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Quel giorno sul 15

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Consegna prevista Aprile 2026

Un motorino scassato, un Walkman nella tasca del parka, compilation fatte a mano, cassette che si riavvolgevano con una penna. Un dito medio dietro il vetro di un autobus, e da lì inizia tutto: l’attesa, i sogni, i numeri scritti sulla Smemoranda, le telefonate dai bricchi per risparmiare sull’interurbana.
È la storia di un amore nato negli anni ’90 e sopravvissuto al tempo, raccontato con ironia, malinconia e passione. Un monologo dolce e rabbioso, tenero e sincero, che parla a chi ha amato davvero e a chi, magari, non ha mai smesso di farlo.
Per chi oggi ha cinquant’anni e sente ancora i battiti dei diciassette.
E per chi ha diciassette anni e vuole sapere com’era amare prima delle chat, prima dei like, prima di tutto.

Perché ho scritto questo libro?

Dedicato ai miei figli: “Ho scritto questo libro per farvi vedere com’era avere 15 anni senza internet, quando ci si innamorava per davvero guardando una ragazza dal finestrino dell’autobus.”

ANTEPRIMA NON EDITATA

Lo scoglio di Quarto

Ricordi quando venivamo a sederci su questo scoglio? Allora avevamo poco più di 15 anni. Dove adesso c’è tutta quella zona pedonale attorno al monumento dei mille c’era la fermata dell’autobus e qualche parcheggio. La stele c’è sempre stata? Sai che non ricordo di averci mai fatto caso quando venivamo qui a baciarci? Mi ricordo così bene quei tuoi baci morbidi quando stavamo qui seduti per ore. Il mare di marzo era così limpido e calmo, e a volte così agitato e rumoroso. Sembrava che il tuo umore fosse strettamente legato alle condizioni del mare, ma a me piace pensare che fosse il mare ad adeguarsi al tuo umore. Questo profumo di mare rimarrà sempre dentro di me, come il tuo profumo “une touche de Naf Naf”. Ho ancora davanti ai miei occhi quel tuo gesto quando ti aggiustavi i capelli facendo tre semplici mosse, così precise e ripetitive.

Gira, rigira e tira! Mi viene in mente il film con Adam Sandler. Ah giusto non lo puoi conoscere. Gira, rigira e tira. Ed ecco che i tuoi capelli erano in posizione perfetta. Raccolti in una coda da cavallo da manuale. Gira, rigira e tira. Sempre così estremamente ordinata e così estremamente bella. Gira, rigira e tira. Sai non mi importa se la gente mi sta guardando e pensa che sto parlando da solo come un matto. Dopotutto, siamo a Quarto e potrei essere un vecchio ospite dell’ospedale psichiatrico. E poi quei tuoi momenti in cui ti estraniavi dal mondo, il tuo sguardo fisso verso l’orizzonte del mare, i tuoi occhi così blu da nuotarci dentro. Ad un tratto scappavi con i tuoi pensieri chissà dove. Non potevo saperlo. Ti guardavo mentre fissavi i tuoi demoni e i tuoi angeli, cercavo di accarezzarti per riportarti da me, ma con un gesto allontanavi la mia mano e restavi lì immobile a fissare il nulla o forse il tutto. Quel tuo gesto di bloccare la mia mano mi faceva così male. Volevo solo farti sentire la mia presenza, farti capire che ero lì per te e che con me non sarebbe mai successo nulla di male, perché io ti avrei protetto, protetto da tutti, ma non da tutto. Non da tutto, questo lo capii 5 anni dopo averti conosciuta.

Sei morta il 23 dicembre, nel pieno della tua bellezza. Solo 23 anni, 23 proprio come il giorno in cui ci lasciasti.

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capitolo 2

Giochiamo a nascondino?

Non puoi ricordare il primo giorno che ti vidi, anzi, seppure te l’abbia raccontato milioni di volte, non puoi sapere cosa provai quel giorno di settembre quando eri apparsa come un angelo in sella al suo cavallo bianco! Ti ricordi, come ti prendevo in giro quando ti dicevo che il tuo Sì Piaggio era il tuo cavallo alato? Migliaia e migliaia di volte ti ho raccontato la stessa storia, tu non facevi altro che chiedermi di raccontarla come fosse la prima volta, io a volte cambiavo qualcosa e mi sembra ancora di vederti quando mi dicevi “stronzo, non prendermi in giro!” E io ridevo come uno scemo e ti guardavo sorridere sotto i baffi con quel finto “muso arrabbiato”.

Come ti arrabbiavi quando ti dicevo che avevi il muso! Ma sapevo benissimo che era il tuo modo per far sì che ti baciassi chiedendoti scusa!

Era una splendida giornata di settembre, ricordo che la scuola era iniziata da pochi giorni. Il sole splendeva sul mare e percorrere il tragitto da Brignole a Quinto era quasi una tortura. L’unico modo per non pensare alle ore di noia che mi aspettavano da lì a poco era evadere ascoltando un po’ di musica con il mio Walkman, chissà se è ancora da qualche parte a casa dei miei. Il mitico Walkman della Sony;  spendevo la maggior parte della mia “paghetta” settimanale per comprare le pile. Andavo in giro con le tasche del parka piene di cassette. Le centinaia di compilation che ci scambiavamo a scuola. Ricordo che ero tra i pochi in quegli anni ad avere il “CUBO” con doppia piastra. Un Technics tutto nero ovviamente, con annesso giradischi per ascoltare i centinaia di vinili e per passare le canzoni sui nastri. All’epoca si partiva una volta al mese per andare a Milano a comprare i vinili rari che a Genova difficilmente si trovavano, o che arrivavano in così poche copie che sparivano subito.

“Raga, prendiamo il treno delle sette , andiamo prima da Mariposa, poi qualche altro negozio tipo quello a Loreto, poi panetto da Poldo e andiamo a mangiarli sul tetto del Duomo, che ne dite?”

Il piano era sempre lo stesso, si partiva con cinquanta sacchi in tasca e si tornava senza una lira ma con più vinili possibili e a volte qualche bacio rubato a qualche milanesina o a qualche ragazza conosciuta sul treno. Uff, come sei gelosa, lo sai che io non ho mai avuto il coraggio di baciare nessuna.

Quando arrivai alla fermata del Gaslini salirono alcuni ragazzi che ridendo a crepapelle si raccontavano le esperienze dell’estate appena passata. La mia mente mi fece tornare indietro di qualche settimana e mi ritrovai a pensare alle risate delle sere passate parlando per ore sui gradini della chiesa, a quando come bambini giocavamo a nascondino in decine di ragazzi e ragazze e come quel gioco era soltanto una scusa per nascondersi con qualche villeggiante per baciarci e non farci scoprire dai nostri genitori, come se scambiarci baci innocenti fosse paragonabile al più efferato dei delitti. Ripensavo a quando Ricky si era nascosto nel cimitero e il custode lo chiuse dentro senza sapere che fosse lì. Passammo due ore a cercarlo per mezzo paese e solo quando il sole ormai era calato sentimmo le sue grida da lontano. Ridevo tra me e me ripensando a come avevamo rubato la scala di ferro in un cantiere edile incustodito ed eravamo corsi tra i prati rischiando di cadere mille volte. Arrivati al muro di pietre che racchiudeva dentro di sé chissà quanti ricordi di polvere, appoggiammo la scala e salimmo uno per volta sul tetto della cappella della famiglia Canepa, proprio quella della prof di storia che con noi maschi della 3a era sempre stata una stronza. La Canepa era morta in un incidente stradale pochi giorni  dopo la fine dell’anno scolastico. In quel momento ebbi mille rimorsi pensando a quante maledizioni le avevo inviato, consapevole però che il destino a volte ci riserva brutti scherzi. Quel rimorso venne subito cancellato appena vidi la faccia di Ricky che era poco distante da noi. Era bianco come un morto, sembrava che fosse appena uscito da una delle bare sepolte sotto 2 metri di terra, proprio lui che era abbronzato tutto l’anno. D’inverno sembrava un panda colorato al contrario con la faccia nera e il contorno degli occhi bianco per colpa degli occhiali da sole che indossava quando andava a sciare, mentre d’estate aveva un’abbronzatura ambrata che faceva risaltare i suoi occhi verdi smeraldo. Ma in quel momento sembrava un lenzuolo appena uscito dalla  lavatrice.

“Ragazzi, ho visto un fantasma o uno zombie o qualche mostro simile, vi prego fatemi uscire da questo cimitero oppure credo che morirò qui dentro”

“Ricky, sei sicuro che non ti abbia già morso qualche strana creatura? Sei bianco come un morto”

Spostammo la scala dalla parte interna del cimitero per farlo salire sul tetto della cappella e poi ci venne una malsana idea. Una delle idee più idiote che potrebbero venire in mente a certi ragazzini.

Io, Fabio e Andrea andammo nel capanno degli attrezzi del custode, mentre Ricky era rimasto di guardia sul tetto. Sapevamo bene che il custode nascondeva le chiavi sotto un vaso, lo avevamo visto più volte nasconderle durante le nostre esplorazioni alla ricerca di chissà quale mistero.

Aprimmo, prendemmo una vanga a testa e scavammo per quasi un’ora prima di raggiungere la bara di un caduto della prima guerra mondiale. Sapevamo che la bara era vuota perché le sue spoglia non erano mai tornate dal luogo in cui era stato ucciso.

La bara non era sigillata e aprire il coperchio fu più facile del previsto, ripulimmo bene le vanghe, le riportammo al loro posto cercando di sistemarle esattamente come le avevamo trovate; posate le chiavi sotto al vaso Andrea raggiunse Riccardo sul tetto mentre io e Fabio andammo alla tomba profanata cercando di non lasciare impronte. Una volta arrivati alla fossa, presi sulle spalle Fabio in modo che le impronte sul terreno sembrassero lasciate da una persona adulta e pesante. Camminai cercando di lasciare impronte definite e profonde, fino ad arrivare alla scala. Io e Fabio raggiungemmo Ricky e Andrea che ci stavano aspettando. Camminammo sopra il muro fino ad arrivare dove sotto c’era il parcheggio asfaltato, ci calammo il più possibile prima di saltare giù cercando di stare attenti a non lasciare impronte.

La mattina dopo quando Sante, il custode, trovò la bara aperta chiamò il parroco, il quale iniziò a suonare le campane della chiesa come se stesse cercando di mandare un allarme a tutto il paese. Tutti accorsero al cimitero per vedere cosa fosse successo, la tomba era stata profanata? Oppure le spoglie del milite si erano risvegliate ed erano uscite dalla tomba come nei film horror?

Il maresciallo dei Carabinieri arrivò di tutta furia e insieme ad un allievo che sicuramente era poco più grande di noi, iniziò ad ispezionare la zona.

Controllò a fondo il perimetro intorno alla tomba, seguì attentamente le impronte che portavano alla scala lasciata appoggiata al muro della cappella, salì e controllò attentamente la zona guardando dal tetto l’area sottostante. Le impronte finivano lì, come se il cadavere o il fantasma del giovane soldato fosse volato in cielo.

Quando il carabiniere scese dal tetto si ritrovò faccia a faccia con il sindaco che era stato avvertito dal tam tam della gente del paese.

“Maresciallo, ci troviamo di fronte ad un avvenimento paranormale? È il caso che avverta la stampa e la televisione?”

Nella testa del sindaco scorrevano sicuramente le immagini del suo faccione che in TV raccontava come in paese fossero accaduti negli anni decine di avvenimenti inspiegabili.

Di tutta risposta il maresciallo gli disse: “Sindaco, questo è sicuramente un’avvenimento straordinario, cose che non capitano tutti i giorni, una cosa inspiegabile, ma la cosa più inspiegabile è come sia possibile che un soldato della prima guerra mondiale avesse ai piedi un paio di scarpe della Nike!”

Finita la frase il sindaco guardò a terra e in un attimo i suoi sogni di gloria televisiva svanirono nel nulla.

Per tutta la settimana successiva in paese non si sentì parlare d’altro, e noi quattro stupidi ragazzini ci sentivamo braccati e in colpa per quella bravata che mai avemmo il coraggio di confessare a nessuno.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Paolo Berardi
Da sempre inseguo passioni e cambiamenti. Da ragazzo ho praticato sport e ho avuto la fortuna di allenare giovani atleti, imparando presto cosa significa responsabilità e lavoro di squadra. Nel tempo ho fatto un po’ di tutto: operaio, cuoco, barista… Oggi sono responsabile vendite e viaggio per il mondo, ma non ho mai perso il contatto con le mie radici. Amo la musica, il cinema e porto nel cuore gli anni ’90, un’epoca che per me (e per tanti della mia generazione) ha significato scoperta, libertà, ribellione e crescita. È in quegli anni che ho trovato la mia voce, tra cassette consumate, film cult e sogni più grandi di me. E forse è proprio da lì che nasce il bisogno di raccontare: per non dimenticare chi siamo stati.
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