Il volo domestico per il North Carolina doveva ancora decollare.
Premetto che non c’è luogo migliore di un aeroporto per dedicarsi alla ricerca di notizie.
Detto questo, mi colpì un articolo di giornale che richiamava un fatto accaduto all’incirca durante il mese di Novembre, 1999.
Spinto dalla curiosità, incominciai a cercare online, tutto il materiale possibile al riguardo.
Mi ricordo di aver letto storie e critiche di ogni tipo ma una sola mi colpì a tal punto da farmi pensare di approfondire la questione.
Due rami della stessa famiglia, rivendicavano un decisivo test del DNA per provare la loro illustre discendenza. Entrambi avevano sempre tramandato, oralmente, la storia per cui sarebbero stati imparentati con uno dei personaggi più illustri della storia americana: uno dei fondatori della Nazione.
Ciò che le due signore stavano cercando di provare, avrebbe potuto riscrivere alcuni secoli di storia; per non parlare delle innumerevoli cause sui diritti sociali che questo avrebbe comportato.
Un nome mi spinse più di tutti a scrivere: quello dell’illustre, e presunto, antenato.
Da quando lessi il primo libro di Clive Cussler, riguardo alle avventure di Dirk Pitt, mi sono sempre appassionato di storia americana, soprattutto quella riguardante la fondazione degli Stati Uniti.
Seppur non mi ritengo uno storico in alcun modo, ho pensato di provare a dipingere un lato nascosto e dibattuto della storia del Nuovo Mondo.
Quando si vuole conoscere qualcosa, prima ancora di partire con ricerche estenuanti e trattati, cercate un semplice riassunto magari scritto anche da una persona non autorevole sull’argomento. Potrebbe lasciarvi dei dubbi da cui iniziare veramente a cercare la verità senza alcun pregiudizio.
Prima di trarre una qualsiasi conclusione su quello che verrà presentato nei prossimi capitoli, vi auguro di affrontare la lettura con lo stesso spirito descritto da Enrico Fermi.
“Ero giovanissimo, avevo l’illusione che l’intelligenza umana potesse arrivare a tutto. E perciò m’ero ingolfato negli studi oltre misura. Non bastandomi la lettura di molti libri, passavo metà della notte a meditare sulle questioni più astruse.” (Enrico Fermi)
Mount Vernon – Ore 7:00 pm
Il sole stava lasciando il posto alle prime stelle.
Le pagine bianche ancora disponibili erano poche mentre l’inchiostro abbondava nel calamaio.
“La cena è quasi pronta Signore” avvisò una voce in lontananza.
George Washington posò la piuma sul cuscinetto in pelle.
“West quante volte dovrò dirti di non chiamarmi Signore?” urlò quasi divertito.
Nessuna risposta.
Ritornò sulle sue parole.
Era stanco.
Il gelo della tormenta di neve di quel dicembre era di gran lunga il peggiore registrato negli ultimi decenni.
Correva l’anno 1799 e il presidente stava trascorrendo l’inverno a Mount Vernon.
Pochi giorni prima, dopo essersi avventurato per la tenuta durante una tormenta ghiacciata, aveva riportato gravi conseguenze per la sua salute.
In attesa di un’altra visita del medico di fiducia, aveva deciso di scrivere un memoriale.
Questa volta utilizzando il calamaio che era solito impiegare per dettagliare le campagne militari durante la guerra.
Era un simbolo che sottolineava l’importanza degli scritti: infatti era intenzionato a narrare qualcosa di cui nessuno era mai stato a conoscenza. Al di fuori degli amici di gabinetto, compagni di battaglie, la storia che avrebbe concluso quella sera, sarebbe rimasta celata per secoli.
Una seconda volta West, il fedele maggiordomo, lo avvisò della cena.
Decise di affrettarsi così da non dover ricordargli una seconda volta, o meglio la millesima, di non doverlo chiamare “Signore”.
Aveva sempre detestato la “riverenza” verso la sua etnia che la storia aveva tramandato ed imposto nei secoli. Durante tutta la guerra si era battuto per rendere più unito quel nuovo continente ma soprattuto libero dai pregiudizi. Il “locus amenus” dove iniziare una nuova vita.
Con fatica si alzò dalla pesante sedia in noce ed calzò le ciabatte da notte.
Prima di abbandonare la camera diede un ultimo sguardo al letto: la fioca luce invernale conferiva al piccolo giaciglio un’aria ghiacciata.
Prese la brace dal camino e la ripose ai piedi del letto.
Sorrise al pensiero del tepore di cui avrebbe goduto da lì a qualche ora.
Chiuse la porta e si avviò giù per le scale.
West lo stava attendendo assieme ad una graziosa donna di servizio. Teneva appoggiato al fianco un possente bastone con il manico intarsiato.
George Washington afferrò vigorosamente la sommità e ne percorse la protuberanza con le dita quasi stesse ripercorrendo un sentiero della memoria.
“Sai chi me l’ha donato questo appoggio, West?” sentenziò fissando l’amico con uno sguardo severo.
“Certo. Questa storia la conosco bene ormai. Sarò lieto di ascoltarla nuovamente” rispose sorridendo l’uomo.
La donna nel frattempo aveva provveduto a togliere la mantella in lana dalle spalle dell’anziano generale.
“Grazie Rachel” sospirò alleggerito il presidente.
Mentre la domestica gli allacciava la giacca rossa dell’esercito continentale i suoi occhi brillarono quasi fosse tornato giovane.
“Dunque, adesso ho di nuovo la veste per raccontarti di questo bastone West” sorrise sforzandosi di mettersi eretto.
Pur non essendo in forze e data l’anzianità, il suo fisico era ancora sufficientemente tonico da poter fare invidia a tutti i suoi colleghi di quell’età.
“Durante la nostra visita a George Town per incontrare la delegazione di Re Giorgio, fui accolto da una copiosa folla in allegria. Venni però attratto da un uomo molto più alto di tutti i cittadini: riconobbi subito dai lineamenti marcati e dalla carnagione olivastra che dovesse trattarsi di un nativo americano” fece un breve pausa per allacciarsi l’ultimo bottone dorato.
“Come stavo dicendo, vidi quell’indiano che mi guardava intensamente. Non sorrideva ma notai che i suoi occhi non erano colmi d’odio ma speranzosi di potermi parlare.
Non appena ci fermammo davanti al grande palazzo georgiano, cercai nuovamente quello sguardo. Lo ritrovai pochi passi dietro di me e mi avvicinai tra la folla. Mi corse incontro e s’inginocchiò ai mie piedi. Ne rimasi esterrefatto e altrettanto imbarazzato e così mi abbassai per aiutarlo ad alzarsi.
Fu a quel punto che mi porse questo glorioso bastone, sussurrandomi << La mia famiglia tramanda questo simbolo di attaccamento alla nostra terra da generazioni. Vorrei che fosse vostro in nome della generosa Madre Terra che assieme al grande spirito alato ci protegge >>”.
Washington dovette fermarsi per scaricare la stanchezza proprio su quel bastone.
“Non voglio raccontarti nuovamente che pochi anni dopo, grazie a quello strano incontro con quell’uomo, riuscii a far approvare la Costituzione degli Stati Uniti d’America. In effetti penso che quell’accordo, che presi con i nativi americani, fu’ determinante per la nascita del nostro Paese” rifletté con lo sguardo perso nella stanza.
West era sicuro di non aver mai sentito quella storia prima d’ora.
“Signore, mi permetto di ricordarle che non aveva mai fatto cenno a questo dettaglio della storia” chiese cercando di mantenere un atteggiamento distaccato.
L’anziano presidente non sembrava dargli più retta; i suoi pensieri erano lontani.
Riusciva ad intravedere in lontananza la tavola apparecchiata e difficilmente riusciva a distinguere alcuni dei suoi familiari che lo stavano aspettando.
Poco prima di giungere sulla soglia della grande sala si guardò intorno.
La servitù era andata via.
Era rimasto solo con West.
“West assicurati che il mio diario rimanga nascosto. Stanotte portalo via e non dirmi dove. Questo è il mio ultimo ordine amico mio” gli disse con con tono fermo quasi distaccato.
I due si guardarono per qualche secondo ed il maggiordomo fu piacevolmente colpito dal notare che in quel preciso istante il volto del generale si era totalmente disteso. Nessuna ruga e sembrava che fosse tornato indietro di almeno vent’anni.
“Promettimelo” si preoccupò di ripetergli pochi passi prima della tavolata.
“Te lo assicuro amico mio” gli sorrise.
Lasciò che George Washington si avviasse verso la sua famiglia da solo.
Lo osservò con lo stesso sguardo di un cacciatore quando vede sfuggire la preda.
Quella notte fece come gli era stato comandato.
Con una piccola lampada ad olio s’introdusse in camera da letto e con una rapida occhiata alla figura supina del presidente, prese il diario dalla scrivania.
Cercò di non far rumore chiudendo la porta dietro di sé.
A passo sostenuto si diresse in veranda noncurante del freddo e della neve.
Sedutosi sulla sedia a dondolo che era solito usare George Washington durante le ore calde della giornata, si avvolse in una confortevole coperta.
Esitò per qualche istante fissando l’oscurità poi tirò fuori dalla tasca il diario.
Facendosi luce con la lampada notò che la copertina in pelle era tagliata a metà dal laccio in corda che serviva da chiusura al manoscritto.
Sospirando lo slacciò.
Con grande sorpresa constatò che vi era appena un terzo delle pagine disponibili che era stato scritto.
Lesse di un fiato il contenuto.
Richiuse il tutto e lo ripose nella tasca sotto la coperta.
Nessuno, tranne l’oscurità avrebbe potuto descrivere l’espressione del suo sguardo.
Lo stesso sguardo caratterizzava il volto dell’ufficiale di colore, in piedi sotto il portico della dimora dei Lincoln.
Il giovane aveva il doloroso incarico di avvisare il figlio e la sua famiglia della morte di suo padre, il presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln.
“Signore sono Albert Sullivan Junior ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti” si presentò battendo l’uscio.
Il maggiordomo gli aprì.
“Ho un messaggio urgente per l’avvocato Lincoln” si presentò il soldato.
Ancora prima che il maggiordomo potesse rispondergli, un uomo molto alto si materializzò al suo cospetto.
“Sono Robert Todd Lincoln, mi segua in salotto” esordì per poi fargli strada.
“Con permesso” disse timidamente Albert.
La casa era ricca di cimeli di guerra e le foto del presidente assieme alla sua numerosa famiglia riempivano la parete sopra il camino.
“Cosa è venuto a comunicarmi sottufficiale Sullivan?” interruppe il silenzio Robert Lincoln.
Per la prima volta gli tremavano le mani. Riusciva a percepire il sudore sotto i guanti bianchi.
Cercò la prima zona d’ombra lontano dalla finestra per cercare conforto dal caldo.
“Quindi?”si affrettò a richiamarlo alla questione.
“Signore mi duole informala che suo padre, il presidente degli Stati Uniti è stato assassinato questa notte” si affrettò a pronunciare con il tono più sommesso possibile.
La reazione del figlio non fu come si aspettava. Rimase per qualche secondo impietrito a fissare la parete dietro l’ufficiale, oltrepassando la sua figura.
Poi si sedette lentamente sulla poltrona mantenendo lo sguardo fisso sullo stesso soggetto.
“Grazie sottufficiale Albert Sullivan. Può andare” si limitò a rispondere indicandogli la strada per la porta.
In un primo momento il giovane soldato non seppe né cosa rispondere né dove andare.
Avrebbe voluto consolarlo o in qualche modo scambiare qualche parola di cordoglio ma lo sguardo del figlio del presidente non lasciava trasparire nessun sentimento. Decise di rimettersi il cappello così da poter accennare un gesto di congedo.
In quell’istante Robert Lincoln lo fissò e gli rispose con una smorfia sul viso.
Ancora scosso il soldato rivolse le spalle al giovane Lincoln e si diresse verso l’uscita.
Dopo aver chiuso da solo la grande porta bianca dietro le sue spalle, sospirò.
Scese i gradini, percorse il viale e raggiunse la carrozza che lo aveva accompagnato pochi minuti prima.
“Signore ho il permesso di partire?” chiese il giovane soldato semplice alla guida.
“Vai Stephan” disse Albert accompagnando quelle due parole con un gesto sconsolato della mano.
Il ragazzo non aveva mai sentito un suo superiore utilizzare un tono informale durante il servizio e per questo non mosse la carrozza. Esitò qualche istante e decise di non chiedere spiegazioni ma di tenere per se quel complimento.
“Dunque soldato?” fece eco la voce del suo superiore.
Quasi ridestato dal comando mosse le redini e i due cavalli spinsero il cocchio lungo il viale alberato della città di Manchester.
Rimasto da solo tra le pareti della carrozza, Albert Sullivan si sforzò di capacitarsi dell’assassinio del presidente Lincoln.
Aveva sempre sostenuto le sue idee politiche e per questo slancio ed attenzione al fenomeno della schiavitù, dimostrato più volte da Abraham Lincoln, che qualche anno prima si era arruolato nell’esercito. Voleva servire un comandante che fosse degno di questo nome.
Quel giorno era di congedo ma aveva comunque chiesto di poter riferire il messaggio dato il suo attaccamento verso la famiglia Lincoln.
A breve la carrozza lo avrebbe riportato a casa sua, dove suo padre gli avrebbe sicuramente fatto un interrogatorio degno di questo nome per cercare di capire sia chi ci potesse essere dietro il delitto sia come avesse reagito Robert Todd Lincoln.
Si slacciò l’ultimo bottone della divisa e sporgendo leggermente il viso fuori dalla finestra della carrozza, fece un grande respiro.
La ventata di ossigeno gli diete un po’ di energia e i sintomi di svenimento si allontanarono.
Raramente si era trovato in condizioni d’incertezza, nemmeno durante gli assalti nelle piantagioni del sud aveva vacillato come qualche istante prima.
Non si curò neanche dell’ordine dei giardini di fronte alle nobili ville di periferia ma continuò a preoccuparsi della sorte del suo paese ora che, senza la guida del nobile Presidente, il tema costituzionale della libertà degli schiavi di colore si sarebbe trovato nuovamente in bilico.
Meno di un anno prima, con la firma dell’Immigration Act, Abraham Lincoln aveva concluso la sua missione di gettare le basi per “aprire” gli Stati Uniti al mondo.
Il suo assassinio aveva le vesti di un ultimo rifiuto alla volontà di celebrare la libertà da parte degli stati del Sud.
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