimenticato.

Di promesse rotte.

Di possibilità mai nate.

“Tu…” mormorò Althea.

“…sei ciò che resta.”

“E io…

sono ciò che si dona.”

Posò le mani sul petto di Eldarion.

Chiuse gli occhi.

Cantò.

“Che la luce viva in chi amo.

Che la tenebra prenda me.

Che la morte sia dolce…

se salva te.”

Il Vuoto si fermò.

Esitò.

Il mondo sospese il respiro.

Poi urlò.

Le colonne si spezzarono.

Le vetrate esplosero.

Il suolo si fratturò.

Il cielo si capovolse.

Althea fu consumata.

Non dissolta.

Non bruciata.

Offerta.

Il Sigillo… cambiò.

Non era più chiave.

Era confine.

Eldarion si alzò.

Lo sguardo vuoto di tutto, tranne che di una cosa:

assenza.

“Perdonami,” disse.

Ma non c’era nessuno.

Solo il Vuoto.

E quello…

non perdona.

Non consola.

Aspetta.

SCENA V – La Fuga

Il mondo non stava crollando.

Si stava piegando.

Come un’armatura troppo sottile sotto il peso di una spada divina.

Le pareti tremavano.

Le colonne gemevano.

L’aria stessa sembrava tirata via da una mano invisibile.

Sotto la Sala dell’Alleanza, le cripte di Eldoria si stavano deformando.

Un tempo erano tempio, tomba, santuario.

Ora erano una gola che tossiva i ricordi.

Lythera correva.

Non con panico.

Non con terrore.

Con urgenza.

Come se ogni passo fosse una parola del testamento di un regno.

Tra le braccia stringeva il bambino.

Non piangeva.

Dormiva.

Ma il suo sonno… era troppo profondo.

Troppo silenzioso.

Lythera sentiva il battito.

Ma non col cuore.

Col sangue.

La luce del medaglione di Althea la guidava.

Il corridoio davanti a lei era stretto, irregolare.

Ma cambiava ad ogni passo.

I muri si spostavano.

Le scalinate si contorcevano.

Le iscrizioni sulle lapidi… mutavano.

“Non fuggire.

Il tuo tempo è finito.”

Una voce.

Non parlata.

Pensata dentro.

Lythera non rispose.

Continuò a correre.

Scese una scala che non ricordava.

Attraversò una sala che non era mai esistita.

Eppure… era lì.

“A cosa serve la speranza

se la luce è morta?”

Non era sola.

Il Vuoto era sceso.

Non come forma.

Come presenza.

Raggiunse il fondo.

La cripta più profonda.

La Pietra del Giuramento.

Lì… dove nessuno avrebbe mai osato pronunciare il nome di Althea

senza inchinarsi.

Il Portale.

Immenso.

Circolare.

Inciso nella roccia viva.

Sei simboli brillavano su di esso:

La Spada

Lo Scudo

Il Sigillo

Il Martello

L’Occhio

La Lacrima

Lythera li toccò uno per uno.

Ogni tocco era una nota di un canto perduto.

La pietra reagì.

Un basso rintocco riempì la cripta.

Poi un altro.

Poi un altro.

Il Portale cominciò ad aprirsi.

Ma lentamente.

Con dolore.

Con resistenza.

Dietro di lei, le cripte si stavano deformando, il pavimento divenne

liquido, le pareti… non c’erano più.

C’era solo nero.

Ma non il buio.

L’assenza.

“Non puoi portarlo via.”

Una voce.

Da nessuna parte.

Ovunque.

Una forma si avvicinava.

Non era corpo.

Era certezza.

Lythera strinse il bambino più forte.

“Lui non è ciò che era.

È ciò che sarà.”

Il Portale si illuminò completamente.

Il vento del nulla la colpì.

Le lacrime scesero.

Ma non erano sue.

Era il castello… che piangeva.

Dietro di lei la Sala dell’Alleanza non c’era più.

Solo uno spazio spezzato.

Un cuore svuotato.

Un trono che galleggiava senza re.

Il Sigillo.

Ancora lì, sospeso.

Non brillava.

Pulsava.

“Ricorda chi sei”

disse una voce.

Forse Althea.

Forse il tempo stesso.

Lythera fece un passo.

Oltre la soglia.

E il mondo si richiuse.

FINE PROLOGO – Il Giorno della Frattura

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Gian Marco Mezzullo
Gian Marco Mezzullo è nato a Roma il 17 settembre 1990.
Ha vissuto a Pomezia fino ai ventitré anni, poi si è trasferito in provincia di Brescia per lavoro.
Da sempre amante della lettura, ha trovato nei libri un rifugio e una forma di sicurezza.
Il Sigillo del Re Perduto – Le Frequenze nel Vuoto è il suo romanzo d’esordio, nato dal desiderio di trasformare l’ascolto e il dolore in racconto — perché ogni storia può aiutare qualcuno, così come altre storie hanno aiutato lui.
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