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Luce sporca

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Consegna prevista Agosto 2026
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Nella Roma degli anni ’90, Riccardo vive intrappolato tra le ombre delle proprie dipendenze e il bisogno disperato di sentirsi vivo.
Ogni sguardo riflesso nello specchio gli restituisce un volto diverso, segnato da amori tossici, silenzi e promesse non mantenute.
Ma nel caos dei giorni, tra le strade consumate e le notti che non finiscono mai, qualcosa in lui comincia a mutare: una scintilla sottile, fragile, che lo invita a risalire.

Non è una storia di eroi, eppure lo è.
Perché ogni volta che Riccardo sceglie di salvarsi, di affrontare la vertigine senza fuggire, compie il gesto più coraggioso di tutti: quello di restare.

Un romanzo che attraversa il buio delle dipendenze — da sostanze, da affetti, da se stessi — e ne cerca la luce.
Una storia di cadute e rinascite, di dolore e bellezza, di chi ha imparato che la vera libertà non è fuggire, ma perdonarsi.

Perché ho scritto questo libro?

Perché penso che ognuno di noi abbia delle dipendenze di qualsiasi tipo.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Capitolo 1

Era la fine degli anni novanta, la vita pulsava come una promessa verso la speranza. Eravamo una generazione d’illusi o forse … dì disperati. Non mi mancava niente: provenivo da una famiglia benestante, ero bello come il Dio Apollo e cavalcavo la giovinezza dei miei vent’anni. I miei volevano che continuassi la tradizione di famiglia, che diventassi anch’io un avvocato ma, dopo la maturità classica scoprii la facciata di un mondo che ancora non conoscevo. Una facciata fatta di perversione, di rischi e di eroina. L’unica cosa che mi teneva ancora legato al mio vecchio mondo era Laura, la mia ragazza.

Continuavano a ripetere a me stesso che avevo perso la strada, che il passo per raggiungere il podio del fallimento era prossimo. Il reale problema erano le aspettative. Troppe aspettative riposte su dì me …

I miei genitori, Laura, il mondo che abitavo … tutti sì aspettavano da me qualcosa. Tutti volevano che diventassi un fenomeno. Nessuno di loro si è mai messo nei miei panni. Mai una carezza da parte di mio padre, mai un come stai. Forse quei piccoli gesti avrebbero fatto la differenza. Come vi dicevo … le aspettative erano alte. Così andai alla ricerca dell’unica cosa che non mi avrebbe chiesto niente in cambio, che non mi avrebbe mai giudicato, l’unica cosa che avrebbe azzerato i pensieri … tutto questo portava un nome: eroina.

Era come se il tempo sì ibernasse, la mia condizione umana prendeva un senso ai miei occhi. Alla fine non era altro che una condizione sociale, una sorta di etichetta: ci sono gli avvocati, le puttane, i froci e i tossicodipendenti. Io rientravo nell’ultima categoria. Nessuno, ma dico nessuno riusciva ad andare oltre, a vedere l’essere umano, la società ci ha messo davanti delle etichette e, tutti quanti noi ne portiamo una. Accadde tutto così in fretta che non ricordo neanche come mi ci sono imbattuto, ricordo solo che avevo bisogno di evadere dalla realtà, di trovare un posto immaginario nel mondo dove potermi riconoscere come essere umano e non come Riccardo, figlio di Tommaso e Tina i due avvocati più tosti della capitale, o come Riccardo il fidanzato della bella Laura. Sì, ho sempre avuto l’anima vagabonda e un cuore troppo grande per una vita che non avevo scelto. Dicono che la vita sia il dono più bello, ma, negli anni della mia tossicodipendenza vedevo questo dono come una condanna.

Iniziai a frequentare i borghi più malfamati di Roma, la mia gente era quella ormai. Ero sempre più lontano dalla mia famiglia e da Laura. In quel mondo fatto di droghe e di volti che ostentavano disperazione non avevo bisogno di essere qualcuno, potevo essere semplicemente Riccardo: il ragazzetto della Roma per bene che aveva perso la via e, che, stava cercando in mezzo a quella folla di disperati una nuova famiglia; anche se ogni giorno la famiglia era diversa. Era il 1997, gli Oasis erano usciti da poco con Champagne Supernova, divenne la colonna sonora delle mie sballate migliori. La ascoltavo a ripetizione, il walkman prese il posto del cellulare. I primi cellulari. Dove il massimo che potevi fare era chiamare o meglio fare gli squilli e mandare i messaggi. Niente di più. Non volevo essere cercato da nessuno, volevo soltanto saziarmi della mia stessa solitudine. Non avevo bisogno di compagnia, la mia compagna era l’eroina e, a volte, quando stavo preso bene parlavo con uno dei miei fratelli, altrimenti c’ero soltanto io con le mie siringhe e un laccio emostatico improvvisato.

I miei erano disperati, non sapevano cosa mi stesse succedendo, non avrebbero mai potuto immaginare che io, Riccardo, il loro figlio perfetto, poteva avere a che fare con un mondo così lontano da quello in cui sono stato cresciuto. Ma col tempo, i sospetti iniziarono ad aumentare: la scarsa igiene … la mia rabbia che ogni giorno cresceva sempre di più. Avevo chiuso i rapporti con quasi tutti i miei amici, anche con Laura mi vedevo poco e niente, diciamo che stavamo insieme soltanto quando avevo bisogno di svuotarmi le palle. Non contava più niente per me, vedevo ogni cosa come un quadro imperfetto che non faceva altro che ricordarmi che su quel podio alla fine c’ero salito. Ero arrivato a un punto di non ritorno. I miei mi tolsero tutte le carte di credito, mi urlavano contro e, quelle poche volte che ero in me quelle parole, facevano male al cuore. Mio padre al posto mio assunse una ragazza come segretaria nel suo studio legale; aveva capito che su di me non poteva fare più affidamento. Non mi era rimasto niente, non mi era rimasto nessuno. L’unica che ancora era aggrappata alla speranza che io tornassi in me era Laura. Stavo scoprendo un nuovo Riccardo, questo un po’ mi spaventava ma, nonostante tutto … quel tempo ibernato mi faceva stare bene. La tossicodipendenza con sé porta anche il vizio del furto e, il volume delle bugie diventa sempre più alto che quasi quasi inizi a crederci anche tu alle cazzate che racconti. In casa i conti non tornavano, le mie mani erano diventate così veloci che Lupin non era niente a confronto. Sapevano che quei soldi gli prendevo io, ma per pudore forse più mio che loronon dissero mai niente. Sì limitarono a depositare tutto in banca e ciò che serviva per il vivere quotidiano lo portarono nel loro studio.

Cosi … iniziò ufficialmente il mio inferno. Un inferno che sicuramente può essere dì qualsiasi altra persona, ma questo era il mio.

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Dopo aver scoperto dei miei furti, per una settimana non riuscii a recuperare la mia compagna di viaggio. Per compensare la mancanza iniziai a prendermela col mio corpo. Sentivo prudere da ogni parte, specialmente sulle braccia, mi grattavo così forte e con cosi tanta rabbia che senza che me ne accorgessi, avevo le dita imbrattate del mio stesso sangue. La dipendenza dall’eroina divenne ancora più forte proprio nella settimana in cui non potetti farne uso. Dovevo in qualche modo fare soldi, ma tutte le alternative più dignitose come un semplice lavoro non andavano bene. Iniziai a prostituirmi. Il mio culo divenne un mappamondo da sfondare e da prendere a schiaffi, la mia bocca una bestemmia troppo ingombrante e i miei palmi recipienti di piccoli spermatozoi andati a farsi fottere. Mai, e dico mai, avrei pensato di poter arrivare a questo, di vendere il mio corpo per una sostanza. Non ero connesso, o meglio lo ero, ma in modo differente. Era una connessione senza fondamenta, una connessione che non mi faceva sentire sbagliato e, non potevo farne a meno. Continuavo a ripetere a me stesso che se il prezzo per la pace era vendere il corpo andava bene così. Pace, è esattamente ciò che provavo dal primo momento, da quando iniziavo a spingere l’ago dentro di me. Per il mondo eravamo visti come dei mostri, delle persone stupide, invece eravamo come loro: drogati sì, ma pur sempre esseri umani.

Paradossalmente da quando iniziai a vendere il mio corpo, riuscivo ad averne molta di più rispetto a prima.

Era una sorta di potenza, niente poteva scalfirmi, ogni cosa aveva paura a entrare, specialmente i sentimenti. In un corpo perennemente in estasi non avrebbero potuto mettere in scena l’atto conclusivo del dolore. Gli effetti dell’eroina erano anche indesiderati soprattutto sul mio corpo: persi peso in maniera molto evidente, i denti non avevano più lo smalto di una volta e le mie braccia erano diventate una mappa del tesoro. Ero diventato uno zombie, vivevo solo e soltanto di notte. Il giorno mi spaventava, odiavo il calore del sole, non riuscivo a sentirmi parte di niente, mente la notte era casa. Per coprire le braccia andavo in giro con maglioni di due taglie più grandi, ormai ero sciatto, così sciatto che a volte anch’io faticavo a riconoscermi. Il mio sguardo era spento, il mio viso era prosciugato da una condizione che sì avevo scelto io, ma di riflesso a un mondo che invece di accarezzarmi continuava a darmi sberle sempre più forti. Per noi sensibili cadere e diventare dipendenti da cose che arrivano al punto di controllarti non è poi così difficile. L’alternativa sarebbe stata morire, ma fortunatamente non avevo ancora raggiunto un livello di cinismo e di egoismo così alto.

Le urla a casa divennero sempre più forti, i miei erano disperati. Mia madre non faceva altro che piangere, mio padre iniziò a non tornare neanche per pranzo, rincasava direttamente la sera. Forse vedeva quel luogo che prima era casa di nome e di fatto come una gabbia piena di lamenti e di bestemmie rotte. Io ero noncurante verso tutto questo, avevamo vite diverse ormai. Laura continuava a chiamarmi e a presentarsi sotto casa nella speranza di potermi parlare, ma ogni giorno andava via sempre più rotta … ormai in frantumi. Sapevo che parlava con mia madre, che sì sentivamo telefonicamente. Molte volte la disperazione se divisa fa meno male. Ed è esattamente questo che facevano.

Una sera Roma piangeva come non faceva da tempo, forse era un modo per restituirmi quelle lacrime che non versavo più da molto tempo ormai. Dopo il lavoro e dopo averla comprata, mi fermai a prendere una birra, il cielo continuava a piangere sempre più forte, quella sera dimenticai il walkman a casa, e fu la cosa più sbagliata che potessi fare. Nonostante l’eroina in circolo, la testa per qualche assurdo motivo rimase aggrappata alla vita e alla realtà. Sui cocci delle strade si erano formate delle pozzanghere molto grandi, ero in viaggio ma con un piede ancora in questo fottuto mondo. Se con me avessi avuto il walkman forse quello che sto per raccontarvi non sarebbe mai successo. Per compensare, iniziai a canticchiare in maniera molto stonata e discutibile Champagne Supernova mentre osservavo il mio riflesso in quelle pozzanghere. Di Riccardo ormai non era rimasto quasi più niente, quel riflesso, quello specchio donatomi dal cielo rifletteva un disperato che dei suoi vent’anni non aveva più niente se non il ricordo. Era come se il processo biologico per me avanzava e funzionava in maniera diversa. Iniziai a piangere e questa volta non era Roma, non era il cielo … ero io. Mi feci un’altra dose e iniziai a incamminarmi verso casa di Laura. Ogni passo che facevo sembrava che stessi calpestando la vita … l’amore.

Era quasi arrivato il Natale, le strade di Roma erano abbellite da luminarie, qualche gruppetto di ragazzi era radunato in un parco a cantare le canzoni di Venditti accompagnate da una chitarra un po’ scordata che solo uno del gruppo era in grado di suonare. Quelle voci, quella melodia, quelle paroleavrebbero dovuto scaturire dentro di me qualcosa, dato che anche io con i miei vecchi amici cantavo le canzoni di Antonello. Ma niente. Nessuno schiaffo al cuore. Rimasi a guardare quella scena con l’espressione di quando vai a un funerale: non sai cosa dire, non sai cosa pensare. Vuoi soltanto chiudere gli occhi e aspettare che quel momento finisca e con esso tutto il dolore. Uno dei ragazzi sì accorse che gli stavo guardando, potevano avere la mia stessa età, forse soltanto un anno in meno rispetto a me, ma per il mio mutamento così repentino non dimostravo più la mia età. Sembravo un quarant’enne e la mia tossicodipendenza ormai era visibile a tutti.

Quel ragazzo mi chiese se volessi unirmi a loro. Non risposi. Rimasi fermo come un ebete. Il ragazzo continuò a guardarmi ancora per un po’, aspettava una mia risposta … risposta che non arrivò mai. La notte anche quella sera mi salvò, se avessi avanzato verso di loro la luce dei lampioni avrebbe rivelato il mio vero aspetto e, invece di un invito mi sarei trovato un calcio nel sedere e qualche offesa gratuita nel mese in cui l’umanità dovrebbe essere più clemente … più buona. Nonostante tutto rimasi ancora un po’ a guardare quel quadro così umano e innocente che la vita mi aveva messo davanti. Stavano cantando “Ricordati di me”… la mia preferita. Forse anch’io stavo cercando la città di quella canzone. Una città dove gli uomini sanno già volare. E se anch’io avevo aspettative alteverso la vita? Se sono state proprio quelle aspettative mancate a farmi ridurre così? Non ci stavo capendo più niente. Era la prima volta in cinque mesi che l’eroina non faceva il suo dovere al cento per cento. Ero fragile, vulnerabile, stavano riaffiorando le paure, i sogni e le speranze di un ragazzo che era rimasto seduto su quella sedia a discutere di esistenzialismo prima di sentirsi addosso un’altra etichetta … l’etichetta del ragazzo che ha passato la maturità col massimo dei voti. Iniziai a scappare, per quanto le mie poche forze mi permettevano.

Stavo per ricevere quello schiaffo al cuore.

Ero diventato un fottuto tossico del cazzo. Nessuno ancora mi aveva messo addosso questanuova etichetta. Per la prima volta fui io a etichettarmi e no la società. Non capivo perché i miei e Laura ancora non mi avessero detto niente.Impossibile che non se ne fossero accorti. Forse pronunciare ad alta voce qualcosa l’avrebbe resa reale a tutti gli effetti e, forse loro, non erano ancora pronti ad accettarlo.

Laura abitava nelle zone di Trastevere, una delle zone di Roma che amavo di più. Dentro di me qualcosa stava lottando per farsi strada, ma l’eroina cercava di tenerla a bada. Avevo il fiatone, le mani appoggiate sulle ginocchia mentre cercavo di ristabilire la mia respirazione. Le labbra erano diventate viola per il freddo, i capelli mi coprivano quasi gli occhi e dell’effetto dell’eroina ormai era rimasto ben poco dentro di me. La durata è relativa in base al soggetto e non solo, il corpo arriva a chiederne sempre di più.

Erano le due di notte, Roma era avvolta nel silenzio e nella quiete. Non potevo suonare, avrei svegliato tutti, per fortuna Laura abitava al secondo piano, e con qualche sassolino non sarebbe stato difficile attirare la sua attenzione. Il primo, il secondo, il terzo, il quarto … voli pindarici di un’esistenza che ormai faticava a restare a galla. Fortunatamente dopo il quarto tentativo qualcosa si mosse, la luce si accese. Vidi Laura sbucare da dietro la tenda in maniera meticolosa, e quando vide che ero io … nel suo volto la felicità, la stessa felicità che negli anni precedenti riuscivo a regalargli. In un battito di ciglia era davanti a me nel suo maglione gigante, i capelli ribelli che gli accarezzavano le spalle e i suoi occhi verdi come la famosa luce verde oltre il crepuscolo del grande Gatsby. Restammo in silenzio, quante cose avrei voluto dirgli, ma come fai a spiegare a un cuore puro cosa significa smettere di vivere? Non trovavo le parole e forse nessuna parola sarebbe stata di aiuto in quel momento. Mi limitai ad abbracciarla senza stringerla troppo, avevo paura di spezzarmi. Finalmente dopo cinque mesi sentivo il calore umano, ma non un calore umano qualsiasi, ma bensì, il calore di chi ti ha amato e forse ti ama ancora.

Sapevo di avere un cattivo odore, di essere sporco siadentro che fuori, ma non mi disse niente. Laura sapeva.

Le nostre labbra si sfiorarono nel preludio di un bacio che ci avrebbe uccisi. In quel momento smise di piovere. Dopo quel bacio ci guardammo per un tempo indefinito, un tempo quasi eterno. Pianse, piansi. Facemmo l’amore mentre le lacrime continuavano a scendere. Fu un amore muto, con gli occhi rivolti verso punti fermi che non ci dicevano niente. Se ci fossimo guardati non sarei stato capace alasciarla andare. Sapeva anche lei che quello era un addio, dovevo salvarla … almeno a lei. Mi permise di venirgli dentro, e in quel gesto percepii tutto il suo amore. Fai bei sogni le dissi e, andai via.

Era tutto buio attorno a me e dentro di me. Il cuore lacerato, il respiro sempre più pesante. Stavo tornando vulnerabile, fragile … vivo. Ma tutto questo non potevo più permettere che accadesse. Significava dover fare i conti con i mostri che mi abitavano dentro. Laura, Laura, Laura. Nella mia testa rimbombava solo e soltanto il suo nome. L’amavo ancora, ma non potevo trascinarla in quell’infermo che era soltanto alle prime battute. Girai in una strada chiusa senza luce, totalmente buia. C’era un vecchio materasso buttato in un angolo. Mi sedetti. Le mani tra i capelli, i denti che ringhiavano, la disperazione stava prendendo il sopravvento. Presi tutta l’eroina che mi era rimasta, e non era poca, improvvisai un laccio emostatico con le molle del materasso, presi la siringa e …

Ero steso. Lentamente spingevo lago nel braccio. In questo scenario così tossico guardavo le stelle, volevo contarle. L’eroina era quasi tutta in circolo. Continuavo a guardare le stelle, volevo trovare la mia, magari mi avrebbe salvato. Sentivo i muscoli rilassarsi, le palpebre chiudersi. Forse avevo sonno o forse per la prima volta, avevo voglia di morire.

                                 

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Dex Ex
Mi definisco più bravo con le parole e meno con le persone. Laureato in filosofia. I libri sono stati sempre la mia ancora di salvezza. Gatsby mi ha insegnato a sperare sempre nella luce verde, Heathcliff a credere nell'amore eterno e viscerale e quei folli di Atos, Portos, Aramis e D'artagnan a credere nell'amicizia e al ricordo della giovinezza.
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