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L’Estate infinita

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Consegna prevista Aprile 2026
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Il destino, come un’onda che si infrange sulla spiaggia, ci porta a volte dove meno ce lo aspettiamo. Ci mette di fronte a persone che non avremmo mai immaginato di incontrare, e ci regala emozioni che non avremmo mai pensato di provare.
Il romanzo prende vita dalla storia di Alessandro, un giovane adolescente che scalpita e rifiuta le regole che equilibravano la vita di un piccolo centro di provincia e addirittura alle soglie degli anni ’80 e ’90 e parte da una storia d’amore che, alla fine di un’estate che sembrava oramai segnata alla rassegnazione del nulla, invece, è destinata a segnare tutti i successivi anni e soprattutto le successive scelte. L’adolescenza è, per natura, un periodo di transizione tra l’infanzia e l’età adulta, scandito da nuove amicizie e prime esperienze sentimentali, tra cui la scoperta dell’amore.
E’ un susseguirsi di emozioni e sensazioni e che nel futuro porteranno Alessandro a determinare le proprie decisioni negli anni a seguire.

Perché ho scritto questo libro?

E’ una storia che ha preso corpo dopo una rimpatriata con vecchi amici con i quali abbiamo ricordato la spensieratezza dell’adolescenza e di come era bello ritrovarsi alla panchina senza appuntamenti né cellulari ed un racconto per far conoscere ai giovani d’oggi com’era semplice ma piena di emozioni la vita di allora. Una narrazione che vive e si snoda tra ricordi e passioni non solo personali ma che possono essere ricordi di qualsiasi ragazzo e ragazza di quei meravigliosi anni.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

Ci siamo, un’altra estate spensierata sta passando, siamo alle porte di settembre, il caldo e l’afa di quell’agosto dell’87, sta lasciando il posto alle miti giornate autunnali. La campagna si colora di tante sfumature del marrone e del verde. Siamo in collina, ma non distanti dalla brezza marina. Dal punto più alto del “Monte della Vergine”, così si chiamava in quanto c’era una grossa roccia che ricordava il volto della Madonna, si intravede uno scorcio di tirreno. I bambini, si lasciano alle spalle l’estate passata in strada a giocare tutto il giorno, e le sagre e le feste paesane fanno spazio al lavoro nei campi.

Poche, oramai, le persone rimaste in paese, in molti, si sono già trasferiti in città. La malinconia dei giorni passati prevale sull’euforia che era stata compagna di vita e di gioco fino ad allora.

650 metri sul mare, freddo d’inverno e caldo d’estate. Alle porte, circa 20 i chilometri, dalla città verso l’entroterra ed una quarantina dal mare sull’altro versante. Meta soprattutto di seconde case, in un’Italia che cresceva, sperava, che voleva, desiderava e che prosperava.

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Per tutti i bambini, era considerato il paese dei balocchi. Giochi, spensieratezza, giornate in strada passate con gli amici, con i quali condividere ore degne del racconto del pinocchio di Collodi.

Un paese con una piazza centrale e la chiesa a spiccare sulle altre abitazioni alla quale si arrivava percorrendo un viale alberato con marciapiedi disseminati di panchine dalle quali era possibile anche ammirare il panorama delle variopinte campagne e dei monti circostanti. Sul punto più alto poi, si apriva uno scenario emozionante, si riuscivano a vedere, nelle giornate di tempo sereno, fino a tre Regioni. Un bar tabacchi, frequentatissimo, una pizzeria ed un piccolo market e null’altro. Insomma un piccolo paese di provincia con il minimo indispensabile per poter sopravvivere alle necessità quotidiane, per altre necessità, come abbigliamento ed altro bisognava spostarsi in città.

Una terra nella quale erano ancora ben visibili i danni del sisma del 23 novembre del 1980 dove si vedevano ancora case diroccate e macerie.

Un paese ancora fortemente legato alle tradizioni contadine, nel quale si vedevano ancora le donne anziane vestite di nero col fazzoletto in testa e gli uomini con il bottoncino listato a lutto anche se passato anni e anni prima.

Ritmi di vita semplici, genuini, dove quando si incontrava, soprattutto una persona anziana, c’era un saluto doveroso e a volte affettuoso. Per non parlare se si incontrava il prete. Il nostro in particolare era un Monsignore, oramai anziano, ma con una vitalità degna di un ventenne. Guidava e gli piaceva organizzare partite di calcio, rassegne cinematografiche e gite al mare o in montagna, piuttosto che a siti storici non molto lontani dal nostro paese. La domenica in particolare tutti dovevamo andare alla messa, quasi come se stessimo a scuola, il parroco dall’altare faceva una sorta di appello silenzioso, solo guardando chi era e chi non era presente tra gli scranni e questo valeva sia per i giovani che per gli anziani. Un ciclo scandito dalla routine oramai consolidata nella consuetudine e nel corso dei decenni.

Ma, quell’estate qualcosa in noi era cambiato. Fino all’anno precedente, infatti, pensavamo solo a giocare a calcio o a costruire le “carrozzelle”, pseudo macchinette fatte in legno lei cui ruote erano cuscinetti delle automobili, e per i più fortunati, quelli dei camion, per poi fare incoscienti e pericolose gare lungo le ripide discese del paese.

Nella stagione fredda, lunga e con le giornate corte, la vita di noi ragazzi era abbastanza monotona. Oltre la scuola o i compiti ci restava ben poco tempo da dedicare allo svago. Quando nevicava, invece, e tutto il mondo diventava bianco e ovattato, la musica cambiava. Si iniziava la mattina presto e tra le urla delle mamme eravamo in strada vestiti alla meglio maniera per proteggerci dal freddo.

E con l’incoscienza dell’età ci lanciavamo da una ripida discesa con sotto al sedere le buste nere dell’immondizia.

Ma, per noi tutti, quei caldi mesi estivi, segnarono il periodo del passaggio dalla pubertà all’adolescenza, con i primi “calori” che dalla fantasia cercavano di diventare realtà.

Era un paese nel quale, in estate, ritornavano tutti coloro che, sia per lavoro che per necessità erano andati via a cercar fortuna. Gente che aveva formato una famiglia, lontana da quel grigiore mentale che ancora regnava. Idee più aperte, dove le ragazze, non dovevano indossare il “velo”, senza curarsi delle dicerie delle vecchie megere e, i ragazzi, vestiti alla moda, conquistavano facilmente le nostre compagne di gioco.

Avevano appena finito di asfaltare la “carrozzabile”, una strada che, prima mulattiera, asserviva un nuovo “quartiere” sorto all’indomani del terremoto dell’80. Senza lampioni, completamente al buio era il posto perfetto di noi ragazzi per scambiarsi i primi baci e fumare le prime sigarette, nascosti agli occhi indiscreti della gente e della malelingue.

E poi, c’era il nostro punto di ritrovo: la panchina.

Una seduta in legno che stava lì da chissà quanto tempo, che dava le spalle alla strada e dalla quale si poteva ammirare il panorama, protetta dal sole da abeti secolari.

Alberi che se avessero avuto la possibilità di parlare probabilmente avrebbero raccontato chissà quante storie dei giovani che negli anni si erano fermati all’ombra di quei rami e, che come noi si raccontavano storie, sghignazzavano e si pavoneggiavano facendosi grandi per aver fatto qualcosa in più rispetto agli altri.

Ma ancora prima, le giornate passate in riva al mare. Dove, per la prima volta, tutti in costume, guardavi con sguardo diverso le ragazze che fino ad allora erano state solo compagne di gioco. Il primo accenno di seno e l’apparire della peluria sotto le ascelle, insomma, quasi come un microscopio, notavi ogni piccolo cenno di femminilità. E la cosa, ci agitava.

Una giornata come tante. Il risveglio con latte e biscotti, come se dovessi andare a scuola. Vestito di fretta, costume ed asciugamano, corro fuori. Ad aspettarmi c’erano già gli amici.

Tutti più o meno coetanei, dai 15 ai 17 anni. C’ero io, Alessandro. Poi Alfredo, Giovanni, Antonio e Vincenzo. C’erano anche Laura, Virginia e Veronica. Virginia e Veronica erano mie cugine e venivano da Milano, dove i miei zii si erano trasferiti tanti anni prima per lavoro. Antonio e Vincenzo erano di Napoli e tornavano anche a Natale e Pasqua e qualche fine settimana, alla fine, Napoli era relativamente vicina. Laura, Alfredo, Giovanni eravamo del paese e ci vedevamo sia d’estate che d’inverno. Ogni tanto, si univa al gruppo anche Pasquale un ragazzo che veniva da Cassino, figlio di un poliziotto penitenziario che ritornava solo un paio di settimane all’anno.

Pronti ad affrontare la giornata, decidemmo di fare una gita in riva al mare e vedere se c’era ancora qualcuno. Tutti in sella ai motorini, ovviamente preparati, percorremmo i 40 chilometri che ci dividevano dalla spiaggia e dai nostri sogni erotici di adolescenti.

Giunti sulla spiaggia, però, eravamo a fine agosto non erano in molti e soprattutto c’erano poche ragazze e quindi ci buttammo subito in acqua. Giochi con la palla e scherzi stupidi, fecero passare il tempo. Ritornati in paese, per niente stanchi della giornata balneare, andammo verso la panchina per continuare a sognare e a raccontarci di quello che avremmo fatto o voluto fare.

Il giorno successivo, era tardo pomeriggio, un po’ come a ripetere sempre le stesse cose, andammo verso il campetto di calcio, in terra battuta, affannosamente costruito da noi ragazzi, dove poter dare quattro calci ad un Super Santos e giocare delle partite come se fossero i mondiali di calcio imitando i nostri campioni preferiti.

Nel piccolo fazzoletto di terra a ridosso del campetto, trovammo un’inaspettata sorpresa: un piccolo accampamento con un paio di tende canadesi con all’esterno un tavolino allestito alla meglio: erano tre ragazze francesi, di Parigi, universitarie della Sorbona, scoprimmo dopo. Cercammo un goffo approccio che però sembrò piacere. Nel mio francese “scolastico” facemmo conoscenza, Brigitte, Valentine e Yasmine. Sicure, audaci, loro. Noi, invece, avevamo una paura fottuta, nella nostra goffaggine dettata dalla ristretta mentalità paesanotta.

Valentine, bionda con capelli gialli come il sole, occhi azzurri come il mare, seni come se fossero promontori appena scolpiti, un sedere che sussurrava: “sono meraviglioso”. E poi Brigitte, un po’ più in carne, ma con un seno prosperoso, una quarta sembrava e poi Yasmine, incantevole, dolce, esile, ma dalla sinuosità e dalle curve uniche e con capelli lunghi e neri, un po’ come la principessa di Aladino nel libro “Mille e una notte”.

Quella sera scoprimmo il significato della bellezza, di quella bellezza che vuole, che sa, che dispone, che dice e che osa. E noi poveri cafonciotti, ai loro piedi, ad elemosinare chissà che cosa, beh per la verità elemosinavamo uno sguardo compiacente e magari un bacio di quelli alla francese: con la lingua. Loro, invece, cercavano solo come passare la serata, farsi due risate e scroccare da bere.

Oramai si era fatta l’una, dovevamo rientrare, e ancora tra una vodka e l’altra le francesi perdevano tempo a chiacchierare. Senza un nulla di fatto, ma con un vortice di sensazioni, non solo mentali, ma soprattutto ormonali, e con un bel mal di testa, ritornammo a casa.

L’indomani mattina, ancora presi e persi dalla e nella sera prima, corremmo in quel fazzoletto di terra che fino a quel momento avevano immaginato solo come angusto e triste, ma che in una notte di luna piena si era trasformato nel giardino dell’Eden, convinti di trovarle come Eva coperte solo da foglie di fico ed invece, l’amara sorpresa: le ragazze non c’erano più. Un senso di tristezza, ma soprattutto di perdita di una possibilità: quella di poter assaporare quel bacio tanto sognato.

I bollori estivi ancora non passavano, ma le francesine oramai erano ripartite per continuare il loro viaggio, e noi, fattacene una ragione cercavamo di non pensarci e tornati alle nostre abitudini, cercando svaghi diversi, quasi bambineschi.

Un pomeriggio, ancora afoso, di fine agosto, seduti sempre sulla panchina che ci ha visti amici inseparabili per una intera stagione, vediamo arrivare una macchina con targa straniera. Una Ford modello Scorpio, enorme, il doppio di quelle che circolavano per le strade del paese. La direzione era quella della piazza e guardandoci l’un l’altro, senza parlare, ci chiedevamo chi potessero essere.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Riccardo Tiso
Sono giornalista pubblicista dal 2003 e dal 2000 ho collaborato con varie testate giornalistiche, quotidiani, settimanali e mensili, direttore responsabile di due testate e responsabile di due uffici stampa. Nel 2007 mi sono laureato con 110/110 in Scienze della
Comunicazione alla L.U.M.S.A. di Roma.
Carriera giornalistica:
Direttore Responsabile del mensile “La Fiera dell’Est” e “L'Eco del Pensionato”. Redattore per le pagine di Tivoli del settimanale del nordest di Roma, “Tiburno”;
Conduttore di rubrica all’interno di due trasmissioni, “Pomeriggio 7” e “Buon Anno”, in onda su un'emittente televisiva locale “TV7”
Collaboratore per la città di Tivoli del quotidiano “Nuova Guidonia Oggi” e “Il Sannio Quotidiano”.
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