Tommaso Tramontani è basso e grasso, ha una incipiente calvizie e indossa una camicia di lino tirata all’inverosimile sull’addome. L’uomo guarda la porta davanti a sé e con la mano grassoccia pesca la fiaschetta di bourbon dalla tasca della giacca poi, dopo aver fatto una lunga sorsata, guarda il collega.
«Hai due occhiaie orribili, Dave. Che cazzo, sono le due del pomeriggio!», dice, passandogli la fiaschetta, «Va tutto bene?»
Rubanazzi rifiuta il liquore e soffoca un secondo sbadiglio. «Sto bene, è solo che da un po’ di tempo non riesco a dormire».
«Sì, ma non ho voglia di parlarne».
«Sono passati cinque anni! È ora di voltare pagina, devi prenderti un po’ più cura di te stesso. Da quanto non esci con una donna?»
«Lo sai, io con le donne ho chiuso, Tom. Emma era tutta la mia vita e io…»
«Cristo Santo! Ormai lei se ne è andata da due anni, devi smetterla di vivere nel passato. Sei ancora un bell’uomo e il mondo è pieno di donne a cui potresti piacere. Senti, sabato facciamo una cena da noi e Rosalba ha invitato una sua amica. Credo si chiami Sole, è un gran bel pezzo di fica. L’unico problema è che quando beve diventa una vera chiacchierona… ma in compenso ha una gran bella mercanzia… se mi capisci». Tramontani fa l’occhiolino e con le braccia sul petto mima due seni.
«Quanto sei cretino», si sforza di sorridere Rubanazzi, «Comunque grazie, ma non sono interessato. Tu e tua moglie dovete smetterla di provare a organizzarmi appuntamenti combinati. Io con le donne ho chiuso».
«Sei proprio noioso!»
«Ora archiviamo i capitoli incubi e fidanzate e occupiamoci della nostra indagine. Sei sicuro di volerlo disturbare?»
«Assolutamente sì». Le mani di Tramontani sono scosse da un tremito e la fiaschetta per poco non gli cade per terra.
«Dovresti smetterla di bere e fare qualcosa per quelle mani», gli fa notare Rubanazzi.
«Ne abbiamo già parlato. Ti ringrazio per avere a cuore la mia salute, ma ho già una moglie che mi rompe le palle. Non ho bisogno che ti ci metta pure tu».
Rubanazzi tira un lungo sospiro. «Non potremmo rimandare la visita?»
«No». Tramontani guarda il collega, mentre la vista inizia a perdere nitidezza. Il whiskey gli sta entrando nell’organismo, provocandogli un senso di rassicurante tepore. «È il momento di chiarire questa faccenda», aggiunge.
«Va bene, ma muoviamoci che tra due ore ho le prove con la band».
«Suoni ancora con quel gruppo di tossici?»
«Non insultare i miei amici».
Tramontani alza le mani in segno di resa, poi fa un cenno verso il campanello. Rubanazzi si avvicina al portone e suona. Il campanello trilla per alcuni istanti, poi smette. Mentre i due aspettano, Rubanazzi si chiede come faccia il collega a essere così sicuro di quello che stanno per fare. Lui e Tramontani si sono conosciuti due anni fa. All’epoca erano entrambi carabinieri del Ros, il raggruppamento operativo speciale. Rubanazzi lavorava nel II Reparto Investigativo del reparto Servizio Centrale di Polizia Giudiziaria, dove si occupava di narcotraffico. Tramontani, invece, grazie a uno zio che era il comandante del Ros, era entrato nel Reparto Crimini Violenti. Lì cercava di assicurare alla giustizia gli assassini più pericolosi e spietati. In realtà, il suo sogno non era stato quello di entrare nell’Arma dei Carabinieri, anzi non gliene è mai fregato nulla. Non ha mai avuto alcuna ambizione di nessun genere. L’unica cosa che gli interessava era trovare un lavoro fisso e rispettabile. Perciò, dopo il liceo, si è iscritto all’università, per prendere tempo. Conseguita la laurea, però, si è trovato punto a capo, senza progetti per il futuro. Lo zio è riuscito a convincerlo che la lotta al crimine dà grandi soddisfazioni, ed è comunque un buon servizio per il Paese. Così Tramontani è entrato nell’Arma.
Da quando lavorano insieme, Rubanazzi e Tramontani hanno risolto un unico caso. È successo durante la loro prima indagine. Rubanazzi in quel periodo faceva l’infiltrato in un clan della droga che operava principalmente a Sesto San Giovanni, primo hinterland di Milano. Un giorno, era stato convocato come consulente sulla scena di un crimine. La vittima era un certo Maurizio Bansardi, il boss rivale a quello per cui lui lavorava sotto copertura. I due signori della droga operavano nello stesso comune, avevano piazze differenti, ma capitava spesso che litigassero per il controllo dello spaccio. In ogni caso, il corpo era stato trovato senza alcuna ferita nella vasca da bagno e il boss aveva una siringa infilata nell’avambraccio. Nulla faceva presumere che si trattasse di una rappresaglia del clan rivale, e comunque Rubanazzi non ne sapeva niente. Inoltre, l’autopsia aveva accertato che la causa della morte era l’overdose da eroina. L’ipotesi più accreditata era il suicidio, ma ciò non bastava al comandante del Ros che voleva ricostruire l’intera vicenda. Così, aveva mandato Rubanazzi sulla scena del delitto, per aiutare il nipote Tramontani che con la sua squadra stava conducendo l’indagine.
È stata la prima volta che i due hanno lavorato insieme e, grazie a una brillante intuizione di Rubanazzi, hanno risolto il caso e scovato l’assassino. Dopo il successo Tramontani ha convinto il suo nuovo amico a trasferirsi al Reparto Crimini Violenti dove, in futuro, hanno spesso collaborato.
«Prova ancora», lo esorta Tramontani interrompendo il flusso di pensieri di Rubanazzi.
Il carabiniere sospira e suona di nuovo il campanello.
«Quanto è strana la vita», riflette ad alta voce Rubanazzi, mentre sono ancora in attesa, «Fino a qualche anno fa volevo fare il chitarrista in un gruppo Rock, ora invece mi ritrovo a dare la caccia ai criminali. Se non fosse stato per quel maledetto…».
«Rimani concentrato Dave, il passato ora non conta. Ricordati che siamo qui per indagare su un sospetto omicida e stupratore. Da questo caso potrebbe dipendere il nostro futuro».
«Chi siete?», domanda dopo un po’ una voce di ragazzo dall’interno.
«Siamo carabinieri», risponde Tramontani, scostando con una spallata il corpo mingherlino del collega, poi avvicina il tesserino di riconoscimento all’occhiello. «Sei Leone Poschini?»
«Sì, sono io. Che succede?»
«Dobbiamo farti alcune domande. Possiamo entrare?»
«Di cosa si tratta?», chiede Leone affacciandosi sulla soglia.
«Possiamo accomodarci?», taglia corto Tramontani.
Leone annuisce e guarda il tozzo e grasso uomo. Lo sguardo gli si ferma sulla mano tremante. Un altro alcolizzato, pensa mentre si sposta di lato con un movimento agile, per permettere ai due di entrare. Poi si chiude la porta alle spalle. Rubanazzi e Tramontani varcano l’ingresso, attraversano il soggiorno e si fermano davanti a un divano rivestito con una coperta rossa. Sulla destra c’è una libreria di legno tinta di bianco. Rubanazzi si avvicina ed estrae un libro: Jo NesbØ, Manuale di uno scrittore. Poi, incuriosito, comincia a leggerne la quarta di copertina.
«Sei anche tu un fan dello scrittore norvegese?», chiede, dopo aver riposto il libro nello scaffale.
«Come?», domanda Leone stupito.
«Jo NesbØ. È anche il mio romanziere preferito. Lo sai che suona in una band?»
«Dave», si intromette Tramontani, « Non siamo qui per parlare dei nostri interessi in comune, ma per fare qualche domanda al ragazzo, ricordi?».
Rubanazzi annuisce con un sospiro e appoggia la ventiquattrore sul tappeto, davanti al divano. L’operazione non sfugge a Leone che, incuriosito, osserva la valigetta chiedendosi che cosa contenga.
«In cosa sono coinvolto?», chiede d’un tratto, distogliendo lo sguardo dalla ventiquattrore e tornando a posarlo sui due.
«Come scusa?», chiede spiazzato il carabiniere alto e magro, «Nessuno ha mai accennato al fatto che tu sia immischiato in qualcosa».
Leone non si fa intimidire. «Siete due carabinieri e siete venuti qui senza preavviso. Ora, considerato che non avete fatto nulla per tranquillizzarmi, ne deduco che si tratti di una cosa seria. Perciò ve lo chiedo di nuovo e questa volta mi aspetto una risposta: in cosa sono coinvolto?»
«Sono Tommaso Tramontani e lui è il mio collega Davide Rubanazzi», dice il militare grasso saltando i convenevoli, «Siamo qui per farti alcune domande di routine su un caso d’omicidio».
Leone sgrana gli occhi e apre la bocca come per chiedere spiegazioni, ma rimane ammutolito.
«Prima, però, se posso permettermi, ti consiglierei di sederti sul divano e metterti comodo», aggiunge Rubanazzi, come per porre rimedio al tono troppo diretto del collega.
Leone annuisce e, con passo malfermo, si avvicina al tavolo della cucina. Prende due sedie e le posiziona davanti al divano. Infine, si siede sul divano e invita Tramontani e Rubanazzi ad accomodarsi davanti a lui.
«Dunque, dunque…», si schiarisce la voce Rubanazzi, «Tu sei Leone Poschini, giusto?»
Leone annuisce, poi aggiunge spazientito:
«Cosa sta succedendo?»
«Ora ci arriviamo, ma prima ho il dovere di informarti che per il momento non sei accusato di niente. Ti stiamo solo interrogando in qualità di persona che potrebbe essere informata sui fatti. Vuoi chiamare un avvocato?»
Leone scuote la testa. «Chi è stato ucciso?»
«Bene, vedo che sei uno che vuole andare dritto al punto», continua il carabiniere magro, «Ti accontento subito. Alle due di stamattina, giovedì 7 dicembre, Carolina Fermagli, di 21 anni, è stata trovata morta, presumibilmente assassinata, nei sotterranei dell’ex ospedale psichiatrico di Mombello. Conoscevi la vittima, vero?»
«Che cosa? State… state scherzando?», balbetta Leone strabuzzando gli occhi. Tutta la sua sicurezza è svanita. È sconvolto e frastornato.
Tramontani scuote la testa serio. «Nient’affatto, rispondi alla domanda del mio collega. Conoscevi o no Carolina Fermagli?»
«Io… io… Sì, certo che la conoscevo, è stata la mia ragazza fino a cinque anni fa. Cosa le è successo?»
«Qui le domande le facciamo noi, tu limitati a rispondere, per favore», riprende la parola Rubanazzi, sforzandosi di mantenere un tono calmo, «Dunque, secondo quanto riporta l’autopsia, sul corpo della vittima sono state trovate numerose ferite ed escoriazioni causate da un frustino, di quelli che si usano per i cavalli. Sai se Carolina usava questi strumenti? Magari per dei giochi erotici?»
Leone scuote la testa. «No, è la prima volta che ne sento parlare».
«Non ci risulta neanche che Carolina abbia mai frequentato corsi di equitazione, confermi?»
Leone annuisce, poi nella sua testa si fa strada un’idea orribile. Improvvisamente collega i puntini e capisce il vero motivo di quella visita inaspettata. «Voi siete qui…», dice con un filo di voce, «Siete qui perché sapete che vado al SerD di Mombello, proprio dove… dove Carolina è stata uccisa».
«Esatto, ci è stato riferito che proprio ieri sera ti trovavi lì, dalle sette alle otto. È corretto?»
«Sì, certo, confermo. Ma se state insinuando che io abbia a che fare con l’omicidio…»
«Noi non insinuiamo niente. Come ti ho già detto, per ora non sei accusato di nulla. Il nostro compito è seguire tutte le piste possibili per arrivare alla verità».
Rubanazzi guarda Leone. I suoi grandi occhi azzurri sono fissi nei suoi, ma immobili e spalancati dal terrore. Il ragazzo sembra entrato in una specie di trance.
«Senti Leone», continua Rubanazzi cercando di confortarlo, «Siamo qui solo per farti alcune domande, poi ce ne andremo. Te lo prometto. Riesci ad andare avanti o vuoi fare una pausa?»
«Ok, procediamo», si arrende Leone, tranquillizzandosi un po’. Ma una sensazione di forte capogiro lo costringe ad appoggiare la testa allo schienale del divano.
«Dunque, ieri sera, dalle sette alle otto, eri alla sede del SerD… all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Mombello?»
«Sì».
«E dopo cosa hai fatto? Ti sei visto con qualcuno?»
«Dopo la riunione sono tornato a casa con i mezzi pubblici, ci ho messo circa un’ora e intorno alle 21:40 ero qui. Mi sono preparato un panino e ho letto un po’ del mio libro, poi sono andato a letto. Stamattina non sono uscito; ho il turno all’Esselunga nel pomeriggio, perciò ho passato la mattinata a leggere».
Rubanazzi annuisce, mordicchiandosi il labbro superiore con fare pensoso. «Quindi dopo la riunione sei stato a casa tutta la sera. C’è qualcuno che può confermarlo? Eri con un amico o un conoscente sull’autobus?»
Leone alza di scatto la testa. Improvvisamente la vista gli si appanna e davanti a lui diventa tutto nero. Non c’è nessuno che possa comprovare il suo alibi. «Ero da solo», sussurra.
Tommaso Tramontani estrae la penna e un taccuino dal taschino della giacca e scarabocchia velocemente alcune parole. In realtà sta scrivendo solo frasi a caso, la sua è una tattica per mettere in crisi Leone e, così spera lui, indurlo a raccontare qualcosa in più.
«Dunque», borbotta Tramontani dopo aver appoggiato la penna sul foglio, «Se non ti ha visto nessuno entrare in casa, ciò significa che nessuno può testimoniare che alle due di stamattina tu eri qui, giusto?»
Leone rimane in silenzio, lo sguardo fisso sul taccuino.
«Saresti potuto benissimo uscire di nuovo a notte fonda», si intromette Rubanazzi.
«Sei sicuro di non aver incontrato proprio nessuno? Nemmeno nel tragitto verso casa?»
Leone scuote la testa, poi si blocca di colpo. «Ho visto un vecchietto».
«Un vecchietto?»
«Sì, era sull’autobus con me. Io…» Leone si interrompe, non può certo dire ai carabinieri di aver avvertito il vecchio dell’arrivo del controllore, avrebbero frainteso.
«Tu che cosa?», lo esorta Rubanazzi, «Saresti in grado di rintracciarlo?»
Leone scuote di nuovo la testa.
Rubanazzi sospira. «Più tardi faremo una visita agli altri inquilini del condominio, per vedere se per caso ieri sera qualcuno ti ha visto rientrare. Ora procediamo. Dunque, stamattina, prima di venire qui, siamo andati a casa della famiglia Fermagli e abbiamo parlato con i genitori. Ci hanno raccontato che tu, di recente, ti sei presentato sotto la finestra di Carolina e ti sei messo a urlare a squarciagola, implorandola di rimettersi con te. Hai qualcosa da dire a questo proposito?»
Leone ha un tuffo al cuore. «È stata la domestica Nancia a raccontarvelo?», chiede con un sussurro, «Due settimana fa sono andato sotto la finestra di Carolina, e l’ho chiamata chiedendole di scendere per chiarire le cose. Nancia ha sentito le mie grida e si è affacciata».
«Non sarebbe stato più semplice chiamarla al telefono o scriverle un messaggio?»
«Da quando ci siamo lasciati Carolina non ha più voluto saperne di me. Non mi risponde al telefono. Quello era l’unico modo che avevo per mettermi in contatto con lei. Cinque anni fa mi ha lasciato senza un motivo e io sto ancora aspettando una spiegazione».
«Ok, ora voglio chiederti una cosa. Prima che noi ti mettessimo al corrente della morte di Carolina tu non ne sapevi nulla, è corretto?»
Leone annuisce e guardando Tramontani gli pare di notare un sorriso appena accennato sul suo grasso viso. L’intuito gli suggerisce che i carabinieri stanno per calare la trappola che hanno preparato per lui e il suo sesto senso non sbaglia.
Rubanazzi si piega sul pavimento e prende la ventiquattrore, poi se la sistema sulle ginocchia, la apre ed estrae il contenuto.
«Li riconosci?», chiede mostrando a Leone alcuni oggetti.
Leone li guarda e sente il cuore che accelera i battiti. Dentro la valigetta ci sono una scatola di cioccolatini vuota, una raccolta di poesie di Hemingway, un ciondolo di poco valore e alcune lettere.
«Sono… sono i premi che ho fatto trovare a Carolina durante la caccia al tesoro!», esclama sorpreso, «Perché li avete voi?» Il suo sguardo vaga sugli oggetti sparsi sul tavolo, come se stesse cercando qualcosa.
«Va tutto bene?», chiede Rubanazzi.
«Manca l’anello con l’incisione, quello che avevo regalato a Carolina il giorno in cui mi sono rivelato a lei. Probabilmente è andato perso».
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