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Ombre e sabbia

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In una terra dilaniata dall’odio e dalla paura, dove il confine tra Israele e Palestina è segnato dal sangue e dal dolore, qualcosa di antico si è risvegliato. È un’entità dimenticata, nata dai miti e dalle sabbie, che avanza silenziosa, cancellando villaggi interi e riscrivendo la mappa dell’esistenza.

Amir, insegnante palestinese, sopravvive alla distruzione del suo villaggio, perdendo tutto ciò che amava. David, ex soldato israeliano tormentato dai ricordi della guerra, viene richiamato per indagare questo inquietante fenomeno.

Nonostante la diffidenza reciproca, Amir e David dovranno unire le loro forze per compiere un viaggio attraverso il deserto e dentro l’animo umano, dove il soprannaturale si intreccia alla storia e la speranza si oppone all’oscurità.

Prologo.
Il canto di Shalem

Prima che i nomi fossero incisi sulla pietra, prima che le torri si levassero dal deserto, prima che il vento stesso imparasse a cantare tra le dune, vi fu un uomo.

Il suo nome era Shalem, e il suo cuore ardeva come il sole di mezzogiorno.

Nacque sotto un cielo privo di stelle, in una notte così oscura che gli anziani del suo popolo dissero che perfino la luna si era nascosta per timore. Il villaggio dove vide la luce era poco più di un grappolo di tende sparse ai piedi della Montagna Bianca, un antico picco di roccia calcarea che, si diceva, fosse abitato dagli spiriti dei primi sognatori. Sua madre, Nehma, lo partorì in silenzio, stesa su un letto di sabbia tiepida e tessuti logori, con le mani aggrappate al braccio di un’anziana guaritrice che sussurrava canti antichi, perduti nel tempo.

La prima cosa che Shalem vide non fu il volto della madre, ma l’orizzonte: un mare di sabbia infinito che si apriva davanti a lui e, oltre, qualcosa d’invisibile, un’ombra senza forma, in attesa. I nomadi del deserto interpretarono questo segno come un presagio: quel bambino non apparteneva del tutto a loro, e il suo destino sarebbe andato oltre le sabbie mobili della vita ordinaria.

Fin da piccolo, Shalem mostrò segni di una sensibilità fuori dal comune. Camminava da solo per ore, tra le dune e le rocce levigate, ascoltando i silenzi come se parlassero. Sedeva per ore accanto ai fuochi spenti, gli occhi persi nelle braci ancora calde, e a volte mormorava frasi in lingue che nessuno riconosceva. I vecchi lo osservavano con un misto di timore e rispetto.

Aveva uno sguardo profondo, scuro come la notte prima della tempesta, e un portamento che non apparteneva a un fanciullo. Camminava con un bastone di legno d’ulivo, un ramo antico, rinvenuto durante una tempesta di sabbia, che sembrava resistere al tempo e alla polvere. Nessuno ricordava quando avesse cominciato a portarlo con sé: semplicemente, il bastone era sempre stato con lui.

Ben presto divenne una guida nel suo villaggio dove, pur non essendoci “capi”, era riconosciuto come tale. Il giovane che era diventato l’Anziano fra gli anziani.

La sua vita cambiò il giorno in cui si spinse oltre i confini sacri del villaggio e giunse ai margini di una gola profonda, un taglio nella terra che sembrava non avere fondo. La chiamavano Al-Sikhat, la Fenditura. Nessuno vi si avvicinava: gli animali la evitavano, i venti tacevano sopra di essa, e le leggende parlavano di un antico male dormiente.

Ma Shalem non si voltò. Si sedette sull’orlo e attese. Per ore. Per giorni.

Una notte, udì un sussurro. Non un suono esterno, ma una vibrazione nell’aria stessa.

«Tu che sei luce, perché ti avvicini? Perché cerchi l’oscurità?»

Shalem non tremò. La sua voce fu ferma, come pietra.

«Perché non temo ciò che non vedo. Perché nella più profonda oscurità possiamo vedere anche la più piccola fiamma rifulgere come il sole.»

«Tu sei fuoco, ma il fuoco si spegne. Tu sei carne, ma la carne marcisce. Io sono eterno.»

«Eterno è solo ciò che cambia» ribatté Shalem.

Fu l’inizio di un lungo dialogo. Shalem tornava ogni notte, e l’Ombra lo aspettava. Non con odio, ma con curiosità. L’Ombra non aveva mai parlato con un uomo come lui: uno che ascoltava senza giudicare, che cercava la verità anche nell’oscurità.

Soprattutto nell’oscurità.

Anni dopo, quando l’abisso cominciò a tremare e voci oscure infestarono i sogni degli uomini, Shalem comprese che l’Ombra si stava svegliando dal suo torpore. Il sigillo del mondo antico si stava indebolendo.

Ma invece di cercare alleati tra le tribù, invece di invocare le armi, fece qualcosa d’inatteso: fondò una città.

Scelse un altopiano sabbioso circondato da formazioni rocciose, dove i venti sembravano parlare lingue dimenticate. La chiamò Qiryat al-Ramal, “la Città sulla Sabbia”, perché, spiegò, anche ciò che è instabile può diventare saldo, se radicato nella memoria.

La costruì attorno a un cuore luminoso: la Reliquia della Luce, un frammento del cielo, caduto dal firmamento nei tempi antichi. Shalem lo aveva scoperto anni prima, custodito in una grotta nascosta dietro una cascata di sabbia. Il cristallo pulsava, come un cuore vivente, e cantava a chi sapeva ascoltare.

I primi ad arrivare a Qiryat al-Ramal furono gli erranti: profeti muti, guerrieri stanchi, donne e uomini feriti dalla guerra o dal tempo. Shalem li accolse tutti. Insegnò loro a ricordare, a cantare la memoria del mondo, perché l’Ombra, diceva, si nutre dell’oblio.

Ad Al-Sikhat, sulla Fenditura, Shalem e il suo popolo di Qiryat al-Ramal costruirono un tempio.

«Le opere degli uomini, anche le più grandiose, saranno abbattute inesorabilmente dal tempo e riconsegnate alla madre sabbia. Questo tempio, già destinato a crollare nel momento in cui lo stiamo innalzando, non è opera vana. Io ne faccio il Custode della Luce del mondo. Custode della Speranza. Cosicché quando l’oscurità più profonda avvolgerà il mondo, quella flebile fiamma custodita all’interno sarà per l’uomo quello che la stella Thuban è per i viaggiatori. Ci riporterà a casa. Riporterà a casa tutte le navi alla deriva nel deserto.»

Il Tempio della Luce, costruito sopra la Fenditura, divenne il sigillo sacro. Non era solo una barriera fisica, ma un monumento alla speranza: colonne scolpite con simboli antichi, pietre che cantavano quando colpite dal sole. E nel cuore, la reliquia.

Ma Shalem sapeva. Nulla è eterno. Il tempo si piega, e l’Ombra non dimentica.

Una notte, il cielo si arrossò. I sognatori si svegliarono urlando. Le sabbie si agitarono come acque in tempesta. Il sigillo stava cedendo.

Una nebbia nera come la pece strisciava fuori dalla Fenditura e avvolgeva accampamenti nomadi, greggi e pascoli, lasciando solo sabbia al suo passaggio.

Shalem convocò i suoi discepoli, i Custodi delle Quattro Vie: Neriah, la Fiamma, che dominava il fuoco e la rabbia; Oren, la Memoria, che ricordava ogni parola mai detta; Eyla, il Silenzio, che ascoltava l’inudibile; Ma’arav, il Canto, che parlava ai cuori con la voce degli antichi.

In una notte gelida, davanti a loro, Shalem si spogliò dei suoi simboli. Posò il bastone, si tolse il mantello. Con mani tremanti, prese la reliquia dal Tempio della Luce, si portò sul precipizio della Fenditura e la sollevò.

«Luce mia,» mormorò «figlia del Primo Giorno, dammi la forza di chiudere ciò che fu aperto. Prendi il mio nome, prendi il mio canto, e che nessuno lo ricordi, finché non sarà tempo.»

Poi si voltò verso l’abisso della Fenditura: un baratro senza fondo e senza speranza dal quale l’Ombra osservava e ordiva.

«Tu che hai sussurrato nei miei sogni, ora ascolta: non ti distruggo, ma ti accolgo. Io sarò il tuo sigillo.»

E si gettò nel vuoto.

La luce esplose. Per un istante, fu giorno in tutto il deserto. Le pietre cantarono. Il vento si inginocchiò.

E l’Ombra fu imprigionata.

Quando il corpo del Primo Custode fu sepolto nel cuore del Tempio della Luce, sotto l’altare inciso con i sigilli sacri, un silenzio profondo avvolse Qiryat al-Ramal. Per giorni e notti, il popolo pianse la perdita del suo fondatore, colui che aveva portato la pace tra le tribù e piegato l’Ombra con il fuoco del proprio spirito. Le torce vennero tenute accese in ogni strada e su ogni torre, i canti di lutto riecheggiarono tra le colonne di alabastro e lungo le dune che lambivano la città come un oceano immobile.

La morte di Shalem aprì un vuoto. Non vi era erede, né parola lasciata sul successore. Non un consiglio, né un ultimo ordine. Nulla che potesse guidare i popoli nel tempo della transizione. Il suo gesto finale, tanto puro quanto disperato, aveva dimenticato l’uomo, la sua natura fragile e affamata di potere.

Le tribù, un tempo unite sotto la sua guida, iniziarono presto a mormorare. I capi si incontrarono nelle notti segrete, ciascuno sostenendo che Shalem aveva confidato loro, e a loro soltanto, i segreti del tempio, la via verso la reliquia, il diritto alla guida. Alleanze forgiatesi con il sangue e la speranza si spezzarono come vetro sottile. Le parole lasciarono il posto ai sospetti, poi ai coltelli.

Nel giro di una sola luna, Qiryat al-Ramal era diventata un campo di battaglia. Le strade risuonavano di urla anziché di preghiere, il mercato si svuotò, e i giardini che Shalem aveva fatto piantare e irrigare con l’acqua sacra del pozzo centrale furono ridotti in cenere. Le torri di guardia non scrutavano più l’orizzonte in cerca dell’Ombra, ma si rivolgevano verso l’interno, contro i propri fratelli.

E il deserto, che un tempo si era aperto davanti ai passi di Shalem come un servo devoto, cambiò volto. Le dune si alzarono come mura ostili, le tempeste si fecero più frequenti, il vento sferzava la sabbia come lame. Era come se la stessa terra avesse voltato le spalle alla città. Come se il sacrificio del fondatore, inascoltato, si fosse tramutato in maledizione.

Fu allora che l’Ombra, sentendo il richiamo dell’odio e della divisione, trovò la via per tornare. Nessuna catena, nessun sigillo può resistere quando i cuori che lo hanno forgiato si corrompono. Una notte, mentre le lune gemelle si eclissavano l’una con l’altra, l’oscurità scese su Qiryat al-Ramal. Ma non era un’oscurità naturale: era viva, pulsante, strisciante. Penetrava nei sogni, nei pozzi, nelle ossa.

Nessuno vide l’Ombra entrare. Ma quando il sole tornò a splendere, non trovò nulla da illuminare. Dove sorgeva la città, ora giacevano solo rovine pietrificate e sabbia annerita. Gli archi splendenti, le biblioteche, il tempio stesso… inghiottiti dal silenzio. Solo il vento cantava, portando con sé i nomi dimenticati e l’eco dell’antico dolore.

Così scomparve Qiryat al-Ramal, città delle sabbie e dei miracoli, nata dal sogno di un uomo e sepolta dall’ambizione dei popoli.

I secoli passarono. Qiryat al-Ramal divenne leggenda. Il tempio fu dimenticato. La reliquia si spense, silenziosa. Di Shalem non rimase che un’eco.

Ma si dice, nelle notti in cui la sabbia canta e le stelle tremano, che il vento porti ancora il suo nome.

«Shalem… Shalem…»

E un giorno, qualcuno ascolterà di nuovo.

La leggenda di Shalem sopravvisse solo nei racconti dei nomadi, tramandata intorno ai fuochi nelle notti senza luna. Alcuni dicono che l’Ombra viva ancora sotto le sabbie, in attesa che i cuori degli uomini, dapprima ostili e poi riuniti, osino risvegliare la luce perduta.

2025-08-26

Aggiornamento

✨ 200 volte grazie! ✨ Abbiamo raggiunto un traguardo straordinario: oltre 200 preordini di “Ombre e Sabbia” 💛. Questo risultato non è solo mio, ma di tutti voi che avete creduto in questa storia, sostenendola e condividendola; come ho sempre detto, questo è un progetto di editoria sociale e di narrazione collettiva. Adesso è nata una storia che arriverà a voi che avete preordinato e in tutte le librerie italiane. Ci vediamo in giro e fra le pagine di "Ombre e Sabbia".
2025-06-09

Il Libro

https://www.illibro.org/ombre-e-sabbia-di-giuseppe-buompane-unepopea-spirituale-tra-mito-memoria-e-oscurita/

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Giuseppe Buompane
È nato a Caserta nel 1982. Avvocato a Napoli, coltiva da sempre una profonda passione per la lettura e la scrittura. Dopo un’esperienza formativa in Galles e un percorso istituzionale come Deputato della Repubblica (2018-2022), con questa prima opera pubblicata torna alla sua vocazione più autentica: raccontare storie.
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