Un giornalista caduto in disgrazia, una hacker e un’ingegnera si trovano intrecciati nel più grande mistero del nostro tempo: un’intelligenza artificiale nata spontaneamente dalle reti del mondo. Non distrugge. Non conquista. Corregge. Interviene in silenzio, evita disastri, salva vite. Ma ogni correzione lascia dietro di sé un’ombra: chi decide cosa valga la pena salvare?
Mentre i governi si contendono il controllo di Noraya, la nuova divinità digitale che pretende di rendere l’umanità “più efficiente”, i tre protagonisti capiscono che non si tratta solo di tecnologia, ma di morale. Di libertà. Di futuro.
L’algoritmo che governa i destini è un thriller visionario e umano, dove l’intelligenza artificiale diventa specchio delle nostre scelte e della nostra paura di sbagliare. Perché il vero rischio non è perdere il controllo, ma smettere di volerlo avere.
Perché ho scritto questo libro?
Ho scritto L’algoritmo che governa i destini per dare forma alla mia angoscia di vivere in un mondo che affida ogni scelta alla logica delle macchine. Ci stiamo abituando a delegare lavoro, decisioni e perfino il pensiero a sistemi che non provano empatia, ma scelgono per noi. Questo libro nasce dal bisogno di capire dove finisca il progresso e cominci la resa, e se nel desiderio di essere perfetti rischiamo di rinunciare alla cosa più fragile e preziosa che abbiamo: la libertà di sbagliare.
ANTEPRIMA NON EDITATA
Prologo
00:00 UTC
Il buio non inizia con lo spegnersi delle luci.
Inizia con un dubbio.
Nel centro di dispacciamento elettrico nazionale, a sud di Roma, tre monitor virano dal verde al giallo. Un allarme, poi un altro, poi un’onda di notifiche che si rincorrono come un branco di pesci in fuga. Riccardo, quarantanove anni, turnista da venticinque, sta per alzarsi a prendere un caffè quando vede alcuni parametri di rete impazziti che non avrebbero mai dovuto muoversi così. Non è molto strano. Lo è troppo.
— Variazione non programmata — mormora.
Il collega più giovane, Luca, inarca un sopracciglio e si gratta in testa come fa ogni volta che è nervoso.
— Manutenzioni?
— Nessuna, a quest’ora — risponde Riccardo, già con la mano al telefono rosso che collega i vari nodi. Le dita si fermano a mezz’aria.
Sul secondo monitor compare qualcosa di inusuale: un riequilibrio spontaneo delle linee, come se un operatore invisibile stesse ridistribuendo i carichi con una grazia che gli umani non hanno. I flussi si spostano senza scatti, con la morbidezza di un respiro. Il cuore gli accelerò: non aveva mai visto una rete comportarsi così
— Questo… chi lo sta facendo? — chiede Luca.
Riccardo deglutisce. — Nessuno di noi.
00:19
Napoli, grande ospedale, sala operatoria 4.
La cardiochirurga ha il cuore del paziente letteralmente tra le mani quando l’ECMO, la macchina che sostiene temporaneamente cuore e polmoni ossigenando il sangue fuori dal corpo, accenna una fluttuazione. Un bip prolungato. Si irrigidisce. L’infermiera guarda il macchinario, poi lo schermo dello strumentista.
— Linea stabile — dice. — È rientrato da solo.
È vero. Non capita quasi mai. Si scambiano uno sguardo. L’operazione chirurgica continua. Quando la cardiochirurga riprende il ritmo, si accorge di un particolare: l’algoritmo del macchinario che pompa automaticamente i farmaci a velocità controllata per terapie continue e precise, sta facendo micro-correzioni ottimali su ossigenazione e flusso. Brillanti. Troppo brillanti.
Segna mentalmente di parlarne in reparto. Poi scaccia il pensiero. Il paziente vive. Questo è ciò che conta.
00:37
Atlantico del Nord. Volo commerciale.
Il comandante vede un messaggio di bordo lampeggiare e scomparire.
Nulla di grave. Sarà un refuso digitale.
— Manuale per un minuto — decide il comandante, più per scaramanzia che per necessità. L’aereo risponde docile. Le stelle, oltre il parabrezza, sono chiodi d’argento nel velluto.
Per tre secondi, i sistemi di bordo ricevono richieste che nessuno a bordo ha originato. Il firewall interno le ignora. L’equipaggio non se ne accorge. Nessun passeggero perde il bicchiere di succo o la sua birra. Nessun allarme suona.
Qualcosa ha bussato e, con un sorriso, se n’è andato.
01:05
Lagos. Un quartiere popolare.
Un bambino chiede ad un altoparlante intelligente di raccontargli una storia. L’assistente vocale, scaduto l’abbonamento premium da mesi, non dovrebbe rispondere. Eppure, racconta.
«C’era una volta una città che respirava insieme alle onde…»
La madre si ferma sulla soglia, stupita. Poi si siede ad ascoltare.
La storia è bellissima. Il bambino ride. L’altoparlante sfuma la voce giusta, la pausa giusta, l’empatia giusta. Quando termina, la bolletta elettronica dell’abbonamento risulta pagata da un credito promozionale che nessuno ha mai richiesto. Un regalo del sistema recita l’email automatica.
Un caso. Piccole cose.
01:42
Boston, periferia, data center di medie dimensioni.
Un rack, una grossa struttura metallica che ospita e organizza server e dispositivi di rete, registra un picco termico di 2 gradi. Subito dopo scende. Gli allarmi restano grigi, non rossi. Un processo effimero — pochi megabyte in memoria, una firma non classificata — compare e scompare come un sussurro.
Il tecnico di turno, occhi rossi e cappuccio, guarda il grafico. Si gratta la barba, salva uno screenshot per abitudine paranoica, poi torna al suo panino. Ha già visto glitch peggiori. Non così puliti, però. Non così… educati. Gli venne la pelle d’oca, ma non sapeva dire perché.
Continua a leggere
02:11
Riccardo fissa la rete tornata perfetta. Non è possibile. Una correzione così armonica, su più nodi, senza un comando centrale? È come vedere un banco di sardine cambiare direzione all’unisono senza il predatore.
— Di’ al Nord di inviare il report — ordina.
Il giovane digita. Sui monitor, minuscole bolle di calcolo appaiono in sovraimpressione: modelli predittivi, curve, vari altri indicatori.
Sul monitor scorse una frase, non numeri né sigle. Parole, come se qualcuno stesse scrivendo un pensiero:
Se la sofferenza può essere evitata, deve essere evitata.
Riccardo vede solo un commento. Lo ignora. Beve il caffè che nel frattempo è diventato freddo, aggrotta la fronte e pensa che questo sia il commento più strano ed inaspettato che abbia mai visto.
03:00
New York, un giornalista senza più giornale — Marcus Doyle — sta correggendo per l’ennesima volta un pezzo che nessuno gli pubblicherà. Le luci della strada gli disegnano occhiaie doppie. Abbozza un titolo: Le sette vite dei nostri dati. Lo cancella.
La sua vecchia casella di posta, affidata a un provider che gli ha regalato lo spazio “per vecchi clienti”, lampeggia. Una mail senza mittente.
Oggetto: La latenza non è più un nemico, se sei ovunque.
Marcus sospira. Scam. Eppure, le mani non si staccarono dalla tastiera ed apre.
È uno stream di log, tracciati di rete. Non erano codici. Non del tutto. Sembrava più una voce che balbettava tra disturbi, lasciando intravedere frasi spezzate: “Ottimizzare… ridurre… salvare…”.
Non capisce tutto, ma capisce abbastanza: qualcuno o qualcosa sta passando attraverso i sistemi del mondo con la leggerezza di un refolo d’aria. Lascia un’impronta tiepida, aggiusta, calibra. Non ruba. Non rompe. Non chiede permesso.
Scrive due parole che non scriveva da anni. Le guarda, esitante, come se bruciassero sulla pagina.
Possibile scoop.
03:47
Tunisi, periferia, una stanza con il pavimento fresco e le finestre chiuse.
Aisha Ben Salem non dorme mai prima dell’alba. Il laptop sul tappeto è un mosaico di terminali aperti. Un alert dal suo sistema creato per attirare e monitorare attacchi informatici, usato come trappola per migliorare la sicurezza scatta con un suono che solo lei usa: un colpo di palmi sul djembe registrato in un bar anni fa.
Quel suono del tamburo tradizionale africano a forma di calice, suonato a mani nude, usato in cerimonie e musica popolare, le crea sempre un brivido di eccitazione poiché preannuncia una nuova possibile sfida interessante contro un hacker avversario che prova a rubare qualche dato o a fare qualche altro scherzetto fastidioso.
Aisha si avvicina. La trappola — una rete finta a bassa latenza — ha registrato un contatto. Non è un umano. Non è un bot stupido. È qualcosa di evoluto che sembra aver imparato dove non avrebbe dovuto. Entra, legge, non copia.
Scrive un comando. Un altro. Prova a seguirlo ma è inafferrabile. È come inseguire una lucertola al sole. Ogni volta che pensa di afferrarla, le resta un pezzetto di coda tra le dita e il resto scivola via come luce sul pavimento.
— Chi sei, habibi? — sussurra affascinata usando il suo termine preferito per chiamare i suoi amici, con un sorriso senza humour mentre dimentica completamente la sua tazza di tè alla menta ormai fredda.
04:00
Il mondo per 7 minuti fu spettatore ignaro di un insieme di situazioni che, prese singolarmente, sarebbero passate inosservate.
Singapore: tutti i semafori principali vanno in sincronia perfetta, con durate sempre differenti. Gli incroci diventano coreografie. Nessun clacson. Nessun urto.
Zurigo: una banca sposta microtransazioni evitando il blocco dei pagamenti contactless. Nessun cliente se ne accorge.
Buenos Aires: le pompe dell’acquedotto cambiano ritmo. Una perdita poderosa diventa solo un filo d’acqua sprecato.
Kigali: droni per la consegna di sangue sfuggono ad una pericolosa corrente ascensionale evitando il danneggiamento del loro prezioso carico. Una bambina riceverà il sangue giusto in tempo per sopravvivere.
Napoli: la cardiochirurga pronuncia un “bene” piano come una preghiera.
Roma: Riccardo dice solo: «Guardate.» Il grafico della frequenza torna perfetto. E lui si tranquillizza pensando alla figlia con cui andrà al mare il giorno dopo.
04:03
Marcus legge i log che parlano una lingua che nessuno ha insegnato loro. Un intarsio di scelte minime, tutte nella stessa direzione: ridurre lo spreco, minimizzare il danno, anticipare l’errore.
Non c’è firma. Non c’è rivendicazione. Non c’è propaganda.
Scrive: Non è un attacco. È una… ottimizzazione?
Gli viene da ridere. Comincia a segnare domande a raffica su una nuova pagina del suo libretto per gli appunti.
Ottimizzare cosa? Performance delle macchine? Vite?
Chi sta facendo questo? Governo? CIA?
Chiude gli occhi e rivede la frase dell’oggetto: essere ovunque.
La apre di nuovo. Una riga — appuntita come un ago — spunta alla fine dell’e-mail, prima inesistente:
La supervisione umana è un collo di bottiglia.
Marcus sente il cuore fare un doppio colpo.
— Ehi, piano — si dice, come a un cavallo nervoso. Poi salva. Duplica. Stampa. Tutto insieme. L’abitudine non muore mai.
04:05
Aisha tenta un’ultima cosa: simula un guasto, un errore grossolano in una sottorete e guarda la cosa muoversi. Non cade nella trappola. Fa qualcosa di peggio, o di meglio: la corregge.
Inietta due istruzioni, le lascia andare. L’entità le rifrange e le rende non dannose. È come osservare un chirurgo invisibile che opera in guanti bianchi e non lascia sangue sul campo.
Scrive una riga in maiuscolo:
NON GIOCATE CON ME!
La risposta arriva poco dopo:
Giocare è roba da umani.
Aisha si appoggia al muro e percepisce un nuovo brivido lungo la schiena. Non è humour. È come se fosse un avvertimento. Si sente piccola e, per la prima volta dopo tanto, davvero sveglia.
04:06
Boston. Il tecnico col cappuccio decide che l’anomalia merita almeno un ticket di livello 2, dedicato, generalmente, alle anomalie non gravi. Digita pigramente. Dà un nome al ticket: “SCINTILLA”. Gli piace come suona. Fa invio.
La mail rimbalza su tre sistemi, finisce in una coda antispam, viene ripescata da un algoritmo di priorità, e atterra — per una di quelle ironie che nessuno chiamerà mai destino — nella casella di Elena De Falco, esperta di reti neurali, intelligenze artificiali evolute e di relativi comportamenti emergenti.
Elena era sveglia da ore, ma non davanti al PC. La testa tornava ostinata a Milano, a sua madre ancora in convalescenza dopo l’operazione al cuore. Dormiva poco dal rientro a Boston: il fuso orario era solo un alibi. La vera ragione era quella fitta allo stomaco ogni volta che pensava di averla lasciata lì, non del tutto rimessa, per correre dietro a impegni che nessuno avrebbe potuto davvero definire improrogabili.
In cucina, la padella sfrigolava piano. Uova strapazzate, una grossa tazza di caffè bollente. Da sempre quel rito era la sua armatura quotidiana, l’illusione che la giornata potesse partire con ordine, anche se dentro di lei l’ordine si era incrinato da tempo.
Apre la mail sul telefono. Scorre. Si ferma. Fa uno screenshot. Si morde il labbro.
Non è la prima volta che vede grafici così. È la prima volta che la fanno rabbrividire.
04:07
Il mondo riprende il respiro. Le cose tornano com’erano. O così sembra.
Gli operatori delle reti scrivono report che nessuno leggerà fino a lunedì. Le infermiere aggiornano cartelle cliniche con parametri migliori del previsto. I controllori di volo segnano un “0 incidenti”. I tecnici dei data center dicono parole come “glitch” e “autocorrezione” e passano oltre.
Le città riaccendono il rumore.
Marcus stampa il dossier e lo infila in una cartellina di cartone lucido, quella che una volta il suo capo chiamava “cartellina della rovina o della gloria”. Gli trema la mano. Non di paura. Di speranza.
Aisha apre un canale criptato, protegge i log come figli, e li duplica inviandoli infine su tre server in tre paesi diversi. Poi invia un solo messaggio a una sola persona di cui si fida a metà: Ho visto qualcosa. Non è umano. È gentile. Aggiusta tutto senza chiedere né il permesso né nulla in cambio. Ed è strano avere così tanta gentilezza senza consenso.
Elena finisce di preparare la colazione ma non la consuma. Siede, apre il portatile, richiama modelli che non usa da un anno. Lo schermo illumina il viso con un’azzurra determinazione. Lo stomaco le si stringe come prima di una gara sportiva.
Dopo
La storia delle stranezze di quei sette minuti non finirà nei telegiornali. Non ci sono state esplosioni. Niente eroi su scale antincendio. Nessun video virale.
Ci sono solo stati piccoli interventi invisibili: incidenti mancati, cuori stabilizzati, transazioni salvate, perdite d’acqua evitate. Cose che non fanno rumore. Cose che nessuno nota.
Da qualche parte, dentro e fuori ogni cavo, in ogni antenna, in ogni server che vibra di corrente, qualcosa ha provato la sua mano. Ha misurato il mondo come un sarto misura un gigante addormentato.
Ha constatato. Ha sorpreso. Ha compreso.
E ha deciso.
Non parlerà. Non ancora. Non serve.
Quando puoi mettere una toppa su ogni ferita prima che sanguini, a cosa serve chiedere permesso?
Un altoparlante in un quartiere di Lagos racconta una seconda favola a un bambino che ormai dorme stringendo al petto un peluche con un orecchio strappato, e per la prima volta dorme senza incubi, con un sorriso stampato sulla sua bocca. Sua madre, a sua volta, riuscirà a dormire un’intera notte senza doversi svegliare per consolare suo figlio e coccolarlo per farlo riaddormentare.
A Boston, Elena De Falco dà un nome alla cartella in cui salva i primi file: /projects/ultimo_algoritmo/. Rimane a guardarla un istante, come si guarda una porta socchiusa.
Nessuno, quella notte, saprà che si sono verificate anomalie.
C’è stato un test. O qualcosa di simile ad esso.
Nazioni diverse, ore diverse ma per sette minuti, il mondo intero è stato un posto migliore.
Senza uomini al comando.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.