ANTEPRIMA NON EDITATA
**Capitolo 1**
Elisabeth era certa che fosse uno scherzo.
O forse un errore.
La mail lampeggiava sullo schermo del suo telefono, il mittente era ufficiale, il logo della casa editrice ben visibile in alto. Si era iscritta al concorso mesi prima, quasi per gioco, sicura che non avrebbe mai avuto una possibilità. Ma adesso le parole erano lì, nere su bianco, impossibili da ignorare.
“Gentile Elisabeth Falls, siamo lieti di informarla che è stata selezionata per il tirocinio formativo con la scrittrice Alessandra Ferri. Congratulazioni!”
Rilesse il messaggio tre volte, il cuore martellava come un tamburo impazzito. Era impossibile. Alessandra Ferri era una delle autrici più famose d’Italia, una di quelle che aveva sempre ammirato da lontano, con la speranza segreta di poter un giorno scrivere come lei. Ora, l’idea che avrebbe potuto incontrarla, lavorare al suo fianco, era un pensiero troppo grande da contenere.
Un colpo di tosse la fece sobbalzare. Sua madre la guardava dalla soglia della cucina con un sopracciglio alzato.
“Tutto bene? Hai visto un fantasma?”
Elisabeth deglutì, stringendo il telefono con forza. “No… Sì. Cioè, forse.”
Si schiarì la voce e porse lo schermo alla madre, che si avvicinò incuriosita. Dopo qualche secondo, la sua espressione cambiò. “Elisabeth! Questo è incredibile!”
“Non è uno scherzo, vero?” chiese con un filo di voce.
“Sembra tutto ufficiale. Dovresti rispondere subito!”Il panico la avvolse all’improvviso. Fino a quel momento, scrivere era stato il suo rifugio, una cosa intima, personale. Adesso qualcuno che ammirava davvero aveva letto le sue parole e aveva deciso che erano abbastanza buone. Abbastanza da meritare un’opportunità così grande.
Aveva desiderato questo momento per così tanto tempo, e ora che era reale, la paura si insinuava tra le crepe dell’entusiasmo. E se non fosse stata all’altezza? E se avesse deluso tutti?
Sua madre sembrò leggerle nel pensiero e le posò una mano sulla spalla. “Non devi avere paura di essere brava in qualcosa, Elisabeth. Questo è il tuo sogno, no?”
Inspirò profondamente, cercando di calmare il battito irregolare del cuore. Sì, era il suo sogno. E forse era arrivato il momento di viverlo davvero.
Con le dita tremanti, digitò la risposta.
“Grazie per questa opportunità. Accetto con entusiasmo.”
Premette “Invia” e lasciò che un sorriso, piccolo ma sincero, si aprisse sul suo viso. Il futuro era ufficialmente iniziato.
Elisabeth chiuse la valigia con un tonfo sordo e inspirò profondamente. Il taxi l’avrebbe portata in aeroporto il mattino seguente. Aveva meno di otto ore prima di partire per un anno intero. Ma prima, doveva affrontare l’ultima conversazione importante.
Si infilò il giubbotto e uscì di casa senza fare rumore, la città era immersa in una calma irreale. Arrivata sotto casa di Liam, il cuore le batté forte nel petto. Lui era appoggiato al muretto davanti al portone, il cappuccio della felpa sollevato e le mani affondate nelle tasche.
“Mi hai scritto di raggiungerti. Che succede?” chiese, scrutandola con un misto di preoccupazione e curiosità.
Elisabeth abbassò lo sguardo. “Devo dirti una cosa… ma non so come farlo.”
Liam inclinò la testa di lato. “Allora dilla e basta.”
Lei si sedette accanto a lui sul muretto e fissò il marciapiede. “Parto stanotte. Per un anno.”
Il respiro di Liam si fermò per un attimo. “Cosa? Un anno? Dove?”
“In Italia. Ho vinto un tirocinio con Alessandra Ferri.”
Lui scosse la testa, come se le sue parole non avessero senso. “E quando avresti pensato di dirmelo? Prima di salire sull’aereo?”
“Non volevo ferirti. Non volevo che cambiasse niente tra noi.”
Liam rise amaramente. “Come può non cambiare niente, Eli? Te ne vai per un anno intero. E io…?”
Lei lo guardò, gli occhi lucidi. “E tu sarai sempre parte di me. Ma questo… questo è il mio sogno.”
Lui rimase in silenzio per un lungo momento, poi sospirò. “E io non posso fermarti.”
Il nodo in gola di Elisabeth si sciolse in un singhiozzo. Liam le prese il viso tra le mani e la baciò con una dolcezza disperata, come se volesse imprimere il ricordo di quella notte nelle loro anime.
Non parlarono più, il dolore e il desiderio mescolati nei loro respiri. Si rifugiarono nel suo appartamento, lasciandosi andare per l’ultima volta a tutto ciò che erano stati.
Alle cinque e mezza del mattino, Elisabeth uscì dalla porta, senza voltarsi indietro. Il taxi la aspettava. L’aereo l’avrebbe portata lontano, ma parte del suo cuore sarebbe rimasto lì, in quella notte senza tempo. Arrivata in aeroporto pensò tra se e sé:Ci siamo!
Il rombo dei motori si affievolì mentre l’aereo iniziava la discesa su Firenze. Elisabeth guardò fuori dal finestrino e il suo cuore perse un battito. La città si stendeva sotto di lei come un dipinto, i tetti rossi, l’Arno che serpeggiava tra le vie, le cupole e le torri che svettavano con eleganza antica.
All’arrivo, un uomo con un cartello recante il suo nome la attendeva all’uscita. “Elisabeth Falls? Sono Marco, collaboratore della casa editrice. Benvenuta a Firenze!”
Nel tragitto, Firenze le apparve ancora più magica. Ogni angolo sembrava raccontare una storia, ogni vicolo trasudava arte e cultura. Le facciate antiche, i balconi fioriti, le piazze animate da voci e suoni… era tutto così vivo.
Arrivarono davanti a un elegante palazzo nel cuore della città. “Questa sarà la tua casa per il prossimo anno,” disse Marco, consegnandole le chiavi. L’appartamento era piccolo ma accogliente, con una vista mozzafiato su Ponte Vecchio.
Dopo essersi sistemata, Marco la portò alla casa editrice. L’ufficio era un mix di antico e moderno, con scaffali colmi di libri e un’enorme vetrata che affacciava su un cortile interno. Sentì un brivido percorrerle la schiena: era qui che il suo sogno prendeva vita.
“Preparati, domani conoscerai Alessandra Ferri,” le disse Marco con un sorriso.
Elisabeth si lasciò cadere su una poltrona, il cuore colmo di emozione. La sua nuova vita era appena iniziata.
Dopo il suo primo giorno in ufficio, Elisabeth si incamminò verso casa, ma ben presto si accorse di essersi persa tra le strade intricate della città. L’atmosfera serale di Firenze era incantevole, ma la luce dorata dei lampioni non riusciva a dissipare il suo senso di smarrimento.
“Ti sei persa?” chiese una voce alle sue spalle.
Si voltò e vide un ragazzo della sua età, capelli scuri scompigliati e occhi verdi brillanti, una borsa da palestra a tracolla.
“Forse…” ammise Elisabeth, imbarazzata. “Sto cercando di tornare a casa, ma credo di aver preso la strada sbagliata.”
Lui sorrise con un’espressione divertita. “Dove abiti? Magari posso aiutarti.”
Dopo avergli dato l’indirizzo, lui annuì. “Sei dall’altra parte della città rispetto a dove dovresti essere. Vieni, ti accompagno.”
Camminarono fianco a fianco, scambiandosi poche parole, fino a quando arrivarono davanti al portone. “Ecco, sei salva,” disse lui con un mezzo sorriso.
“Grazie… ehm, come ti chiami?”
“Francesco.”
“Io sono Elisabeth.”
Si scambiarono un ultimo sguardo, un misto di imbarazzo e curiosità, poi lui si allontanò. Mentre saliva le scale, Elisabeth sentì un sorriso nascere spontaneo sulle sue labbra.
Quella sera, aprì il suo diario e scrisse delle sue prime impressioni su Firenze, sulle persone incontrate, sulle emozioni contrastanti. E su Francesco. Si sarebbero rivisti?
Elisabeth dormì poco e la mattina si svegliò prima che la sveglia suonasse. Si vestì in fretta, il cuore che batteva veloce per l’emozione. Durante la colazione, la mente correva veloce, immaginando il suo primo incontro con Alessandra Ferri.Si vedeva entrare nell’ufficio della scrittrice, la gola secca, le mani strette intorno alla cartellina con i suoi appunti. “Buongiorno, signora Ferri. È un onore essere qui. Ho letto tutti i suoi libri e la considero una delle voci più straordinarie della narrativa italiana.”E poi, cosa avrebbe detto Alessandra? Sarebbe stata severa? Accogliente? L’avrebbe guardata con sufficienza o con sincero interesse? Avrebbe dovuto dimostrare subito la sua determinazione. “Spero di poter imparare il più possibile da questa esperienza. Sono pronta a mettermi in gioco.”Scosse la testa, cercando di allontanare l’ansia. Sapeva che il primo impatto sarebbe stato fondamentale. Doveva fare una buona impressione, farle capire che non era lì per caso. Ma come? Forse mostrandole il suo lavoro, raccontandole da dove veniva la sua passione per la scrittura…Respirò profondamente e si incamminò verso l’ufficio. Firenze era avvolta da una luce morbida, il profumo del caffè proveniva dai bar aperti. Forse quell’incontro sarebbe stato diverso da come se lo aspettava. Forse, doveva solo lasciarsi sorprendere. Elisabeth entrò nell’ufficio con il cuore che batteva forte, il discorso che aveva preparato pronto sulle labbra. Ma la donna davanti a lei non era come se l’era immaginata. Aveva lo sguardo annoiato, il telefono in mano e una pila di fogli sparsi sulla scrivania. Non si scomodò nemmeno a guardarla quando entrò.”Buongiorno, sono Elisabeth Falls. È un onore essere qui,” disse con entusiasmo. Alessandra alzò appena lo sguardo, le labbra tese in un’espressione impassibile. “Sì, certo. Siediti.”Elisabeth si sedette, stringendo forte le mani sulle ginocchia. “Ho letto tutti i suoi libri e… la considero una delle voci più straordinarie della narrativa italiana. Spero di poter imparare il più possibile da questa esperienza.”La scrittrice sbuffò, posando finalmente il telefono. “Ti hanno già detto cosa farai qui?””No, ma sono pronta a mettermi in gioco e—””Bene. Prenderai appunti, leggerai le bozze, correggerai refusi. Non aspettarti niente di più.” Il cuore di Elisabeth sprofondò. “Certo, ma… pensavo che forse—”Alessandra la interruppe con un sorriso cinico. “Pensavi che ti avrei presa sotto la mia ala? Che ti avrei insegnato i miei segreti? La scrittura non si insegna, ragazza. Si sopravvive.” Fece una pausa. “Se riesci.”Elisabeth abbassò lo sguardo, ingoiando l’amarezza. Forse il suo sogno non sarebbe stato come lo aveva immaginato.
**Capitolo 2**
Il mattino seguente, Elisabeth si svegliò con il suono inconfondibile dei motorini che ronzavano come insetti impazziti sotto la finestra del suo piccolo appartamento a Firenze. Il sole filtrava tra le persiane socchiuse, già impietoso, già dorato, come se l’estate non avesse alcuna intenzione di rallentare.
Entrò in ufficio alle 9:07. Nessuno sembrò notarlo. La casa editrice era all’ultimo piano di un palazzo antico, con pavimenti in cotto e pareti tappezzate di libri dalle copertine vissute. Sul suo tavolo, una pila di bozze, alta come un bambino di cinque anni, la osservava con un’aria quasi minacciosa. Sopra, un post-it in una calligrafia impeccabile: “Da rivedere entro venerdì. Grazie. — A.”
“Venerdì? È mercoledì. Sono tre romanzi? O quattro?”
“Grazie? Per cosa, esattamente?”
Si lasciò cadere sulla sedia, lo zaino ancora a spalla. Respirò a fondo. Il profumo della carta stampata era una carezza familiare, ma oggi aveva un retrogusto amaro.
«Benvenuta all’inferno editoriale,» sussurrò tra sé, tirando fuori la penna rossa.
Scorse il primo paragrafo. Un romanzo d’esordio. Errori di punteggiatura come pioggia su un vetro sporco, frasi troppo lunghe, descrizioni barocche fino all’asfissia. Ma c’era qualcosa. Una voce. Timida. “Forse ha solo bisogno di una spinta. Come me.”
Il pensiero tornò ad Alessandra Ferri. Il suo sguardo tagliente, quel tono freddo al primo incontro. Cinica. “Come se fossi solo un’altra inglesina con il sogno del libro in tasca. Un altro tirocinante da dimenticare.”
Eppure, sotto quell’armatura sembrava esserci qualcosa. Una stanchezza? O una delusione mascherata da rigore?
Una bozza dopo l’altra, il tempo si sfilacciava. A mezzogiorno, Elisabeth aveva corretto 63 pagine. Aveva cerchiato, annotato, graffiato il margine con appunti ironici, che solo lei avrebbe capito.
“‘Le sue labbra si aprirono come fiori in primavera’… Davvero? Ma chi sei, Shakespeare ubriaco?”
Alle 13:30 uscì per un caffè. L’aria era densa, profumata di basilico e gas di scarico. Si sedette fuori, ordinò un espresso e aprì il taccuino. Iniziò a scrivere. Non per correggere, ma per sé.
Un frammento. Una scena. Una ragazza in una redazione, in bilico tra sogno e fatica.
“Scrivere è l’unico modo in cui riesco a non perdere pezzi di me.”
Tornò in ufficio con una nuova determinazione. Le bozze non erano un ostacolo. Erano un passaggio. Una prova. Un rito di iniziazione.
Forse, dopotutto, anche Alessandra era passata di lì. Forse era proprio così che si cominciava.
Stava per rientrare nell’edificio della casa editrice, il caffè ancora tiepido tra le dita, quando lo vide. Francesco era seduto su una panchina accanto al portone, con una bicicletta appoggiata di fianco e un libro aperto sulle ginocchia. I suoi ricci scuri erano arruffati dal vento, e portava lo stesso sorriso rilassato della sera in cui l’aveva aiutata a ritrovare la strada di casa.
«Ehi!» disse lui, alzando lo sguardo. «La ragazza smarrita!»
Elisabeth rise, sorpresa e un po’ sollevata di vedere un volto familiare. «Francesco, giusto? Non pensavo ci saremmo rivisti così presto.»
«Firenze è piccola. E poi, magari ti stavo seguendo,» aggiunse con una smorfia divertita.
Lei alzò un sopracciglio. «Stalker o destino?»
«Entrambi. Ma preferisco chiamarlo… tempismo poetico.»
Indicò il portone. «Lavori qui?»
«Tirocinio. Correggo bozze e cerco di non annegare sotto una montagna di manoscritti.»
«Un modo romantico per dire che ti sfruttano, insomma.»
«Esatto!» rise Elisabeth. «Ma almeno c’è il profumo di libri. E il caffè è buono.»
Un attimo di silenzio si distese tra loro. Leggero, naturale.
«Ti va se ci scambiamo i profili Instagram?» chiese Francesco, tirando fuori il telefono. «Così se ti perdi di nuovo, puoi mandarmi un messaggio prima di chiamare i carabinieri.»
Lei sorrise, divertita, mentre cercava il suo profilo. «Affare fatto. Ma solo se mi prometti che mi porti in un posto carino per pranzo uno di questi giorni.»
«Promesso. Firenze ha le sue chicche nascoste. E io ho una certa reputazione da guida alternativa da mantenere.»
Si scambiarono i telefoni per un istante. Quando le notifiche confermarono il follow reciproco, Elisabeth provò una sensazione leggera, come una finestra che si spalanca su un pomeriggio assolato.
“Un volto amico. Una promessa vaga di compagnia. Forse non sarà così difficile sentirsi a casa, dopotutto.”
«Ci vediamo in giro, allora,» disse lui,
risalendo sulla bici.
«A presto, stalker poetico.»
E mentre rientrava in ufficio, un mezzo sorriso le restava sulle labbra. Passarono velocemente le due settimane successive ed Elisabeth era sempre più immersa nel lavoro, tanto da non aver avuto nemmeno il tempo di “perdersi” di nuovo nei vicoli di quella città che tanto aveva sognato da ragazzina.
Era venerdì sera. Finalmente. Le ultime bozze di quella settimana erano state consegnate, il cursore del computer lampeggiava in una schermata vuota, e il silenzio nell’ufficio era quasi surreale. Elisabeth si appoggiò allo schienale della sedia, chiuse gli occhi per un attimo e sospirò profondamente.
Il weekend l’aspettava come un miraggio: letto, silenzio, forse un libro che non dovesse correggere, e nessun essere umano con cui interagire.
Fu allora che il telefono vibrò. Una sola notifica.
Il suono, familiare e neutro, sembrò improvvisamente carico di elettricità. Elisabeth lo guardò con un misto di sorpresa e, senza volerlo, un guizzo di speranza. Il nome sullo schermo era chiaro: Francesco.
Il cuore accelerò, impercettibilmente. Un battito più forte degli altri. Un calore improvviso le salì lungo la schiena, come se l’aria si fosse fatta più densa.
“Finalmente. Dopo settimane di nulla… perché ora? Perché proprio stasera?”
Si morse il labbro, esitando un secondo prima di sbloccare lo schermo. Il pollice tremava appena. C’era qualcosa di ingenuamente eccitante nel sapere che lui stesse pensando a lei proprio adesso.
Aprì il messaggio.
“Ciao! Sopravvissuta al mare di bozze o sei ancora sepolta sotto carta e virgole sbagliate? Volevo chiederti se ti va di prenderci qualcosa insieme. So un posto perfetto. Fammi sapere.”
Un sorriso le si allargò sulle labbra senza che potesse evitarlo.
“Sopravvissuta… già, forse sì. Ma non del tutto , sono a pezzi.”
Il cuore ancora un po’ veloce, le dita già corsero a rispondere.
Ma prima, si fermò un attimo. Chiuse gli occhi. E si lasciò cullare per qualche secondo da quella sensazione frizzante, quell’adrenalina dolce che sa di attese, coincidenze.
Elisabeth rispose con un mezzo sorriso, ancora scompigliata dal misto di stanchezza e sorpresa.
“Sì, sono sopravvissuta… a malapena! Settimana di fuoco, sono esausta. Avevo in mente una serata da eremita: divano, asporto e silenzio assoluto.”
Nemmeno due minuti dopo, arrivò la risposta:
“Silenzio? Ma che noia. E poi chi ha detto che l’asporto non può arrivare con un servizio personalizzato, magari con un sorriso in omaggio?”
Lei rise, scrollando la testa.
“Ma guarda questo… si propone pure come bonus.”
“Fattorino personale, pronto all’azione. Dimmi cosa vuoi e arrivo. Bonus simpatia incluso.”
“Attento a quello che dici, potrei approfittarne. Ho un debole per le pizze con troppo formaggio e per i dolci inutilmente elaborati.”
“Perfetto. La mia specialità è la pizza doppia mozzarella e i dolci esagerati. Ti porto qualcosa io, fidati.”
“Quindi stai dicendo che ti prendi la responsabilità totale del mio pasto del venerdì sera?”
“Assolutamente. Ma c’è una clausola: si mangia insieme. È scientificamente provato che il cibo condiviso ha il 43% in più di gusto.”
“Oh, pure le statistiche. Allora porta quello che piace a te… e dividiamo tutto. Così non litighiamo per l’ultimo morso.”
“Trattativa chiusa. Arrivo per le otto. Prepara le posate… o almeno i tovaglioli.”
Elisabeth appoggiò il telefono sul tavolo e restò qualche secondo immobile. Il sorriso le si era stampato addosso senza sforzo.
“Divano e silenzio possono aspettare. Forse anche l’eremitaggio.”
E per la prima volta da quando era arrivata a Firenze, quella casa non le sembrò più così vuota. Alle 19:12 Elisabeth guardò l’orologio e si alzò di scatto. Aveva ancora addosso la maglietta larga con la stampa sbiadita di un festival letterario e i leggings con un buco minuscolo sul ginocchio.
“No, no, così no. Ma nemmeno troppo… elegante. Tranquilla, è solo cibo. Solo compagnia. Solo… lui.”
Frugò nell’armadio con l’ansia delle grandi occasioni non dichiarate, scartando vestiti uno dopo l’altro, finché trovò un maglione morbido color crema e un paio di jeans che le stavano bene senza sforzo. I capelli li raccolse in uno chignon spettinato — abbastanza curato da sembrare involontario. Si spruzzò un tocco di profumo, poi si odiò per averlo fatto.
“Non stai andando a un appuntamento, giusto? Giusto?”
Alle 19:27 cominciò a sistemare il soggiorno. Una passata rapida con lo sguardo: via la tazza con la scritta sarcastica, via il calzino solitario vicino al divano, via anche i fogli sparsi con le correzioni rosse. Accese una lampada d’angolo — luce calda, invitante — e mise due bicchieri su un piccolo vassoio con qualche oliva, dei taralli e quel formaggio che aveva comprato senza sapere perché.
“Improvvisazione totale. Ma sembra quasi… pensato. Ugh.”
Alle 19:45 si sedette sul divano, poi si rialzò. Si guardò allo specchio. “Calma. È solo Francesco. Quello simpatico, quello della bici, quello che… ok, sì, è carino. Ma niente panico.”
Alle 20:00 spaccate, il citofono suonò. Quel trrr improvviso le fece sobbalzare come una ragazzina. Premette il pulsante senza dire nulla e aprì. Pochi secondi dopo bussarono alla porta.
Si avvicinò, respirò. Una. Due volte. Aprì.
Francesco era lì, con due sacchetti in mano, una felpa grigia, i capelli arruffati dal vento e un’espressione quasi stupita — come se anche lui non si aspettasse davvero di essere lì.
«Ehi,» disse, con quel tono mezzo ironico, mezzo timido.
«Ehi,» rispose lei, spostandosi di lato. «Benvenuto nel mio rifugio post-trauma editoriale.»
Entrò, e per un attimo ci fu silenzio. Il tempo sembrava trattenere il fiato. Si scambiarono uno sguardo che durò un secondo di troppo. Quegli attimi in cui non sai bene cosa dire, ma senti tutto.
«Ho portato pizza con troppa mozzarella, come promesso. E una cosa dolce, ma non chiedermi che cos’è, mi sono fidato della signora dietro il bancone.»
«Ottima strategia. Hai scelto con lo stomaco e un pizzico di destino.»
Si avvicinarono al tavolino dove Elisabeth aveva preparato l’aperitivo improvvisato. Francesco notò il vassoio, le luci morbide, l’atmosfera calda. Alzò un sopracciglio, ma con un sorriso gentile.
«Wow. Questo è il miglior servizio da asporto mai ricevuto.»
Lei si sedette, incrociando le gambe per non sembrare agitata. «Tanto vale far finta che sappia vivere.»
Le dita si sfiorarono mentre prendevano i bicchieri. L’elettricità fu silenziosa, quasi impercettibile, ma reale. Come quella tensione bella che si sente al liceo, quando ogni gesto sembra avere un peso doppio.
Lui la guardò per un attimo in più. E lei abbassò gli occhi, sorridendo di sbieco.
Fu così, in mezzo a una pizza filante e al dolce misterioso, che qualcosa cominciò davvero. Con la lentezza degli inizi sinceri, e la delicatezza delle storie che non hanno ancora un nome.
La serata scorreva leggera come vino buono. Tra una fetta di pizza troppo calda e battute che si rincorrevano senza filtro, Elisabeth rideva con quella libertà rara che si prova quando ci si dimentica per un attimo di chi si è, di dove si è finiti, del perché. Francesco era brillante, presente, e c’era una dolcezza spontanea nei suoi gesti — nel modo in cui le passava il bicchiere senza chiederle nulla, o quando ascoltava davvero le sue parole, senza riempire gli spazi con parole inutili.
Il tempo sembrava dilatato, ma anche veloce. Si erano avvicinati sul divano, non troppo, ma abbastanza da sentire che quella distanza, se solo avessero voluto, avrebbe potuto svanire in un istante.
Fu allora che il telefono squillò. Un suono improvviso, secco, che ruppe l’incantesimo. Elisabeth lo afferrò quasi d’istinto, ancora ridendo per l’ultima battuta di Francesco, ma il sorriso le morì sulle labbra appena vide il nome illuminarsi sullo schermo: Liam.
Il cuore le fece un balzo sordo.
“Liam. Dopo tutto questo silenzio. Dopo giorni a chiedermi se avesse senso.”
Lo schermo mostrava solo un’anteprima:
“Possiamo parlarne? Mi manchi.”
E come un’onda gelida, tutto l’entusiasmo della serata fu travolto. Francesco stava ancora parlando, ma la voce di lui le arrivava ovattata, lontana. Lo sguardo di Elisabeth era fisso sul telefono, come se fosse una ferita aperta improvvisamente.
Lei lo abbassò lentamente, lo poggiò sul tavolino, cercando di ricomporsi. Ma l’atmosfera era cambiata. Anche Francesco se ne accorse. La risata che stava uscendo dalle sue labbra si spense a metà, e il suo sguardo si fece più attento.
«Tutto ok?» chiese, con un tono morbido, quasi cauto.
Lei annuì troppo in fretta, come se bastasse quel gesto a cancellare l’impatto del messaggio. «Sì… solo una cosa. Niente di che.»
Ma il disagio si era insinuato tra loro. Come un ospite invisibile e scomodo, seduto proprio lì in mezzo al divano. Elisabeth si sentiva divisa in due: da una parte il calore della serata con Francesco, la possibilità di qualcosa di nuovo, sincero; dall’altra Liam, e tutto ciò che non era riuscita a chiudere davvero. La voce, il volto, i ricordi ancora troppo freschi.
“Perché ora? Perché proprio stasera? Quando per un attimo mi ero lasciata andare.”
Si passò una mano tra i capelli, cercando di non farsi leggere troppo facilmente. Ma Francesco la guardava con uno sguardo silenzioso, consapevole. Non fece domande, ma abbassò gli occhi sul bicchiere, lasciandole spazio.
La conversazione riprese, a fatica. Le battute diventarono più deboli, i sorrisi più forzati. Eppure, in mezzo a quel disagio, c’era anche una sincerità nuova: quella che arriva quando la perfezione si incrina, e resta solo la verità.
Elisabeth capì che il passato non si lascia mai indietro così facilmente.
Il calore della serata si era come assottigliato, lasciando spazio a un silenzio fragile che si insinuava tra le parole. Elisabeth cercava di partecipare alla conversazione, ma il suo sguardo si perdeva spesso nel vuoto, e ogni suo sorriso aveva perso quella spontaneità che, solo mezz’ora prima, li aveva avvolti come una coperta condivisa.
Francesco, che fino a quel momento si era mosso con leggerezza, con quella disinvoltura gentile che aveva reso tutto facile, capì. Lo vide nei suoi occhi, in quel battito di ciglia troppo lungo, nella tensione leggera delle mani poggiate sulle ginocchia.
Non servivano spiegazioni. Non servivano parole.
Sollevò il calice, finendo il vino con un sorso lento, quasi simbolico. Poi si appoggiò allo schienale del divano con un mezzo sorriso, appena tirato.
«Forse è il vino… o forse la settimana lunga, ma credo che cominci a girarmi un po’ la testa,» disse, cercando di tenere il tono leggero, quasi scherzoso.
«Credo che mi avvierò verso casa. Prima che mi addormenti qui sul tuo divano.»
Elisabeth annuì subito, come se stesse aspettando proprio quel momento per potersi rimettere in ordine dentro.
«Sì, certo. Ti capisco. Anche io sono… un po’ stanca.»
Si alzarono quasi insieme. I movimenti misurati, impacciati nella loro finta naturalezza. Nessuno dei due sapeva bene come concludere quella serata che aveva preso una piega diversa, improvvisa. Un passaggio da potenziale a trattenuto. Da possibilità a pausa.
Francesco si mise la giacca, e nel farlo lanciò un’ultima occhiata al tavolino, ai bicchieri ormai vuoti, al vassoio con i taralli rimasti.
«È stata una bella serata comunque,» disse, con quella sincerità gentile che non voleva pesare, ma voleva restare vera.
Elisabeth sorrise, più con lo sguardo che con le labbra. «Sì, lo è stata.»
Si guardarono un istante in più, come se volessero dire qualcosa di più chiaro, ma alla fine rimasero sospesi.
«Ci sentiamo?» chiese lui, già con la mano sulla maniglia.
«Sì, ci sentiamo,» rispose lei, con un tono lieve, che cercava di non tradire l’eco di qualcosa che si era incrinato.
E poi fu solo il rumore lieve della porta che si chiudeva. Il silenzio che tornava. Il profumo del vino e della pizza ancora nell’aria.
E un messaggio non letto, lì, sullo schermo del telefono.
Uno chiudeva la serata.
L’altro rischiava di riaprirne troppe.
**Capitolo3 **
Il primo incontro tra Elisabeth e Liam fu tutt’altro che cinematografico. Nessuno scontro casuale in una libreria, nessun caffè rovesciato addosso o sguardi incrociati sul treno. Si erano conosciuti in una sala conferenze grigia, durante un seminario universitario su narrativa contemporanea. Lui era seduto due file dietro, e durante una pausa, si era avvicinato con la scusa di chiederle un riassunto dei primi venti minuti: «Mi sono perso l’inizio. E mi sembravi una che prende appunti anche per sport. Mi salvi?»
Elisabeth lo guardò con le sopracciglia leggermente sollevate e un sorriso appena accennato. La trovò subito diretta, con quella lucidità tagliente che spesso metteva in soggezione. Eppure, Liam sembrava divertirsi. Più lui insisteva, più lei si mostrava diffidente. Quel corteggiamento durò settimane. Si incontravano casualmente nei corridoi della facoltà, poi ai distributori di caffè, poi alle presentazioni di libri che a lei piacevano e che lui, improvvisamente, sembrava scoprire interessanti.
Fu un corteggiamento lento, paziente, quasi artigianale. Liam non forzava nulla, ma si faceva trovare sempre nel posto giusto. Condivideva poesie che “stranamente” parlavano di temi che lei adorava, oppure le lasciava messaggi scritti a penna tra le pagine dei libri della biblioteca, come biglietti segreti da scoprire. Elisabeth, col tempo, cominciò a sciogliersi. Si accorse che lo aspettava. Che sorrideva prima ancora di vederlo, solo immaginando che sarebbe comparso.
Quando si misero insieme, lo fecero quasi in silenzio. Una sera, dopo un’altra presentazione di poesia, si baciarono all’uscita di una piccola libreria nel quartiere di Camden. Nessuno dei due disse nulla. Ma fu chiaro che da quel momento sarebbero stati “noi”.
La loro storia, però, non fu mai lineare. Entrambi orgogliosi, testardi, sensibili fino all’eccesso. Elisabeth aveva i suoi silenzi lunghi, Liam la sua tendenza a evadere ogni volta che le cose diventavano troppo intense. Si amavano in modo viscerale, ma spesso sembravano parlarsi da due stanze diverse. Lui cercava di prenderla quando lei stava già fuggendo; lei voleva capirlo quando lui stava già zittendo ogni emozione.
Uno dei momenti più vividi, quello che Elisabeth ricordava con più nostalgia e dolcezza, fu quella volta in cui, senza preavviso, decisero di fuggire. Era un sabato grigio a Londra. Elisabeth era stanca, emotivamente esausta dopo una discussione pesante con Liam la sera prima. Si erano svegliati in silenzio, ciascuno col proprio caffè, occhi bassi. Ma poi Liam aveva alzato lo sguardo con quella luce negli occhi che lei conosceva bene.
«Vieni con me?» le aveva detto semplicemente, mentre prendeva le chiavi e lo zaino.
«Dove?»
«Alla stazione. Scegliamo il primo treno che parte.»
Mezz’ora dopo erano su un regionale diretto a Brighton. Nessun bagaglio, solo una borsa con un maglione e una camicia di ricambio per ciascuno. Elisabeth ricordava ancora il vento freddo del mare fuori stagione, la passeggiata lungo la spiaggia deserta, le patatine fritte mangiate in cartoccio con le mani intorpidite. Avevano camminato per ore, parlando di tutto e di niente. Si erano fermati in una pensione economica dove la stanza puzzava leggermente di muffa, ma dove fecero l’amore come se il mondo fuori non esistesse.
Il giorno dopo presero un altro treno, senza meta. Fecero tappa in una cittadina minuscola, bevvero birra in un pub vuoto e risero fino a farsi male allo stomaco. Liam la guardava come se fosse l’unica persona rimasta sulla terra. E lei si sentiva così: unica, scelta, invincibile.
Fu una fuga di due giorni, ma sembrò una parentesi lunga una vita. Nessun litigio, nessuna paura. Solo presenza. Solo loro due, come avrebbero sempre voluto essere.
Ma il ritorno a Londra fu un ritorno alla realtà. Ai vecchi equilibri. Alle incomprensioni e ai silenzi. La loro storia continuò ancora per mesi, fatta di alti e bassi, di momenti di tenerezza seguiti da settimane di distanza emotiva. Finché arrivò quella mail.
E adesso, quel messaggio improvviso, proprio mentre Elisabeth stava provando a ricominciare, aveva il sapore dolce e crudele del passato che non sa restare tale. Il messaggio di Liam era rimasto lì, sullo schermo del telefono, come un faro acceso nella nebbia. Elisabeth non ebbe la forza – né il coraggio – di rispondere. Lasciò che la sera scorresse, tra lenzuola stropicciate e pensieri aggrovigliati. Il cuore le pulsava piano nel petto, come se fosse in standby, e ogni volta che lo sguardo le cadeva su quella notifica, una parte di lei vacillava.
Così fece la scelta più semplice: ignorare. O forse solo rimandare.
Durante la notte dormì poco. Si rigirò tra le coperte con la mente ancorata al passato, rivivendo le immagini di Brighton, i treni presi senza meta, il sapore delle risate con Liam, ma anche il peso dei silenzi, delle porte chiuse in faccia, delle troppe parole mai dette.
Quando il primo raggio di luce filtrò timido dalla finestra, Elisabeth era già sveglia. Aveva il telefono accanto al cuscino, lo sguardo fisso sul soffitto. Lo prese con un gesto meccanico, quasi rassegnato, certa che avrebbe trovato un nuovo messaggio di Liam. Forse un altro tentativo. Forse una spiegazione. Forse qualcosa che avrebbe complicato tutto ancora di più.
Invece no.
Sul display, in cima alle notifiche, c’era un messaggio di Francesco.
“Buongiorno. Ieri sera il vino era forse troppo sincero… ma la compagnia valeva ogni imbarazzo. Come stai stamattina? Hai salvato almeno una fetta di pizza o dobbiamo organizzare una missione di recupero?”
Elisabeth lo lesse due volte.
Prima per capire davvero. Poi per assaporare la leggerezza.
Un sorriso le sfuggì piano, il primo sincero da ore. Quel messaggio era come un sorso d’acqua fresca dopo una notte insonne: semplice, autentico, disarmante.
E, soprattutto, non chiedeva nulla. Non pretendeva risposte complicate, non cercava chiarimenti. Solo un “come stai?”, come se il suo presente fosse ancora tutto da scrivere.
Per un attimo restò lì, il telefono tra le dita, indecisa tra il passato che batteva ancora forte e il presente che, piano piano, provava a farsi spazio.
Poi, con un sospiro lento e quasi riconoscente, cominciò a scrivere.
Non una risposta lunga, non ancora. Ma abbastanza da dire che c’era. Che Francesco, in qualche modo, aveva trovato il modo giusto di esserci.
“Buongiorno a te. Sto… un po’ incasinata, ma ci sono. La pizza è finita, ma potrei aver salvato almeno un tarallo superstite. Vale qualcosa?”
E mentre premeva “invia”, si accorse che, per la prima volta dopo tanto, si sentiva più leggera.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.