«Venit nox tenebrarum… aperiatur ianua… sanguis est viaticum..»
Frasi in latino, ripetute come una litania. Non si fermava, non prendeva fiato. Ripeteva e basta, con un rivolo di sangue che colava dal labbro inferiore, mentre le goccioline cadevano sul terreno ormai rosso.
L’agente indietreggiò d’istinto. Poi, con mano tremante, soffiò nel fischietto. Poco dopo, un carro della polizia trasportava la piccola verso l’ospedale di Bethlem, mentre un messaggero correva a Scotland Yard.
***
L’ispettore Edgar Blackwood era chino sulla sua scrivania quando bussarono. Aveva dormito poco, come accadeva ormai da settimane. Aveva occhiaie profonde che gli segnavano gli occhi stanchi e cisposi. Sognava O’Connor quasi ogni notte: il suo fucile, il sorriso storto, l’ultimo sguardo nella cripta. Il dolore era lì, sotto la pelle, sottile come la lama di un bisturi, sempre pronto a incidere.
Quando il giovane agente riferì del ritrovamento, Blackwood impallidì. «Una bambina? E parla in latino?»
«Sì, signore. Frasi sconnesse. Sembra in stato di shock.»
Blackwood si alzò, gettò uno sguardo alla finanziera logora appesa all’attaccapanni e si infilò i guanti. Prese il suo bastone, il revolver nella fondina e si accese un sigaro economico. Il fumo gli addolcì i pensieri solo per un istante. Tossì con la gola in fiamme. “Bastardo di un tempaccio!” Pensò l’ispettore, masticando bestemmie.
«Preparate il calesse. Clerkenwell, subito.»
Mentre lasciava l’ufficio, lo sguardo gli cadde sulla vecchia tazza di Declan, ancora sulla mensola. Non l’aveva voluta rimuovere. In fondo, anche il dolore era una forma di memoria.
«Se fossi qui, amico mio… non ti piacerebbe ciò che sto per vedere.»
***
Clerkenwell, Cortile di Saint Peter’s Lane
Il calesse si fermò con uno scossone davanti al vicolo. L’alba faticava a farsi largo tra le nubi basse e la cappa di nebbia che soffocava ogni cosa. L’odore di carbone bruciato permeava l’aria rendendola pesante e soffocante. Senza tetto accasciati contro i muri, cercavano di scaldarsi le mani soffiandoci sopra. Blackwood scese con un salto brusco, il cappotto già impregnato dell’umidità acre del mattino londinese. Due agenti lo attendevano all’ingresso del cortile, visibilmente turbati.
«È successo lì, signore. Al centro del cortile. La bambina era… in piedi. Immobile. Come ipnotizzata e sanguinava. Parecchio.»
Blackwood li zittì con un gesto. Voleva vedere con i propri occhi. Entrò nel cortile lentamente, le scarpe che affondavano in pozzanghere scure e fangose. L’ambiente era angusto, chiuso tra alti muri di mattoni anneriti, finestre sprangate e calcinacci abbandonati. Un vecchio lampione a gas sputava fiammelle giallastre che illuminavano a malapena la scena. La muffa ricopriva la base del lampione e lo avvolgeva con spire verdastre.
Sul terreno restava ancora una chiazza scura, sangue misto a fango, non ancora lavata via dalla pioggia della notte. Attorno a essa, strani segni. Linee sottili tracciate con qualcosa – forse gesso, forse cenere – a formare un cerchio imperfetto. All’interno, delle lettere. Latinizzate, storte, alcune cancellate. Altre scritte con il sangue.
Blackwood si inginocchiò, accendendo una lanterna per illuminare meglio. Tracciò i contorni con il bastone.
«Non è stato un gioco di bambini… e non è neppure solo una follia.»
Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto e raccolse un frammento di gesso. Lo osservò controluce: grigio, poroso, con macchie scure. Probabilmente sangue della bambina. Poi notò qualcosa d’altro. Una piuma, minuscola, incastrata tra i mattoni. Bianca, ma imbrattata di sangue. Stranamente… iridescente.
Alle sue spalle, uno degli agenti si avvicinò con cautela. «Gli abitanti dicono di non aver visto nulla, signore. Nessuno ha sentito urlare. Solo la bambina, lì, come un fantasma.»
«Da quanto era lì?»
«Non lo sappiamo, signore. Era fradicia, ricoperta di sangue, pallida come la morte e gelida.>»
«E il sangue? Di chi è?»
«Non lo sappiamo ancora. Ma non sembrava ferita. Nemmeno un graffio. Solo le unghie dei piedi erano rotte, probabilmente perché scalza.»
«Non sapete nulla, quindi!» Ringhiò Blackwood tirando una boccata dal sigaro.
«Signore…»
«Non era una domanda, agente!»
Blackwood si alzò in silenzio. Il viso contratto, lo sguardo cupo.
«Mandate il gesso e la piuma al laboratorio di analisi. E interrogate di nuovo i residenti. Questa non è una scena d’aggressione… è qualcosa di peggio.»
Si avvicinò di nuovo al cerchio. Qualcosa nelle forme disegnate gli dava il voltastomaco, come se la sua mente cercasse di rifiutare ciò che gli occhi vedevano.
Poi vide le orme. Minuscole. Scalze. Dritte verso il centro del cerchio. Nessuna traccia in uscita.
«Com’è arrivata qui?» si chiese. «E da dove?»
Un pensiero gelido si fece strada.
O’Connor avrebbe saputo cosa dire. Avrebbe fatto una battuta ruvida per allentare la tensione… ma poi ci avrebbe visto giusto, come sempre.
Blackwood si voltò verso gli agenti.
«Fatemi avere l’elenco degli scomparsi nella zona negli ultimi tre giorni. E uno specialista in lingue antiche. Latino ecclesiastico, se possibile. Domattina voglio un rapporto medico sulla bambina. Voglio sapere se è drogata, malata… o qualcosa di peggio.»
Il detective inspirò profondamente, lanciò il sigaro ancora acceso, poi si voltò per uscire dal cortile.
Il cielo si era fatto più scuro, come se la nebbia avesse deciso di restare.
Appena uscito dal cortile vide una figura immersa nella nebbia, alta, magra, che veniva a passo spedito verso di lui. Pensò subito a “lui”, al famoso detective. «Non può essere,» si disse mettendo in bocca un nuovo sigaro economico.
«Per fortuna avete ucciso quella bestia figlia di Satana, ispettore! Altrimenti avrei subito pensato a Dracula!»
“Era forse meglio incontrare di nuovo Sherlock Holmes!” considerò Blackwood, aspirando il sigaro e infilandosi le mani guantate nelle tasche della redingote. «Harry! Maledizione, ancora tu?»
«Ma certo, ispettore! Lo sa, dove c’è un omicidio, c’è il London Gazette! E dove c’è il London Gazette, ci sono io!» Rise fragorosamente il reporter, tentando di vedere oltre l’ispettore.
«Agenti, non fatelo entrare!» Sbraitò Blackwood in direzione di uno degli agenti che pattugliavano il cortile.
«Non può fermarmi, Blackwood. Sono autorizzato a scrivere.» Urlò di sdegno Fitzroy mentre l’agente lo scortava verso un calesse della polizia fermo sul selciato.
«Tanto scriverai la solita merda,» emise a denti stretti Blackwood incamminandosi verso l’ospedale dove era ricoverata la bambina.
2
Bethlem;
Fondato nel 1247, nel tardo Ottocento era situato a Lambeth, lungo il Tamigi, La sua fama non era legata ai successi medici, ma piuttosto alle condizioni spaventose in cui venivano tenuti i pazienti.
L’edificio, in stile vittoriano severo, era circondato da alte cancellate in ferro battuto. Le facciate in mattoni scuri e le finestre strette e sbarrate ricordavano più una prigione che un ospedale. Gli interni erano gelidi anche d’estate, umidi, con lunghi corridoi in pietra, celle individuali per i pazienti violenti, e sale comuni in cui le urla dei ricoverati rimbombavano senza sosta.
Il cancello di ferro del Bethlem Royal Hospital si aprì con un gemito simile a quello di un moribondo. Blackwood scese dal calesse senza fretta, come se anche il suo corpo avvertisse il peso dell’aria greve che avvolgeva l’istituto. Si accese un sigaro economico ed aspirò senza fretta. La clinica gli metteva sempre i brividi. Il cielo di Londra incombeva su quell’angolo dimenticato come un coperchio plumbeo, e la nebbia biancastra sembrava infittirsi proprio attorno al vecchio manicomio.
La facciata dell’edificio era austera, annerita dal tempo e dalle piogge. Finestre alte e strette, sbarrate, occhieggiavano come ferite in un volto di pietra. Dalle grate sottoterra giungevano urla improvvise, gemiti laceranti e pianti soffocati che sembravano partoriti direttamente dalle viscere dell’inferno.
Bethlem non era un luogo di guarigione. Era una prigione di corpi e menti, un mausoleo vivo dove i dannati respiravano ancora.
Blackwood tirò su il bavero della redingote e aspirò dal sigaro, cercando nel fumo un rifugio. Ma nemmeno quello riuscì a mascherare l’odore pungente che aleggiava nell’aria: disinfettante, urina, sangue secco e disperazione.
All’ingresso, un infermiere alto e ossuto, con la carnagione diafana e lo sguardo spento, lo condusse nel reparto nord, quello destinato ai casi più “delicati”.
Le corsie erano spesso illuminate solo da lampade a gas o candele, creando ombre tremolanti sui muri e contribuendo a un senso costante di angoscia. I letti erano spartani, a volte senza lenzuola, con coperte ruvide. Alcuni pazienti venivano legati con cinghie o catene ai letti o alle pareti.
«La bambina è lì dentro,» mormorò, indicando una porta in legno massiccio. «Sta ancora ripetendo quelle frasi. Non si ferma. Non dorme. Non mangia.»
Blackwood annuì e varcò la soglia
La stanza era buia, rischiarata solo da una lampada a olio. Le pareti, scrostate, grondavano umidità, puzzavano di muffa, di sudore e di feci. Sul letto, la bambina giaceva seduta, le ginocchia al petto. I suoi occhi erano vuoti, eppure inquieti. Le labbra si muovevano senza sosta, sillabando frasi in latino che sembravano colare via come sangue da una ferita.
«Sanguis… viaticum est… nox… aperitur…»
Blackwood si avvicinò piano. Non parlò. Si limitò a osservarla, notando il tremito costante delle dita, la pelle livida, le iridi dilatate. Sembrava posseduta da una forza estranea. Le vene sul collo pulsavano senza sosta.
A un certo punto, senza smettere di recitare, la bambina girò lo sguardo verso di lui. Un sorriso sottile, inquietante, le sollevò un angolo della bocca. «Tu… non sai… ma lo vedrai…»
Blackwood indietreggiò di un passo. Il gelo gli si arrampicò lungo la schiena, il sigaro economico cadde sul pavimento della celletta sfrigolando.
«Infermiera,» Chiamò Blackwood da dentro la piccola stanza, «fate chiamare il dottor John Watson al 221B di Baker Street, ditegli che lo manda a chiamare l’ispettore Blackood!»
***
«Buongiorno ispettore.» Esordì Watson, chinando il capo verso Edgar.
«Dottore.» Si limitò a rispondere Blackwood facendo un gesto con la mano per invitarlo ad entrare nella stanza.
Dopo una visita sommaria, il dottor John Watson entrò nella stanza. Portava con sé la sua borsa da medico, il volto scavato da una notte insonne. Si chinò sulla bambina, le tastò il polso, le guardò le pupille. Provò a parlare con lei. A interrogarla. A strapparle qualcosa di razionale.
Ma nulla. Sempre le stesse frasi, lo stesso vuoto negli occhi.
Mezz’ora dopo, uscì dalla stanza.
Blackwood gli si avvicinò. «Dottore? Allora? È una forma di epilessia? Di febbre? Qualche malattia tropicale?»
Watson scosse il capo, chiudendo con forza la fibbia della borsa, assorto in pensieri oscuri. «Nessuna spiegazione clinica, Blackwood. Nessuna ferita»
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