Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors

Scimmie di mare

Copia di 740x420 - 2025-11-06T120206.281
22%
157 copie
all´obiettivo
95
Giorni rimasti
Svuota
Quantità
Consegna prevista Agosto 2026
Bozze disponibili

Olivia è l’ultima figlia di Zorro.
Suo padre si firma così sul libretto delle giustificazioni. Sua madre dipinge, inventa creature che non le somigliano.
Per sopravvivere a quella distanza, Olivia cresce in fretta: impara a cavarsela da sola, a gestire le assenze, a non chiedere. A pretendere amore dalle persone sbagliate.
A diciott’anni parte, convinta che altrove ci sia la libertà. Ma lontano da casa finisce per cercare ciò che ha lasciato: la solitudine di suo padre, soprattutto, in ogni uomo che incontra.
A poco più di vent’anni sceglie di diventare madre, e scopre che solo lasciando asciugare i dolori passati ci si può radicare davvero, anche nella propria imperfezione.
Scimmie di mare è la storia di una donna che attraversa la mancanza e ne fa una forza. Un romanzo sull’amore che ferisce e guarisce, e sul coraggio silenzioso di chi, dopo una vita in fuga, sceglie di restare.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto Scimmie di mare per dare voce al coraggio che serve a superare il confine tra un’eredità e la scelta.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Uno. 

“Da quando mi hai lasciato, mi sento come una lontra senza la pelliccia”

Orso Yoghi

Gli uomini sbuffano, arrancano sulle scale. Il tavolo in noce massello è arrivato fin qui: trent’anni e seicento chilometri dopo, varca la soglia del mio studio portato a spalla da due trasportatori sudati e con la coccina. Un funerale silenzioso, senza fiori né orazioni.

Lo appoggiano in mezzo alla stanza scuotendosi le mani sui calzoni. Nessuno si è premurato di spolverarlo prima di caricarlo sul camion. Le ceneri del nostro passato cadono addosso a due sconosciuti. Li ringrazio, mi scuso per la sporcizia. Si sono caricati un dolore che non era il loro.

In questa stanza affacciata su una vallata non ci sono muri verdi né anagrammi alle pareti: Genova, fuori dalla finestra, è una coltre di nuvole basse che avvolge i tetti e gli orti come bambagia.

Efin è finita chissà dove. Se la tela esistesse ancora, lei che ne era protagonista continuerebbe a fissare di traverso l’osservatore, col suo intraducibile sguardo.

Ma chissà com’è andata distrutta. Anche lei, come il tavolo, abitava la casa al mare. Settanta metri quadri di gigli di carta e salsedine arrampicati alle pareti. Quand’è stata venduta, i nuovi proprietari l’avranno portata in discarica prima di cominciare i lavori di ristrutturazione. Oppure sarà marcita in qualche scantinato, dimenticata come un segreto la cui rivelazione non fa più paura a nessuno.

Quando ha dipinto Efin, ß sapeva. Dai tarocchi rovesciati aveva estratto Il Giudizio e La Torre capovolta, carte difficili da travisare. Le aveva affiancate, cercando interpretazioni diverse. Non trovandole, aveva battezzato il suo ultimo quadro. Giugno iniziava. Col suo sciame di vacanzieri che scaricavano valigie e ombrelloni dalle macchine parcheggiate nei box delle seconde case, prometteva una nuova estate imbandita di avventure.

Continua a leggere

Continua a leggere

Clotilde sparecchiò il mazzo. Richiuse la cassetta di legno in cui teneva i colori a olio e poi lavò i pennelli con la trementina. Il cancro contro cui combatteva da un paio d’anni l’avrebbe trovata viva.

Libero il tavolo dai fogli di giornale. Un ritaglio di cronaca nera rimane attorcigliato attorno a una zampa. Lo strappo via. Senza il quadro accanto, senza le sedie imbottite di velluto blu e l’amaranto delle porte, questo mobile è un corpo estraneo conficcato nel presente. Ingombrante. Esige un posto che gli renda onore. Forse ho sbagliato a portarlo qui, ma quand’ho saputo che sarebbe stato mandato al macero, non ho avuto il cuore di lasciarlo andare.

Distruggere i ricordi non servirebbe a cancellare il passato. Non basterebbe per dimenticare. Chi non c’è più torna nei sogni. Traslocando il tavolo, m’illudo di offrire loro un riparo. Posso apparecchiare un luogo per rifocillare i miei fantasmi. E con la pancia piena, metterli a tacere.

Due. 

Metteva la punta di uno stecchino sulla fiamma e aspettava che prendesse fuoco. Lasciava che il legnetto si consumasse, poi usava il carboncino per sottolineare il suo sguardo, come un kajal.

Clotilde ricalcava quei gesti a memoria. Una liturgia sempre uguale a sé stessa. Sfilava l’accendino dal pacchetto di Diana rosse, incendiava lo stecchino e iniziava il trucco. Succhiando liquirizia, bistrava un occhio dopo l’altro allungandoli verso il punto nascosto verso cui fuggiva nelle fotografie. Poi cotonava i capelli usando il borotalco.

Perché tu esista, occorre che qualcuno ti veda – si ripeteva allo specchio.

La vedevo sputare la Golia per passarsela sulle palpebre come un ombretto, convinta che la vischiosità dello zucchero le restituisse un’espressione più giovane ed esotica. Dopo un ultimo passaggio col pennello del fard, arricciava la bocca a culo di gallina inclinando la testa. In quel riflesso c’era lei, mia madre.

Nata alla vigilia della Seconda guerra mondiale, Clotilde era stata una bambina irrequieta che girava per Testaccio trascinandosi dietro una gallina al guinzaglio. L’animale era stato il primo soggetto dei suoi ritratti.

Ingrassata coi lupini che la nonna vendeva a Porta Portese, aveva cosce tornite e piume candide. Occhi piccoli e appuntiti sotto una cresta carnosa che Clotilde non aveva saputo replicare nel disegno.

Con incerte pennellate, aveva capito che i colori del mondo non le sarebbero bastati. Che avrebbe dovuto impastarne di nuovi, perché la realtà potesse rivelarsi all’altezza dei suoi desideri. E che solo reinventarsi le forme del mondo le avrebbe consentito di plasmare il proprio.

Un universo che negli anni popolò di creature dalle dita lunghe e i piedi enormi, con occhi ciechi e profili camusi.

Il mondo è noioso. Lo aggiusto come posso.

La gallina fu la capostipite. Con un paio di uova sode al posto degli occhi e lunghi artigli ricurvi, fu condannata a razzolare sulla tela nella vana ricerca di un varco.
Chiunque fosse generato da lei, subiva la stessa dannazione. Cercare inutilmente una via d’uscita a quella solida sensazione di non essere abbastanza.

Tre.

L’ombra delle zampe di leone si allunga sul parquet. Il tavolo, stile impero, ha la ribalta sollevata. Mi chiedo se anche i mobili possano portare rancore.

Per anni è rimasto a prendere polvere in una casa disabitata. Dopo la morte di Clotilde, nessuno si occupò di sgomberarla. Ogni cosa restò dov’era stata appoggiata: gli occhiali da lettura a mezzaluna aperti sopra a un libro rovesciato, le pentole ormai secche capovolte sul ripiano dell’acquaio, il cavalletto addosso al muro. Tutto fermo all’ultima telefonata, quella che arrivò dalla clinica per avvisarci che la situazione era precipitata.

Sulla sedia ai piedi del letto, una calza di nylon. Indossata tante volte da conservare ancora la forma del piede di Clotilde, divenne il monumento al cammino interrotto.

Continuo a guardare il tavolo. Cerco nelle crepe del legno tracce di pranzi e discorsi consumati intorno al piano, ma l’inclinazione verticale deve averle fatte rotolar giù. Dritto e muto, tiene segrete le sue memorie. Se avesse un’anima, immagino sarebbe offesa.

Lo passo con la cera d’api, accarezzo ogni sua venatura. Qualche tarlo ha tracciato piccoli puntini di sospensione sulla superficie.

Potrei farlo restaurare, ma credo che lo terrò così. Roso e imperfetto, come il sentimento con cui lo nutro.

Gli oggetti sono interlocutori pazienti. Portano i segni del tempo senza recriminare le origini, obbediscono all’idea che abbiamo del bello, ascoltano senza interrompere. Restano.

Ne ho sempre accumulati molti. E per tutte le cose che ho comprato, ereditato o trovato, ho immaginato un futuro. Il riscatto e lo spazio per esistere che io faticavo a conquistare, sentendomi ingombrante, lo ritagliavo per loro.

Scegliendo con cura una sistemazione, disponevo negli armadi le lenzuola come se ogni telo potesse vestire lo spettro di un’assenza.

Ho ammucchiato roba come fanno le formiche con le briciole per prepararsi all’inverno.

E se la natura rifugge lo spazio vuoto, io riempivo le assenze delle persone con le cose.

Questa casa è piena di tutto ciò che desideravo quand’ero piccola: pigiami nei cassetti, biancheria pulita, e detersivi. Sapere dove trovarli dà ordine al mio mondo. Ogni cosa ha un posto e una funzione. Colma spazi che non devo più riempire io. Sostituisce la voragine e il senso di colpa, le mani e la voce di chi non c’è più.

Per Clotilde l’ordinarietà era un’imperdonabile tara. Un indizio di deformità.

Non essere mai scontata. Saresti ridicola.

Normale significava mediocre, banale, non all’altezza. Qualsiasi espressione ordinaria andava combattuta con ferocia: i luoghi comuni, le luci al neon e le cucine componibili.

La nostra era una collezione di oggetti prestati a un uso improprio: librerie a giorno su cui erano accatastate pentole incrostate, credenze piene di libri, mensole da bagno su cui soffocavano pacchi di riso e pummarò.

Niente mutande nei tiretti, o scarpiere dove ricoverare i passi consumati. Tutto giaceva ammassato dietro alle porte, insieme all’unico accappatoio a righe che serviva tutti, resistendo all’avvicendarsi delle stagioni senza scomporsi il pelo. Nel nostro bidet cresceva una felce.

Quando iniziai la scuola elementare, la distanza con le abitudini dei compagni crebbe fino a diventare deriva. Loro avevano iniziali ricamate sui grembiuli e merende fasciate nello zaino, mentre i miei astucci erano perennemente orbi di matite e io, per mangiare a metà mattina, facevo la questua.

Nessuno mi invitava alla sua festa di compleanno, né a fare i compiti insieme: inciampavano nella mia alterità come in qualcosa di fuori posto.

Ero Olivia che non si lava, e perché il concetto mi fosse chiaro, me lo incidevano sul banco con la punta del compasso.

Andando avanti con gli anni, molte mi sono chiesta cosa pensassero di noi all’epoca. Gli insegnanti, i conoscenti, i compagni e i loro genitori. Forse eravamo divertenti, spassosi come le cadute di chi, inciampando, rovina con la faccia a terra. Quella comicità involontaria che fa ridere e basta, senza curarsi dei lividi o dell’imbarazzo.

Poi eravamo tanti.

Sono l’ultima di cinque figli… – mi pavoneggiavo tra lo stupore di chi mi stava ad ascoltare. Come se appartenere a quel pentacolo di fratelli non significasse soffocare nel cerchio in cui eravamo inscritti.

Infine, erano artisti. Due amanti scapigliati che avevano messo su famiglia un po’ per scelta e molto per caso. Vivevano così, nei canti stonati e negli oggetti d’arte senza scopo.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    “Scimmie di mare” è una sorpresa. O forse una conferma. Oppure entrambe le cose ,che fra di loro possono convivere.
    “Scimmie di mare” è una storia dolorosa, ma è anche la rivincita alla vita ottenuta con sacrifici, fatiche e ferite che la protagonista, Olivia, si porta addosso ma che forgiano e modellano la donna che poi diventerà.
    È un personaggio che si ama Olivia, difficile non farlo. È una bambina, una ragazza, una donna che avresti voglia di abbracciare, stringere forte.
    “Scimmie di mare” è una storia che merita di essere letta, perché c’è la Vita dentro, la vita con la maiuscola sapientemente narrata dall’autrice, abile cesellatrice di parole.

    Auguro a questo romanzo tanta fortuna.

    RB

Aggiungere un Commento

Condividi
Tweet
WhatsApp
Carolina Sabbatini
Sono nata a Roma nell’estate del 1977, ma da lì sono fuggita presto: Milano, poi Genova, dove tra caruggi e ardesia ho riscritto la parola “casa” con la schiuma del mare.
Lavoro nel marketing e nella comunicazione, forte di una lunga esperienza negli uffici stampa e di un bellissimo periodo di pausa, durato dieci anni, che ho dedicato all’insegnamento nella scuola primaria.
Dai miei bambini ho imparato a diventare grande, che le crisalidi sono bruchi nei sacchi a pelo e che, se racconti quello che provi, trovi persone disposte ad avere cura delle tue parole.
Nel resto del tempo sottolineo i libri, viaggio, cucino e approfondisco temi legati alla psicologia.
Questo è il mio secondo romanzo.
Carolina Sabbatini on FacebookCarolina Sabbatini on Instagram
Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors