Correva su e giù da almeno dieci minuti. I capelli crespi assomigliavano ad una matassa di lana che puzzava ancora di pecora. Strambo nei movimenti, i pantaloni smollati e di due taglie più grandi. Un ragazzino instancabile. Ad ogni giro completo del cortile si tirava su le braghe. Al terzo si trascinò con le bretelle attorcigliate alle caviglie e si arrese.
«Ma dove andate brutte sceme?» gridò.
Quando riprese a correre, le lastre di ghiaccio sul terreno, non gli risparmiarono né la prima né la seconda caduta. I fratelli si erano stancati già da un pezzo di tirarlo fuori dai guai. Ogni giorno ne combinava qualcuna delle sue.
Un irruento, ecco cos’era!
I pantaloni erano ridotti a brandelli e le bretelle toccavano a terra.
«Ah, siete lì?» rise. Di fronte a lui, due galline spelacchiate erano riuscite a nascondersi dietro la paglia e non davano quasi segni di vita. Della terza, nessuna traccia ancora.
«Non saranno mica crepate?» sbottò Cosimo.
Si avvicinò sprofondando in una grossa e gelida pozzanghera. Tiratosi su a fatica tese tutte e due le mani verso l’uscio. Le galline non riuscivano neanche ad acceannarlo il coccodè. Un po’ si muovevano ma le ali parevano come atrofizzate da quant’erano infreddolite. A stento si erano fatte strada in mezzo alla balla di fieno che era poggiata alla porta.
«Chiudi le galline e torna dentro, piccolo delinquente!» urlò una voce stridula dall’interno del casolare.
Il ragazzino agganciò col fil di ferro la porticina di legno e la richiuse con le pollastre dentro. Si precipitò verso il portone di casa con il terrore di prenderle di santa ragione per l’ennesima volta.
«Spostati, voglio vedere anch’io!» strillò. Cosimo tentò di raggiungere il fratello maggiore facendosi largo con i gomiti praticamente sbucciati ed arrossati più per la corsa fatta che per la caduta di poco prima nel cortile. I calzoni erano sporchi di terra e le mani nere come la pece. La matassa che si ritrovava sul capo era oltraggiosa. “Puzzo come una capra”, pensò. Continuava a camminare avanti e indietro, irrequieto. Sembrava non riuscisse a trovare pace e prima di piazzarsi definitivamente davanti al caminetto acceso, si lanciò verso la finestra e buttò le braccia al collo di Nuccio.
«Cosa stai guardando?» chiese curioso ed agitato come un barboncino scodinzolante che si dimena a destra e a manca per recuperare l’osso appena lanciato dal suo padrone.
Nuccio era incollato lì e giocava con le nuvole di vapore che fuoriuscivano dalla bocca ad ogni sospiro o sbadiglio che fosse.
«Mi pare di avere visto Martino con un quaderno e una matita!». Il fratello continuò a guardare oltre quel vetro di nuovo appannato. Si toccò il naso, mano a mano sempre più ghiacciato. Ormai non lo sentiva quasi più. Cosimo, insieme alla ventata gelida portata dentro casa, aveva trascinato con sé una sorta di essenza maleodorante che ben si sposava con le cipolle ed i cavoli cucinati il giorno prima. La finestrella si trovava in angolino stretto e semi assolato sul retro del casolare. Una modestissima casa di campagna circondata da decine e decine di ulivi, da un’antica quercia e da alberi di limoni, cerase e pere lardare.
«Spostati, voglio vedere anch’io!» riprese Cosimo sferrandogli un’altra gomitata.
«Che diavolo combini, imbecille! » urlò Nuccio
«Sei in condizioni pietose, vai a lavarti e non starmi appiccicato, cretino!»
La sua tolleranza fu pari a zero ma Cosimo, sordo a quei rimproveri gli si avvinghiò ancora di più. Non aveva alcuna intenzione di perdersi la scena che stava ipnotizzando il fratello alla finestrella. Era troppo piccola per starci appiccicati in due ed il tanfo incontenibile che proveniva dai capelli e dagli abiti di Cosimo, peggiorava ogni cosa.
Già tre, i vani tentativi di trattenere il fiato. Inutile.
“Madonna che fetore!”
“Lo capisce che si deve buttare nella tinozza e starci a mollo almeno per un’ora?”
Distolse lo sguardo da quell’ebete di suo fratello e si rituffò nei suoi mille pensieri.
“Sta camminando con altri due bambini” pensò tra sé. Tenne fisso lo sguardo verso la figura dell’amico che al di là della finestra si allontanava. Cosimo, con la delicatezza di un pachiderma lo scansò dal vetro e ci si appiccicò lui stesso col viso. Fugace, l’ultima occhiata fulminante di Nuccio. Si fermò per qualche frazione di secondo, lo osservò brevemente dalla testa ai piedi. Non riusciva a capacitarsi di come quel ragazzino, sgusciato fuori dallo stesso ventre materno, potesse essere così diverso da lui. Aveva “atteggiamenti ancora più infantili della sua età”. Incompatibili, tremendamente diversi. Qualche volta gli era venuto il dubbio che quel ragazzino appartenesse al suo medesimo albero genealogico.
Cosimo rimase incollato lì. La curiosità verso quel ragazzotto coi libri, che camminava lungo la strada, di colpo gli passò. La capacità di interessarsi a qualcosa per non più di dieci minuti era rimasta la stessa. Cosimo era sempre stato un bambino capace di lasciarsi travolgere come un uragano da qualsiasi cosa, persona o situazione nuova che fosse. L’entusiasmo che traspariva era elettrizzante ma come quello di una lampadina di basso costo che nel giro di poco va in corto e si fulmina. Beh, lui si accendeva e poi si scaricava.
… «Chiudi quel dannato portone!» urlò il patriarca. Bestemmiò, fermo davanti al caminetto. Impassibile, l’aria feroce. Una iena pronta a divorare le più piccole ed indifese tra le sue prede. Nuccio si sbrigò a richiudere la porta. La maniglia stava per cedere. La tenne ben stretta pur di non farla cadere. Poi sgattaiolò sul retro, verso il tinello, una specie di catapecchia un metro per due. Aveva perso il conto del tempo. Quella pipì l’aveva trattenuta fin troppo. Cosimo lo raggiunse, prese l’acqua nella bacinella per lavarsi le mani. Nient’altro…
Quei luoghi risentivano ancora delle avanzate tedesche. Lo sapeva bene la donnona, madre di quella prole. Non c’era giorno in cui la mente non la catapultasse nel ricordo di quelle notti ed albe interminabili. Le palpebre si appesantivano stanche. Le pupille dilatate rivedevano all’infinito sempre le stesse scene. Una vecchia pellicola che ripartiva, inesorabile. Le immagini lievemente sfocate ma nitide nella memoria. La donna strizzò gli occhi, accecata. Le luci fredde dei carri tedeschi si materializzarono senza preavviso. Risentì sulla propria pelle quella stessa paura, il terrore di essere scovati e catturati. La disperazione durante la fuga, la corsa senza sosta. Risentì le gambe deboli e tremanti che cercavano un rifugio per lei e la sua famiglia, lontano da quegli occhi che ordinavano odio, terrore. Sguardi inespressivi ed algidi che ordinavano disastri, la fine. L’infame Guerra era terminata da circa un decennio, ma la terra puzzava ancora di fame e di cadaveri.
Antonia girò piano la maniglia del portone. Dietro di lei, due delle sue figlie.
«Chiudete piano, prima che vostro padre si ritolga la cinghia» esclamò la donna. La ragazza ricciolina più giovane e la sorella dalla folta chioma nerissima obbedirono senza batter ciglio. Si diressero verso la legnaia. «Prendo io quel ciocco più grosso!» disse Sandra. Poi si avviò verso la catasta ricoperta da un grosso telo tutto impolverato. Antonia, avvolta nella sua lunga e larga mantella di lana, rimase a guardare, in prossimità della stalla. Le bestie erano tutte dentro. Si allontanò per qualche minuto. La mente l’aveva inspiegabilmente riportata ancora una volta a ripercorrere quei giorni. L’aria divenne ancora più gelida. Le mani gonfie le prudevano. Si appoggiò al grosso ulivo, lì, imperterrito, ormai da più di vent’anni. Con un piede scalciò sul tronco massiccio. L’incavo nella parte centrale dell’arbusto c’era sempre stato. Il ricordo di un antico rifugio per accudire porci, ripararli dal freddo. Un luogo improbabile, divenuto vero e proprio nascondiglio per lei, salvezza per la sua famiglia ma sfortunatamente non per tutti i componenti…
Lo sguardo assente della donna, rimase fisso sulla parete. Vigile in quello stesso ricordo. Immagini che la scortavano da tempo. Ricordò nei più insignificanti dettagli, un certo Hans. Rivide in quel giorno ordinario, nella stessa ordinaria mattinata, l’uomo immobile davanti al portone della sua abitazione. Con il calcio del grosso fucile aveva battuto tre o quattro volte alla porta ed era entrato senza curarsi di nessuno. Aveva pronunciato parole incomprensibili. Rapidi, fin troppo espliciti i suoi gesti. Erano stati traduttori simultanei persino dei suoi pensieri. Idee improbe? Illeciti propositi? Quello scilinguagnolo che lo contraddistinse lasciò presagire di certo una qualche inevitabile sventura. Stranamente Hans non fece nulla di violento. Soddisfatto del suo spuntino, le aveva dato un’occhiata furtiva ma inquietante. Lei, con gli occhi sgranati, che non sapevano più in quale punto della cucina guardare, si era affrettata, ma con un certo garbo ed imbarazzo, a sistemare la veste. Il grosso livido era ancora lì. Il colore era mutato, meno marcato. La spalla, ancora dolorante. Schiva, aveva guardato il gigante dal volto squadrato, che tanto la stava creando soggezione. Si sentì piccola, insignificante. Quella mattina sembrò interminabile. In alcuni istanti, la paura, l’unica dominatrice. Le prime luci dell’alba illuminarono l’arma impugnata da Hans. Antonia non ebbe ben chiaro se quello spaventoso fucile potesse essere un vero e proprio sturmgewehr oppure no…
«Brr…com’è gelata!» esclamò Nella. L’acqua nella bacinella era in parte ghiacciata. Sottili lastre trasparenti galleggiavano in superficie. Le mani si stavano screpolando. Non sentiva quasi più i polpastrelli. «Finiamo di portare dentro le patate e ravviviamo il fuoco prima che tornino gli altri» disse alla sorella. Lucia raccolse i tuberi e tornò di fretta in casa. I grossi teli sui limoni, lungo la piccola stradina del paese, facevano da scudo al gelo che giorno dopo giorno pareva volesse degenerare. Li avrebbero preservati da una fine certa. Le giornate si ripetevano quasi sempre uguali. Mani gonfie, dita callose, piedi e fianchi doloranti trovavano sempre un motivo d’essere. Ogni sforzo era in qualche modo ripagato da quella ciotola di zuppa di patate e cavoli, apparentemente insignificante, che riusciva a scaldare almeno lo stomaco, a fine giornata. Per dar conforto alla mente non esisteva ancora una ricetta.
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