Metti una mano tra le nuvole e dimmi cosa senti.
Sono soffici tanto da sciogliersi con il calore delle guance? Guarda la luce, riesci a toccarla?
Ti scintilla in mano come il raggio di sole che la mattina taglia la polvere tra la finestra e il risveglio?
Quando sei al buio, riesci a prenderlo, a metterlo in tasca? Nasconderlo, per tenerlo per mano mentre cammini e infossi le dita nelle cuciture calde del cappotto?
L’acqua, riesci ad afferrarla senza farla scorrere via? Lasciandola immobile tra te e il tempo che passa?
E dimmi, il vento che ti spettina i capelli, riusciresti a metterlo in borsa e portarlo dove il vento non soffia?
Dove non tira schiaffi gelidi in faccia, nei lunghi inverni grigi, dove anche il sole è spento nei colori sbiaditi dei tramonti.
Un mio amico, qualche sera fa, mi ha detto di aver lasciato il cuore dall’altra parte del mondo e mi chiedo perchè non se lo va a riprendere.
Parlando “a tu per tu”.
Io e te, come se fossimo due vecchi amici al bar, mentre ci scambiamo la birra per sapere che sapore ha in labbra diverse. Parlando per ipotesi.
Straparlando, perchè ormai l’ora è tarda e alle casse hanno iniziato a passare uno stanco Battiato che si mischia con le risate grasse e ubriache di chi ha la barba nera che li nasconde.
Ma se incontrassi la tua anima gemella.
Quella persona che ti fa sentire come nessun altro ha mai fatto.
Quella che non incontrerai mai più.
Quella che ti scompiglia più di una tempesta in riva al mare, quella che la sabbia non te la caccia mai negli occhi.
Quella che tutto sistema, quella che passa e cancella, quella che è lontana.
Quella che una sera ricorderai mentre sei seduto sul tuo divano bianco dai cuscini composti, mentre la tv passa in prima serata un Gerry Scotti ingrassato.
La tua vita è già bella che fatta.
Il pianoforte nero dei tuoi genitori, l’hai sistemato sotto le foto di te e tua sorella abbracciati in una Corsica ‘98, e non lo suoni più.
Il caminetto è acceso, sopra c’è quel quadro senza vetro che tua madre ha dipinto pensando a casa tua, dove sei cresciuto.
Quella bianca sopra la collinetta con il grano bruciato tutto intorno e la strada polverosa che porta al casale crollato.
I tuoi figli giocano in un angolo, il cane dorme sul tappeto nero con i fiori rossi un po’ sfilacciato, il tavolo in vetro dell’ikea in mezzo alla stanza, la lampada illumina la sedia a dondolo di tuo padre e di fianco hai qualcuno che ha quel posto e non ricordi più perchè.
Non ricordi la prima notte passata insieme a Madrid.
La mostra al museo dell’orrore, la cena in quel locale tipico in un angolo sperduto che lei conosceva bene, la luce gialla che illuminava il suo viso dietro il bicchiere di vino, la giornata in barca mentre remavi e lei rideva, scostava i capelli scuri tra i Rayban e l’orecchio, lei che tutto fa tremare mentre piega i sorrisi indietro e passa la mano sulla camicetta bianca.
Ogni tanto le porti dei fiori blu, perché è il suo colore preferito.
Lei ti bacia.
Li sistema nel vaso di cristallo di sua madre con i fiori ricamati.
Li mette nell’angolo della cucina, tra la finestra e la piccola tv.
Scosti un pò la cravatta che ti stringe, sorridi stanco, sei un pò appiccicoso in viso.
La tua pelle sa di cherosene e sedili della cabina.
Stacchi i gradi, togli il fermacravatta d’oro a forma d’aquila.
Togli la giacca, vai ad appenderla a una gruccia, sfili i bottoni ad uno ad uno e appallottoli la camicia bianca nella cesta di biancheria sporca.
Sei in bagno, ti guardi allo specchio, scosti il ciuffo di capelli. Il biondo è diventato appena grigio.
Non sei diventato calvo come pensavi, gli occhi sono sempre il colore ghiaccio del cielo di Dublino la mattina presto, oltre il finestrone dell’hotel vicino all’aeroporto.
Apri il box doccia, giri la manopola dell’acqua.
George Benson si diffonde con il fumo del vapore nella stanza, tutto si appanna.
E in quell’istante, vorrei chiederti se vuoi avere due occhi che guardi e pensi “Cazzo, sei te!” o vuoi sentire un groppo di malinconia che ti sale in gola dallo stomaco.
Tutto si attacca alla macchia di muffa del soffitto, quella che ti prometti di togliere, ma non togli mai.
Tutto sale in un bisbiglio di pensieri che strofini via con lo shampoo dalla testa, si fa caldo, mentre togli via le persone dalla pelle.
Lo strato impercettibile di sguardi confusi in movimento con un trolley in mano, che scorrono via su un pavimento macchiato di orme, mentre te guardi fuori da dietro uno specchio di vetro che ti fa sentire il re del mondo, perché nessuno ti vede, ma tu vedi il mondo avanti a tutti.
In un attimo il bisbiglio si ferma, spanni il box con la mano, la musica finisce, c’è tutto silenzio e io non ti domando più nulla.
Scendi in cucina, lei ha apparecchiato la tavola, due piatti ciascuno, tre posate ad ogni lato, il tovagliolo a destra, due bicchieri per posto, uno per l’acqua uno per il vino, ma tu non bevi vino e lei finge di non ricordarlo mai.
Ti lascia una busta sul tavolo dopo aver sparecchiato.
E’ del fotografo dice.
Ha trovato una vecchia macchina fotografica in un tuo scatolone del trasloco.
Non ricordavi neanche di averla una macchina fotografica.
Lei se ne va e te la apri.
Era un pomeriggio d’estate quello.
Il cielo era alto, non c’era foschia e si vedeva il mare.
Gli ulivi in primo piano aprivano la vallata fino al contorno nero e lontano di un monte che cadeva a sasso nel mare.
Il tuo vecchio cane, l’altro tuo vecchio cane.
Il blu dell’acqua della piscina faceva cerchi d’oro deformi che si muovevano lenti.
Il grillo nel prato, un dito, il tuo dito, un papavero, il grano.
La vespa blu, lei che guida la vespa blu.
I capelli raccolti in due lunghe trecce bionde, il rossore sul viso e le lentiggini.
La camicia rossa a pois, i pantaloncini di jeans e le scarpe da tennis.
Il sorriso e lei che si copre il viso.
Lei sulla scaletta della piscina nel costume a due pezzi blu e bianco.
Il suo tatuaggio con un cuore spaccato a metà.
Lei che nuota in acqua.
Lei di spalle senza costume che ti guarda dritto nell’obiettivo.
“« Due strade divergevano in un bosco, ed io —
Io presi quella meno battuta,
E questo ha fatto tutta la differenza » Robert Frost
“20-02-2013 “Terni”
Stamattina il Dow Jones chiude con un –0,22%.
Non sono mai stata al Stock Exchange di New York. Immagino che sia una stanza enorme.
Ricoperta di grandi pannelli che scartabellano numeri, proprio come i tabelloni enormi delle grandi stazioni.
Numeri, azioni, dollari, euro, yen, al posto di arrivi e partenze.
Immagino le urla, gente che corre frenetica e instabile da una parte all’altra della sala.
Immagino gente che salta, gente con le mani tra i capelli che chiede il perché delle sue scelte.
Immagino uomini d’affari in giacca e cravatta, sorriso smagliante e ventiquattrore di pelle nera.
Il taccheggiare delle loro scarpe lucide su un pavimento di marmo, dove rispecchiano il ghigno di cortesia di un buongiorno, quando ormai il buongiorno si è alzato da un pezzo.
Qui da me le gocce d’acqua ticchettano sul mio ombrello blu con infiniti pallini bianchi.
Le macchine si susseguono a decine lungo la strada che porta via dal centro.
Le ruote lasciano scie chiare sull’asfalto bagnato che li conduce a pranzo verso casa.
Se sposto l’ombrello di lato vedo cadere le gocce, come schizzi bianchi su una parete colorata.
Una, due, tre.
Quante sono?
Dieci, cento, mille?
Posso numerarle?
O sono cifre che scendono a grappolo morendo fredde sulla strada.
A chiazze su vestiti.
Trasparenti, lasciano impronte liquide su mani e visi.
E sono numeri.
Indefinibili per me.
Per me che la matematica è sempre stata un’ opinione.
Per me che i numeri vanno accoppiati solo con i numeri e mai con le lettere.
Mogli e buoi dei paesi tuoi, come si dice a casa mia.
Ma noi siamo solo numeri, tra parentesi.
Puoi trovarmi ad un certo incrocio di paralleli e meridiani. Puoi cercarmi al numero civico 3, al terzo piano, interno 3. Puoi comporre una serie di numeri e ti risponderei io.
Siamo sette miliardi, poco più.
Tutti numerati da quando nasciamo.
Alle poste stacchiamo un numero e ci mettiamo in fila.
All’università siamo un codice di cinque cifre, siamo un numero in successione durante un esame, siamo un numero in ordine alfabetico nel registro del liceo, siamo una targa mentre giriamo per strada, siamo un numero neanche segnato in volto nella massa informe che conta solo il totale.
Chissà a quale numero appartengo io quando entro nella vita delle persone.
Se valgo da numero 1 o sono due cifre che piano piano supera i cento e magari di un ipotetico 85 non resta nemmeno il timbro su una mano, cancellabile dopo una nottata in discoteca.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.