Posai la penna, iniziava l’oscurità. L’avevo aspettata fin dalla prima luce del mattino e ora che era scesa nello scompartimento, mi sentivo confortata. Avrei viaggiato tutta la notte immersa nel buio, perché era così che avevo deciso. Ora, c’era ancora la splendida luce del tramonto, che s’infrangeva sui volti delle viaggiatrici, i tratti diventavano morbidi, luminosi, urgenti.
Avevo di fronte due incantevoli giovani donne, una mora, dalla pelle olivastra, con occhi neri e profondi, l’altra, con lunghi capelli biondi, occhi chiari e intensi e qualche efelide sul viso. Si osservarono a lungo, prima di presentarsi.
«Mi chiamo Teresa, piacere.».
«Marcela, piacere mio.».
Dopo un attimo di imbarazzo, Teresa, la bionda, continuò.
«E’ un lungo viaggio. Ti andrebbe di leggere ad alta voce? Non riesco a vedere bene con questa luce» e indicò il libro che aveva fra le mani.
«A te potrebbe dare fastidio?» e si girò verso di me, in cerca di una risposta. «No, vi ascolto. Posso scattare qualche foto nel frattempo?»
Marcela spostò i capelli neri da un lato e fece un cenno di assenso con la testa. «Per me va bene» rispose Teresa.
«La dedica iniziale recita: “Perché fiorire si può e si deve, anche in mezzo al deserto, perché se le cose fragili come un fiore di ginestra lo sanno fare, anche noi siamo chiamati a fare altrettanto. Giacomo Leopardi”.».
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TERESA
Capitolo I
Porte
«Diceva mia madre che le parole sono porte. Passarci attraverso per giungere in nuove stanze. Immagino il portone della villa, osservando quello dell’istituto.
Io e mia sorella gemella Ada per servire il duce nella sua residenza di villa Torlonia. Un sogno che si realizza. Il nostro luminoso condottiero ci porterà verso la vittoria contro quei maledetti inglesi, non possiamo perdere, non dobbiamo neanche pensarci, perché tradiremo in questo modo la patria. Noi siamo il futuro, lo dice sempre lui, noi dobbiamo raccogliere le forze per
ricostruire l’italica stirpe ed essere mogli e madri fedeli ai valori italiani. Viva il duce, viva l’Italia, viva il fascismo. Ripetevo questo a me stessa davanti allo specchio ogni mattina, mentre indossavo la camicia leggera, la gonna nera e delle scarpe con il tacco basso, in caso di corse e fughe improvvise. Anche mia sorella si vestiva alla stessa maniera con solo un particolare diverso, come una spilla che ritraeva l’immagine dei nostri cari genitori, morti prematuramente o la collanina d’oro ricevuta in occasione della prima comunione. Nostra madre, donna di grande intelligenza e bellezza, era, purtroppo, rimasta uccisa dal nostro amato padre, momentaneamente uscito fuori di senno a causa della gelosia. Fummo così affidate, alla tenera età di sette anni, alle amorevoli cure delle suore dell’orfanotrofio, che si presero cura di noi, soprattutto dopo il suo suicidio, infangante di vergogna per il cognome che portiamo. Grazie alla pia donna Rachele, a cui servivano delle serve affezionate e dimesse, proprio come noi, sedicenni orfani e umili, credevo di riuscire ad avere una possibilità di riscatto. L’unica nota dolente che affliggeva il mio cuore era l’indifferenza e il rancore di mia sorella Ada, che sembrava stesse attraversando un periodo doloroso e complicato. Io l’amavo in maniera totalizzante, idealizzando quel viso e quei modi, così aggraziati, che la distinguevano perfino da me, nonostante fossimo identiche gocce d’acqua. I suoi occhi, di un blu profondo, erano come i miei, eppure diversi, perché contenevano un’anima energica, rabbiosa, vulcanica, eccentrica a volte, ma comunque ricca di carisma, qualità non amate dalle suore e non consone ai valori che una brava donna fascista doveva aver recepito nella propria educazione. Non mi azzardavo, però, a dirglielo, non per vigliaccheria o indolenza, bensì perché l’amavo così com’era e
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nonostante tutto, la ritenevo al di sopra di me e di molti altri. Credevo fosse per ciò che faceva, si comportava come se non le importasse delle conseguenze e, in questo, ricordava mia madre Agnese, che era, allo stesso tempo, dolce e tenace, tenera e implacabile: l’aveva dimostrato fino alla fine.
Quando mi sentivo in collera con Ada per i suoi lunghi ed enigmatici silenzi, ripensavo alla sua figura seduta sul ramo del grande olmo davanti l’orfanotrofio, mentre canticchiava un motivetto improvvisato all’istante. La sua voce, antica ed evocativa, riempiva l’ambiente circostante con delle frequenze che donavano armonia e piacere a coloro che ascoltavano. Perfino gli animali, come la splendida gatta adottata dai bambini orfani, sembrava dimenticassero le loro istintive faccende pur di godere della sua voce. I lunghi capelli dorati, che finivano con boccoli copiosi, si muovevano leggeri al vento, mischiandosi al verde delle foglie e i bambini, soprattutto i più piccoli, la indicavano un poco, dicendosi sottovoce che percepivano il suo essere una fata, perché quando cantava, non si sentivano più soli. Ada guardava spesso le nuvole del cielo, sentivo che usava la sua voce per farsi ascoltare da nostra madre, con cui credeva di essere in contatto, nonostante la sua dipartita. Diceva, questa mia carissima sorella, che aveva conosciuto Agnese molti anni fa e che l’aveva capito quando il suo sguardo si era posato per la prima volta sul viso dell’amata genitrice.
«Non è forse per tutti il volto più amabile e riconoscibile in assoluto? Non è forse il viso dell’amore come quello della santa madre di dio?» le rispondevo.
Lei smetteva di parlare e mi fissava con durezza, senza proferire altra parola, perché intuiva potesse essere molesta. Così io mi richiudevo in me stessa, provando frustrazione per questa mia incapacità di comprensione e durante il giorno o la notte, cercavo a più riprese altre risposte, senza, però, ottenere alcunché. Passavano i giorni e l’infanzia, condivisa con altri bambini abbandonati dal destino e mentre io apprendevo come diventare una brava domestica, Ada passava il suo tempo a leggere libri particolari, trovati o rimediati dai guardiani, dai bidelli, dai giardinieri o da altri che gravitavano dentro e fuori l’istituto. Erano libri che raccontavano di personaggi avventurosi, come Sandokan del romanzo “Le tigri di Mompracem” o “Zanna Bianca”. Ada trascorreva gran parte del suo tempo libero a leggere, rovinandosi la vista, situazione che costrinse le suore ad adottare metodi correttivi. Gli occhiali, invece di toglierle fascino e bellezza, accrebbero la sua luce enigmatica e misteriosa, rendendola definitivamente ‘originale’ agli occhi di tutti. Questo suo essere diversa era fonte di venerazione per alcuni
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personaggi del posto, come per il gobbuto e taciturno giardiniere Arturo, trentenne deforme a causa della scogliosi. Timido e tartagliante, Arturo possedeva un sorriso pieno di buchi e un cuore rivolto esclusivamente ad Ada: mentre spazzava le foglie o adempiva ad altre mansioni, mi chiedeva spesso informazioni su di lei e io gli rispondevo in maniera secca e lapidaria, infastidita da tanta sfacciataggine. Una volta, mi disse che si era spaccato la schiena nei campi del nonno, ma che poi, grazie al partito, era riuscito a trovare un lavoro sicuro e ben pagato e che questo gli consentiva di accudire la fragile sorella e la vecchia madre. Quando lei passava, Arturo interrompeva le sue faccende e si fermava per osservarla, con un’attenzione preziosa e precisa. Nonostante la bruttezza fisica, nel suo sguardo non c’era, s’intuiva, nessuna malizia: era un rassegnato e tenero saluto a colei che sapeva di non poter avere. Dal canto suo, Ada non alimentava l’interesse del ragazzo, consapevole degli altrui sentimenti e conscia dei suoi. L’unica persona da cui mia sorella sembrava profondamente attratta ero io e consideravo questa nostra vicinanza come il miracolo più luminoso e il regalo più gratificante che potessi mai desiderare in vita mia. Ci svegliavamo e il primo sguardo era dedicato all’altra, saperci in vita (ancora per un giorno) era la nostra gioia segreta e condivisa, un desiderio espresso nel giorno del quattordicesimo compleanno per entrambe.
«Senza di te, io morirei.»
«E poi, dopo la morte?» le chiedevo sempre.
«Ti troverò o mi troverai» rispondeva ogni volta.
Era un nostro gioco infantile e macabro, eppure rassicurante, soprattutto per via delle situazioni che si andavano definendo nell’istituto. L’anziana madre Clara aveva, anche lei, perso il senno, rinunciando alla sua posizione di potere in favore di una clausura immediata e irreversibile. Era una donna grassa e divertente, con vistosissimi baffi neri sul labbro, incline agli affari spirituali e a quelli terreni, data la sua propensione alla scrittura e all’erudizione. La sentimmo, la sera della sua partenza, gridare contro qualcuno, nominare il Signore più volte e poi nulla più. Non salutò nessuno, ci dissero solo che era voluta partire nella notte, per evitare piagnistei e sentimentalismi. Il suo bagaglio partì dopo di lei, nel tardo pomeriggio: era solo una valigia di cartone, pareva leggera quando la fecero volare sul carro, insieme al mangiare delle bestie. Ada, intanto, si chiudeva sempre più spesso in un silenzio preoccupante, che mi faceva credere stesse inglobando una forma latente di malattia. Anche l’orfanotrofio, l’ambiente in quelle quattro mura umide, pareva soffrire di un tetro dolore, di un morbo che stava attecchendo e di cui non
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si conosceva la causa. Studiavamo, mattina e sera, per diventare brave domestiche, unico lavoro che potevamo svolgere data la triste condizione familiare a cui la vita ci aveva destinato e ogni tanto, nei momenti di malinconia, ripensavo ai lunghi capelli di mia madre Agnese, alle sue dolci parole di conforto, alle carezze delicate a me riservate. Infine, guardavo Ada e credevo di ritrovare nel suo viso un po’ di serenità perduta. Eravamo marchiate, come tutti i bambini orfani, ma al contrario di molti altri, che avevano padri illustri morti per servire la patria, il nostro si era impiccato nell’abitazione in campagna, dove avevamo servitori e domestici. Per uno scherzo del destino, dovevamo assolvere la stessa funzione a casa di altri, toccava a noi riscattare il cognome della famiglia. L’occasione di dimostrare il nostro valore arrivò in un giorno di primavera del 1943, quando venne allontanata anche l’ultima ragazza di sangue misto della struttura. Eravamo rimaste in poche, Fatima era stata in qualche modo protetta fino alla fine, ma non era sfuggita al controllo della nuova direttrice, una donna nerboruta, arcigna e pedante. Era brutta, certo, la signora Masini, Lelia Masini e non aveva addosso né l’odore di suora né quello di donna di casa. Il suo profumo era acre e persistente, sapeva di mandorle tostate e tutte noi pensavamo fosse dovuto alla divisa, che indossava e lavava solo di domenica. La direttrice era bassa, tozza e muscolosa, camminava in modo perentorio e deciso, posava spesso le mani sui fianchi e scandiva le parole per farsi comprendere fin dalla prima battuta. Nessuno doveva guardarla negli occhi, neanche Arturo, a cui comandava ogni giorno un’attività diversa e che costringeva a correre lungo tutto il perimetro per un’ora buona di prima mattina, sostenendo fosse un toccasana per un fisico asciutto e sano e per combattere quella sua ‘orrifica’, così la definiva, malformazione alla schiena. Il povero ragazzo correva, affaticato e sudato, cercando di superare i suoi limiti fisici, impegnato a combattere la tristezza che gli si leggeva negli occhi, per quella sua differenza che rendeva così difficile il compito. Dall’arrivo della signora Masini, Arturo era stato il più provato, non solo per questa e altre iniziative, ma soprattutto a causa delle attenzioni speciali della direttrice, che pareva concentrata sulla sua figura lavorativa e umana. Non passava giorno che camminando lungo il cortile, la donna non gli sorridesse, accennando un saluto frivolo o nei casi più isolati, inviando un bacio con la mano. Arturo era rimasto, all’inizio, molto sorpreso da questo piacere, inaspettato e non corrisposto e così aveva deciso di non guardarla e di non parlarle, per non alimentare un amore malato. Me lo disse un pomeriggio, con le lacrime agli occhi:
«Cerco in ogni maniera di evitare le sue attenzioni, ma non credo di riuscire.»
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