D’altro canto, è certamente agli Strooges (sciolti nel 1974) e al loro leader Iggy Pop che va attribuito l’eclettismo, la trasgressione e i comportamenti autodistruttivi delle esibizioni che caratterizzeranno i live punk rock: la musica degli Strooges è più veloce e aggressiva, basata su chitarre distorte, riff e linee di basso semplici, batteria pesante. I loro concerti sono i primi a rivedere i confini fra pubblico e musicisti. Saranno dei loro fan a fondare, a New York, i Ramones, uno dei gruppi che più si distinguerà anche oltreoceano. La scena underground (a livello mondiale, soprattutto quella di New York, Los Angeles e Londra) assisterà da qui a un uragano pronto a stravolgere il mondo della cultura giovanile e l’industria musicale.
I gruppi newyorkesi fanno una musica grezza e sporca, ma sono fondamentali nella creazione dell’estetica punk; essenziale per il suo diffondersi sono i live del CBGB, un locale sito a Manhattan attorno a cui, in breve tempo, si trova a orbitare tutta la scena underground. Al CBGB suonano, fra gli altri, Patti Smith, Blondie, Ramones, Talking Heads e Television, al cui bassista (Richard Hell) è attribuito il lancio di quella che diventerà la moda punk: giubbotti di pelle, magliette e jeans strappati, capelli corti con la cresta da mohicano. Se qualcosa accomuna questi primi musicisti punk, è la differenza che avevano gli uni con gli altri: basti pensare al rock poetico e recitativo di Patti Smith in relazione all’estetica e al sound da motociclisti dei Ramones.
Le caratteristiche del genere, nato sulla East Coast, vengono amplificate alcuni anni dopo, quando giungeranno a Los Angeles: suono più duro, immaginario più aggressivo, testi più politicizzati. La città degli angeli vede nascere band come i Germs, i Circle Jerks, gli Weirdos e i Dickies, che portano all’evoluzione dell’hardcore punk e, a partire dagli anni ‘90, permettono la riemersione del genere, generando un vero e proprio revival, tramite il quale si diffondono sottogeneri come il pop punk, lo skate punk e il melodic hardcore punk.
Ma la trasgressione dell’onda punk non si ferma nel nuovo continente: già dagli anni ‘70 approda nel Regno Unito, stravolgendo la compostezza e il buoncostume di un paese che a stento aveva digerito il rock degli anni ‘60 e tutte le mode che ne erano derivate. La rivoluzione inizia da Londra, quando Malcom McLauren torna da New York, dopo aver conosciuto l’ambiente del CBGB. Nella capitale inglese apre un negozio di abbigliamento assolutamente lontano dai gusti classici, dal provocatorio nome Sex, ma soprattutto diventa manager di un gruppo chiamato Strand; di lì a poco, il mondo li conoscerà come Sex Pistols. Il nome, immediatamente ricollegabile al legame fra giovani, violenza e sesso, crea scompiglio prima ancora del rilascio del loro primo singolo, dal significativo titolo Anarchy in the U.K. (1976). Spinti dal loro successo, acquisiscono forza e notorietà anche molti altri gruppi, come i Damned (già autori di New Rose, il primo brano della storia punk rock inglese), i Vibrator, i Generation X e i Clash, che al nichilismo dei Sex Pistols oppongono lo scontro con la realtà. Nel settembre ‘76 si tiene a Londra il Punk Rock Festival, in cui suonano tutti i gruppi citati: un successo fenomenale, condito da arresti, rivalità professionale e problemi tecnici senza fine.
Insieme alla capitale, altro epicentro del punk inglese è Manchester, in cui nascono gruppi ispirati dai Sex Pistols, quali Buzzcocks e Joy Division. Nutrito dai moti del ‘68, dalla crisi economica e da una città industriale implosa e carica di tensioni sociali (causate anche dalla vittoria dei partiti di destra e dal peggioramento delle condizioni sociali), il punk rock inglese mantiene lo stile di New York, riempiendolo però di testi e comportamenti di forte significato politico.
A fine anni ‘70, il movimento inizia a perdere la forza propulsiva iniziale (almeno nei paesi anglofoni; tutt’altra storia sarà per l’Italia). Solo nel Regno Unito il punk ha raggiunto un vero successo commerciale, col singolo dei Sex Pistols God Save the Queen al secondo posto in classifica, grazie anche a tutto lo scandalo che aveva preceduto la sua uscita. L’era del post-punk si configura come una fase di transizione che porterà alla nascita di una moltitudine di sottogeneri, con agli estremi opposti la new wave (dai toni cupi e nichilisti) e hardcore (che esaspera invece la trasgressione violenta del punk, caricandola di significato politico).
A partire dagli anni ‘90 la musica punk is avvicina sempre più alla cultura pop di massa, soprattutto con la nascita di sottogeneri come il pop-punk, lo ska-punk e il dance-punk. Nei primi anni 2000 abbandona definitivamente il mondo dell’underground, al punto che il punk revival viene sfruttato per fini commerciali, plasmando l’estetica e lo stile di band come i Green Day e gli Offspring.
Anche dal punto di vista strettamente produttivo il genere si è spostato agli antipodi rispetto alle origini: se infatti nei primi anni ‘70 i gruppi punk si esibivano solo in locali più o meno abusivi (in particolare in Europa, dove il loro successo si deve a case occupate e centri sociali) e avevano scelto, per ideologia e per necessità, di affidarsi solo all’autoproduzione di dischi e cassette, pubblicizzandosi attraverso fanzines e volantini stampati e scritti dai gruppi stessi, con l’avvicinamento al mainstream avviene l’inevitabile assorbimento all’interno dell’industria musicale tradizionale. Il Do It Yourself che aveva dominato il punk anni ‘70 lascia spazio a contratti e agenti. Anche a causa di questo cambiamento, il movimento si frammenta, dividendo chi accetta il prezzo da pagare per la fama da chi non riesce più a riconoscere una cultura di cui aveva condiviso l’ideologia.
Dal punto di vista politico, o sarebbe meglio dire partitico, così come il rock degli anni precedenti era stato etichettato come di sinistra, i punk vengono da subito accusati di aderire a varie ideologie estreme, in particolare all’estrema destra. L’accusa di affinità col nazismo è in buona parte dovuta all’ostentazione di svastiche da parte dei musicisti (fra i tanti, anche da Sex Pistols e Strooges), usate in realtà a scopo provocatorio. Se di una politica punk si può parlare, questa è più che altro una protesta che si configura, soprattutto in origine, come un rifiuto sistematico di tutto: rifiuto del conformismo, delle buone maniere, del virtuosismo e persino della necessità di fare buona musica. Questo comporta un odio proveniente da ambienti di destra e di sinistra, oltre a un timore da parte delle forze dell’ordine. Come ricorda Marco Philopat:
“I passanti allibiti mi sfottono – non posso reagire – bastardi – c’è la madama dovunque da queste parti […] a quel punto io me ne vado perché c’è un pregiudizio diffuso tra i compagni più vecchi – dicono che i punk sono fascistelli – i vestiti neri e le svastiche sono le prove”
O ancora:
“La polizia ci blinda tutti i sabati – la nostra presenza sulla via dello shopping è scomoda – nella questura in San Sepolcro i celerini sono assatanati – i gruppi clandestini sono ancora ben organizzati – ci scrutano per capire se tra noi si nasconde qualche incubo delle nostre nottate insonni […] Gli ex amici di Fiorucci per una questione di territorio organizzano spedizioni punitive”
La genesi dell’ideologia punk è la protesta di chi non vuole far parte della società in cui è nato, in cui sono altri a scegliere il ruolo che si deve svolgere, ed esprime il rifiuto attraverso la provocazione estrema. Si tratta di un pensiero che rifiuta l’autorità in qualunque sua forma (a partire dalla famiglia), qualunque fondamentalismo (anche e forse soprattutto religioso) e costrutto sociale (primo fra tutti, la mentalità borghese). Si avvicina, soprattutto nel Regno Unito, ai principi dell’anarchia e del nichilismo, senza mai schierarsi però a favore o contro un partito in particolare.
Una maggiore connotazione politica inizia a sentirsi nei primi anni ‘80, quando il punk comincia a prendere sfumature diverse e dividersi in sottogeneri. Nascono gruppi di ideologie opposte: da un lato chi interpreta le svastiche come un inneggiamento al neonazismo, approdando al nazi-punk; dall’altro, chi si oppone a qualunque violenza e trova la propria voce nell’anarco-punk, capeggiato dai Crass. Quest’ultimo gruppo si rispecchia in ideali di pacifismo, anti-capitalismo, anti-sessismo e animalismo.
Se nel punk si può rintracciare un’ideologia comune a tutte le sottoculture che ha generato e a tutti luoghi in cui si è sviluppato, questa è la provocazione. Provocazione che passa, da un lato, attraverso testi violenti, offensivi, a volte privi di senso, accompagnati da musica stridente; i concerti diventano quindi vetrine per mostrare tutta la riluttanza all’omologazione. Dall’altro, tramite un modo di vestire che allontani il più possibile dalle persone “normali”, e un comportamento che volutamente rifiuta l’educazione imposta da una società in cui i punk non si riconoscono. Il nichilismo, l’anarchia a la chiusura su di sé diventano così le uniche risposte sensate al rifiuto della società e alla politica.
“Yes that’s right, punk is dead,
It’s just another cheap product for the consumers head.
Bubblegum rock on plastic transistors,
Schoolboy sedition backed by big time promoters.
CBS promote the Clash,
But it ain’t for revolution, it’s just for cash.
Punk became a fashion just like hippy used to be
And it ain’t got a thing to do with you or me.”
(“Sì è vero, il punk è morto,
è solo un altro prodotto scadente per la testa dei consumatori.
Rock di gomma da masticare su transistor di plastica,
la rivoluzione di uno scolaro spalleggiata dai produttori dei tempi d’oro.
La CBS promuove i Clash,
ma non certo per rivoluzione, solo per i soldi.
Il punk è diventato una moda, come è successo agli hippy
non ha più niente a che vedere con me e con te.”)
Il punk è morto, cantavano i Crass nel 1978. Il movimento era emerso dall’ombra dell’underground angloamericano un paio di anni prima, quando in Inghilterra esplodevano i Sex Pistols; in Italia si stava appena iniziando ad avere notizie di una nuova musica, un altro sottoprodotto del rock che, come anni prima era successo col primo rock’n’roll, spaventava con creste colorate, borchie, spille da balia e anfibi, facendosi largo fra la musica impegnata degli anni ‘60, la guerra fredda e gli anni di piombo.
E in un certo senso era vero, il punk è morto nel momento stesso in cui è uscito dai circuiti dell’underground, dal momento in cui i Sex Pistols sono stati ospiti sui canali nazionali e i Clash hanno firmato un contratto discografico, da quando le riviste giovanili e l’industria musicale ci hanno visto una nuova possibilità di business, una nicchia di mercato inesplorata che reclamava i suoi spazi e a cui certo non mancavano fan e potenziali tali. D’altro canto, però, non vanno sottovalutati tutti i gruppi, musicali e non, che continuarono ancora per molti anni, e continuano tutt’ora, a tenersi fuori dai circuiti commerciali e della cultura di massa. Gruppi che nella sottocultura hanno trovato il proprio posto nel mondo.
Ad oggi, nel 2021, l’SO36 è tutt’ora un locale frequentato da punk a Berlino, così come l’Electric Ballroom a Londra. E se il Virus di Milano è chiuso da molti anni, El Paso di Torino continua la sua attività dagli anni ‘80.
Si può affermare, allora, che il punk è morto?
O anche questa frase è una provocazione?
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