Da sempre Momo si considerava un ragazzo tranquillo, quasi anonimo: era una persona normale che viveva in una città normale dove conduceva una vita altrettanto normale.
Non eccelleva a scuola, ma nemmeno era da considerarsi un lavativo; non ubbidiva sempre ai suoi genitori, ma non era nemmeno un piantagrane come quei teppistelli che ogni tanto facevano qualche scherzo in giro per la città; non era appassionato di sport, ma se l’era sempre cavata in qualsiasi attività si impegnasse. Inoltre, nonostante non fosse particolarmente bello, nulla nel suo aspetto era troppo strano da farlo diventare l’oggetto di prese in giro: né troppo alto né troppo basso, capelli scuri e ricci ma non troppo, né magro né grasso. In conclusione, Momo, aveva tutte le caratteristiche per essere ritenuto un ragazzo come tanti, normale.
La sua unica particolarità era il nome: Momoko.
Per sua fortuna non viveva in Giappone, visto che gli era stato dato un nome femminile nonostante fosse un ragazzo.
Ogni volta che aveva chiesto spiegazioni ai suoi genitori, non gli avevano dato nessuna motivazione per giustificare quella scelta e così, con il tempo, aveva smesso di interrogarsi su quel mistero e aveva accettato in modo passivo tale bizzarria.
Inoltre nessuno lo chiamava mai con il suo nome per intero, né a casa né a scuola; per tutti lui era semplicemente Momo.
Sembrava che nessuno si ricordasse che Momo non fosse il suo vero nome, ma, come scoprì in seguito, la realtà era ben diversa.
CAPITOLO UNO
Mentre correva a perdifiato in una palude maleodorante, sentiva grosse gocce di sudore scendergli lungo la schiena a causa dello sforzo. Teneva le orecchie tese per decifrare i suoni di quello che lo stava inseguendo in modo da capire cosa fosse, ma era difficile in mezzo alla cacofonia di suoni notturni degli animali e insetti che si nascondevano nell’ombra. Dovette interrompere la sua corsa quando raggiunse un bivio e si fermò indeciso su quale sentiero prendere. All’improvviso uno schianto alle sue spalle lo fece voltare: un’enorme pianta si stava pericolosamente inclinando verso di lui lasciandogli solo il tempo di sgranare gli occhi. pensò mestamente il ragazzo quando DRIIIIIIIINNNNNNN!!!
Lo squillo impietoso della sveglia fece sobbalzare Momo che si ritrovò con il cuore in gola e gli occhi spalancati di fronte a quella che a tutti gli effetti era la sua camera da letto illuminata dalla luce fioca del giorno che entrava dalla finestra.
Quando il battito tornò ad un ritmo normale, Momo, sbuffando sonoramente, decise di alzarsi per prepararsi a quella che sarebbe stata l’ennesima giornata di scuola – casa – cena – compiti: tutto come da copione, tutto come il giorno precedente e quello prima ancora.
Gli adolescenti di solito considerano una fortuna non distinguersi troppo dalla massa e passare inosservati, ma questo non era il caso di Momo: lui aveva segretamente il desiderio di fare qualcosa di straordinario nella sua vita, di vivere un’avventura incredibile che lo distogliesse dalla sua routine quotidiana. Non c’era nulla nella sua esistenza che non andasse bene, ma era annoiato… molto annoiato.
Ultimamente tutto e tutti lo annoiavano, non solo le incombenze della scuola, ma anche il dover rendere conto di ogni sua decisione ai genitori o il fatto che la sorellina minore volesse sempre stare con lui.
Sognava segretamente di andarsene, di lasciare tutti indietro e di vivere senza regole e senza pensieri: non voleva più chiedere il permesso per fare qualsiasi cosa e avere sempre doveri e obblighi.
Avrebbe tanto voluto che i suoi sogni rispecchiassero la realtà, perché quando chiudeva gli occhi la sera sapeva che a breve sarebbe stato in luoghi lontani ed esotici con persone sconosciute con le quali vivere avventure nuove e stimolanti.
Come previsto il giorno del sogno nella palude non fece eccezione e la giornata procedette nello stesso identico modo delle precedenti, senza nessun cambiamento o avvenimento degno di nota. Momo andò a scuola dove in parte seguì le lezioni e in parte finse di seguirle, fece il suo allenamento di basket quotidiano per poi dirigersi verso casa.
Però, al posto che tornare direttamente, decise di deviare verso la biblioteca del paese per prendere dei libri per la scuola: visto che si annoiava anche a non fare nulla, tanto valeva fare un po’ di compiti e portarsi avanti in vista della tesina di scienze che doveva presentare entro la fine del mese.
Mentre gironzolava tra gli scaffali in attesa che la bibliotecaria gli consegnasse i libri richiesti, tra cui uno dal singolare titolo “Funghi. Nemici o Amici?”, si accorse di un libro sui draghi che stranamente non aveva ancora letto. Fece appena in tempo ad allungare la mano per prenderlo, quando lo chiamò la signora Virna per consegnargli quanto richiesto e, distolto lo sguardo, non si accorse di afferrare erroneamente il libro a fianco a quello che in realtà voleva.
Tornato a casa con il suo bottino si rese conto dell’errore e si ritrovò tra le mani uno strano libricino blu sottile, con le pagine ingiallite dal tempo e con la copertina morbida al tatto, forse dovuto all’usura della pelle del rivestimento.
Non riportava nessun titolo né sulla copertina né sulla costa e non era presente nemmeno il solito tassello di plastica della biblioteca; la sola particolarità era la copertina frontale che riportava il disegno stilizzato di un essere senza gambe e senza braccia dal volto ampio e con baffi pronunciati.
Incuriosito Momo lo aprì sperando che fosse un libro di avventure, ma rimase molto deluso quando scoprì che le pagine erano tutte bianche, o meglio gialle, fatta eccezione per la prima che era di un materiale particolare, quasi riflettente, che rimandò al ragazzo il suo riflesso accigliato.
Scocciato, Momo mise da parte il libricino ripromettendosi di restituirlo il giorno dopo e, avendo già perso ogni slancio nello scoprire il mondo segreto dei funghi, decise di uscire di nuovo per andare in cerca dei suoi amici e passare insieme a loro il pomeriggio.
Li raggiunse senza problemi e senza dover chiedere conferma agli altri dove fossero. Era dalla seconda elementare che si trovavano sempre nello stesso posto alla stessa ora, ovvero dietro alla scuola in quello che era il vecchio parchetto cittadino, più precisamente sulla panchina vicino allo “scivolo del diavolo”.
Momo e gli altri lo avevano rinominato così perché il suo diabolico inventore lo aveva rivestito di ferro e, quando batteva il sole, quella superficie raggiungeva temperature da ustione… E non per modo di dire! Vere e proprie ustioni che Momo cercava da anni di dimenticare, senza molto successo.
Ormai quel parco non era che una copia sbiadita di quello che era stato, per quello ne avevano costruito uno più bello e nuovo in centro, ma c’erano dei fedeli, come si chiamavano i cinque amici, che non avrebbero mai e poi mai tradito il vecchio e caro parco, teatro di tante avventure e testimone oculare della loro amicizia.
Come sempre, Momo trovò i suoi amici già seduti sul “pensatoio”, o panchina per i comuni mortali, intenti a ridere per un video che guardavano sul cellulare.
Fattosi più vicino, anche gli altri si accorsero della sua presenza e fecero partire le loro solite prese in giro che usavano al posto dei saluti veri; per loro sarebbe stato a dir poco strano darsi una pacca e dirsi un saluto cordiale, non sarebbe stato per niente nel loro stile.
Il loro modo singolare di salutarsi era così radicato nella loro amicizia che, come concordato in caso di rapimento alieno, se uno di loro fosse stato catturato e sostituito da un’entità extraterrestre o robotica, in base ai diversi scenari, l’impostore sarebbe stato subito smascherato da questo dettaglio.
Quando finirono il loro rituale, ripresero a parlare del loro videogame preferito, per poi passare a discutere della partita imminente del sabato e delle varie cose successe a scuola.
Sebbene Momo volesse un mondo di bene ai suoi amici, anche se non glielo aveva mai detto, il saper quasi prevedere ogni parola, argomento o commento, lo rendeva irrequieto e annoiato.
L’unica cosa fuori dal copione che emerse quel pomeriggio fu la conferma che un ragazzo di seconda avesse preso in giro Momo durante l’ultima partita di basket: il tutto era nato perché, ad ogni punto segnato, Momo esultava guardando la sua sorellina seduta sugli spalti.
Venire a sapere i commenti fatti da quell’idiota lo infastidiva davvero tanto, nonostante i suoi amici si fossero subito schierati dalla sua parte concordando che il tizio in questione fosse un mentecatto a cui piacesse ancora fare scherzi da bambino delle elementari.
Purtroppo però, come spesso accade, la rabbia del ragazzo al posto che essere rivolta verso quel compagno di scuola, detto “Ballerino” per i suoi stupidi balletti della vittoria, fu nei confronti della sorella e al loro legame così forte.
Fatta eccezione per questo dettaglio, il resto del pomeriggio passò tranquillo tra risate, musica in sottofondo e una fantastica merenda presa alla gelateria vicina. Nonostante questo, Momo prese la decisione che le dinamiche nella sua famiglia avrebbero dovuto cambiare.
Al suo rientro a casa, visto che il coprifuoco era passato da un po’, Momo sperò di riuscire a passare inosservato, ma, non appena varcò la soglia della porta d’ingresso, venne accolto dagli ululati spacca timpani di Lafayette, il loro basset hound, che annunciava a tutti i presenti del quartiere che qualcuno della famiglia era tornato.
Gli diede quindi una bella grattatina sotto al mento per farlo calmare e cercò di scappare su per le scale in modo da evitare qualche incombenza per la cena, quando venne intercettato dalla sorella minore Daisy che lo attendeva con trepidazione per poter giocare finalmente con lui.
“Dai, Momo!! Gioca con me” lo implorò la bimba per la milionesima volta “ti faccio fare chi vuoi questa volta, anche il principe che preferisci”.
“No, Daisy” replicò lui “basta, non voglio giocare con te, mi annoio. Non puoi stare da sola? Almeno io faccio quello che voglio e tu pure”.
Momo vide il lampo di delusione negli occhi della sorella, ma lo ignorò; in fondo aveva ormai tredici anni, non poteva continuare a passare tutto il suo tempo libero con lei come se fosse la sua migliore amica. Insomma, era patetico. Nel pomeriggio non aveva dato troppo peso a quello che gli avevano riferito gli amici, anzi ne aveva riso, ma, solo in quel momento, si rese conto di quanto i commenti del Ballerino lo avessero ferito nell’orgoglio.
pensò Momo con risolutezza <è ora di diventare adulto ed essere più indipendente>.
Dopo aver cenato con i genitori e una Daisy stranamente silenziosa, Momo decise di andare in camera a leggere un po’; gli scocciava ammetterlo, ma voleva evitare gli occhi tristi della sorella sapendo di esserne la causa. Ma, non appena entrò nella stanza, capì che c’era qualcosa di strano: alcuni oggetti non erano dove li aveva lasciati, non che ci fosse particolare disordine, ma, ad un occhio attento come il suo, la differenza era palese.
Si guardò in giro con aria circospetta per cogliere altri dettagli, ma, non vedendo nulla di particolare, decise di sdraiarsi sul letto.
Appena si appoggiò al materasso però sentì una voce ovattata che diceva: “Ehi, tu! Mi stai schiacciando!! Non hai rispetto nemmeno per i monaci?”.
Dallo spavento Momo fece un salto e si guardò in giro cercando la fonte di quella voce; una figura rossa senza gambe e senza braccia, dalla fronte ampia e con i baffi pronunciati lo stava guardando storto, coperto in parte dalle lenzuola con i dinosauri.
Perché sì, nonostante le sue insistenze, sua mamma continuava imperterrita ad usare le lenzuola di quando era un bambino… pensò Momo .
Dopo questo fugace pensiero, Momo tornò a concentrarsi su quel buffo omino: la caratteristica più strana, come se già tutto il resto non lo fosse abbastanza, era che aveva sì due occhi come chiunque altro, ma non aveva pupille.
“Cosa sei?” gli chiese il ragazzo, ormai più incuriosito che spaventato, viste le dimensioni ridotte della creatura che gli stava occupando il letto.
“Come cosa sono?? Semmai, chi sono! E poi dovresti saperlo, Momoko, sei tu che mi hai chiamato!”, disse la strana figura, “Ma, visto che continui a guardarmi con quella faccia da ebete, ti chiarisco le idee”.
Momo, registrato l’insulto con un’alzata di spalle, si apprestò ad ascoltare quello che aveva da raccontargli quello strano omuncolo che lo aveva chiamato con il suo nome intero e non con il soprannome.
“Io sono il Daruma a te assegnato. Come da tradizione giapponese, io rappresento il Bodhidharma, il fondatore dello Zen, e sono famoso in tutto il mondo come simbolo di fortuna. Tu, guardando nel mio diario, hai involontariamente espresso un desiderio; quindi, sono venuto fin qui per fartelo esaudire. Se riuscirò in questa impresa, mi sarò guadagnato le mie pupille e potrò riposarmi per l’eternità”.
Momo non riusciva a credere a quello che aveva appena sentito: non era un tipo diffidente e si considerava un ragazzo dalla mentalità aperta, ma un monaco portafortuna a lui assegnato risultava difficile da credere.
Però la verità era lì, davanti a lui, in quella figura tonda e rossa che lo guardava in modo spazientito e con aria di sufficienza.
Nonostante lo shock iniziale, il ragazzo capì che forse quella era davvero la soluzione a tutti i suoi problemi, quel monaco baffuto poteva essere la sua via di fuga dalla routine sempre più opprimente.
Forse qualcuno aveva ascoltato le sue preghiere riguardo a ciò che sognava e aveva mandato quel monaco per soddisfare la sua sete di avventura.
Nonostante la felicità, il ragazzo, prima di rispondergli, si voltò verso la porta chiusa come a voler scorgere la sua famiglia ed ebbe un attimo di esitazione nell’udire le risate che salivano dalle scale.
Il tutto però durò solo un attimo e, dopo aver preso un respiro profondo che gli infuse coraggio, fece quello che Daruma, abbreviato in Daru, gli aveva detto di fare: lo mise sul palmo della mano e con un pennarello gli colorò un occhio pensando intensamente al suo più grande desiderio.
Momo, mentre disegnava, cercò di non pensare a quanto tutto ciò fosse strano e ringraziò mentalmente che quello che stava dipingendo avesse la consistenza di un occhio di legno e non di un occhio umano.
Nel giro di pochi istanti, intorno a lui, l’aria diventò elettrica rendendo sfuocato l’ambiente che li circondava e facendogli venire una leggera nausea che lo costrinse a chiudere gli occhi per cercare di attutire quella sensazione di vuoto.
Chiara B. Tadolti
Storia di avventura e formazione, consigliato come regalo per ragazzi!