class=”s1″>«Il nostro obbiettivo è San Pepato.» Rivelò passandosi il dorso della destra sulle labbra piacevolmente brucianti. «Il monastero nella provincia di Monteramo? Ci sono solo vecchi.» Obbiettò Vincenzo. «Se lo lasci parlare, forse…» Pupo lo ammonì con il silenzioso appoggio dell’orco. «Il curioso va all’inferno.» Scherzò l’occhio pesto.
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Dai piccoli faggi e olmi emerse la figura maestosa in sella al bianco destriero e l’armatura riparata da innumerevoli battaglie. Astolfo urlò a squarciagola per farsi udire dal gigante. «Buongiorno Perdersante, sei pronto?» L’immensa figura annuì con la testa ciclopica sfoggiando un sorriso genuino. «Inginocchiati ponendo la testa verso la sponda del lago.» Diede fondo a quanto fiato avesse in corpo e buona parte delle sue corde vocali. Il gigante obbedì e generando un lieve terremoto s’alzò in piedi per poi girarsi con la testa verso il lago e le brache rivolte al sole. Il cavallo nitrì impaurito. «Gloria all’altissimo.» Disse il paladino a tono normale temendo di finire schiacciato. Si portò a cavallo inoltrandosi nelle acque del lago iniziando a recitare una formula in latino. Il paladino stava urlando, parole santissime e degne di fede senza dubbio, ma alle sue orecchie stridevano lontane.
Si grattò l’orecchio destro con il mignolo per udire meglio. Frammenti di cerume s’abbatterono sul cavaliere come una frana che il sant’uomo riuscì a schivare, lasciando affondare i massi giallognoli tra i flutti. «Ora io t’immergerò e ti battezzerò, tu ti alzerai non più come gigante, bensì come catecumeno. Un figlio di Dio che ha accettato i sacramenti. Sei pronto?» Perdersante sorrise. Aveva appreso che era meglio non parlare troppo vicino ai piccoli uomini perché la sua voce ne aveva uccisi alcuni e fatti impazzire altri. Poggiò il viso sul pelo dell’acqua, il paladino affondò il guanto d’armi tra la foresta di capelli che si diramavano dalla testa del gigante. Per quanto forza tentasse d’impiegare non riusciva a far sprofondare la testa di un solo pollice, così vi montò sopra e iniziò a saltare ripetutamente. Perdersante sentì una pulce o un pidocchio farsi più fastidioso del solito e intuendo si trattasse del segnale del paladino immerse più che poté il viso tra i flutti. Astolfo precipitò in acqua annaspando tra il crine bagnato che lo cinse a sé come alghe stritolanti. Sguainò la spada e iniziò a vibrare colpi ciechi nella speranza che l’altissimo guidasse la sua mano per poter riemergere a prendere aria, ma armatura e spada lo trattenevano in acqua più saldamente dei capelli in cui si era ritrovato. Doveva sperare che il gigante rialzasse al più presto la testa per poter così tornare a respirare. Quando uno dei fendenti ciechi colpì il cranio di Perdersante la parola di Dio si mantenne.
Il gigante si destò di colpo per la puntura ricevuta, e anche perché un pesce nuotando gli era finito nell’occhio, e iniziò a dimenarsi alzando grandi quantità di schizzi che ripiovevano nelle acque e sulle sponde. Il cavallo tentò di tornare sulla riva, ma le onde create dal moto del gigante lo fecero capitolare e lo spinsero a largo. Astolfo riprese aria appena in tempo per urlare la formula battesimale, perché ne aveva avuto abbastanza di quel battesimo, e riprendere quanto più fiato possibile. Perdersante tentò di placarsi e si stropicciò gli occhi per rimettere in acqua il pesce che gli era rimasto impigliato nella palpebra. Finalmente libero il paladino si ritrovò con un fil di voce e poco fiato che bruciava nei polmoni, non ritenendosi udito dal gigante batté di nuovo i piedi sulla testa e questi, credendolo una mosca fastidiosa, per istinto si colpì con il palmo aperto. Una serie di rumori sordi e di frattura accompagnò una sensazione viscida e disgustosa che coagulava sul palmo del gigante. Quando si portò il palmo al cospetto degli occhi abbracciò la triste fine del prode cavaliere che se ne stava spappolato e smembrato come una zanzara schiacciata da un battimano.
«O, altissimo Signore, che cosa ho fatto?» Tuonò il gigante. Avrebbe voluto pulirsi la mano in acqua per sciacquare via le budella e le interiora, ma ritenne opportuno portare i resti del sant’uomo alla chiesa più vicina, perché secondo la loro fede, che ora era anche la sua, le salme e i resti dei santi servono l’onnipotente e i buoni cristiani anche dopo la morte. Iniziò a correre compiendo grandi falcate che scatenavano scosse nel terreno e agitavano le chiome degli alberi facendo fuggire gli animali. Si fermò solo alla vista del monastero D’Alba che prima era solito assediare con i suoi fratelli a suon di massi contro le mura e le vetrate colorate dalle vite dei santi, mentre ora si ricordò d’avvicinarsi a passo lento, quasi in punta, per non creare problemi. Il sole, oramai alto, faceva risplendere di luci color arcobaleno le vetrate e donava un alone dorato all’aureola poggiata sulla testa dei religiosi.
Fra Batacchio aveva udito, come il resto dei suoi confratelli, l’arrivo del gigante e s’era affrettato ad attenderlo sull’uscio. Il gigante scorgendone la magra figura in lontananza iniziò a tuonare con la voce per richiamarlo. Il frate attendeva compiaciuto ritenendo che avesse voluto anticipare la venuta del prode Astolfo per declamare il proprio battesimo. Quando Perdersante si fermò il sorriso del religioso si trasformò in una smorfia di terrore e disgusto scorgendo il cadavere macellato sul palmo del battezzato. Un conato di vomito eruttò involontario andando a sporcare la tonaca e i sandali dell’uomo. «Per tutti i diavoli dell’inferno, che possano sprofondare. Che è successo al buon Astolfo?» Il gigante tentò di narrare l’accaduto a bassa voce, che comunque manteneva la potenza di un temporale, e con gli occhi gonfi di lacrime si lasciò cadere a terra in ginocchio, generando scosse telluriche e imprecazioni che s’alzarono dal monastero nell’alto dei cieli. Dopo essere caduto nel proprio vomito Fra Batacchio rigurgitò nuovamente e pregò il santo padre di dargli forza o reclamarlo a sé seduta stante. Piove sempre sul bagnato e, infatti, il gigante iniziò a versare lacrime salate che inondarono le scalinate e l’uscio del monastero accompagnandosi a stridule grida che echeggiarono per tutta la valle. Il buon frate doveva trovare alla svelta una soluzione, magari una definitiva ora che Astolfo era stato richiamato in cielo chissà quando e semmai gli avrebbero inviato un altro paladino esaltato per la questione dei giganti. Si disse che i maroni non servono solo per bellezza ed era giunto il momento di combinarli al cervello.
«Basta piangere, Dio, nella sua infinita grazia, ti ha già perdonato.» Urlò più volte il prete fino a placare il pianto isterico del gigante.
«Ora che non potrai seguire più Astolfo nella sua impresa- a tal proposito, poggia le sacre spoglie a terra- dovrai ricercare tu un paladino a cui fare da scudiero per guadagnarti il perdono e un posto al cospetto del Padre.» Avrebbe voluto stringersi la mano da solo per quell’idea. Perdersante sembrò convincersi e ascoltava attento, mentre con alcune fronde strappate dagli alberi si ripuliva il palmo lordo di frattaglie di paladino.
«Come troverò un paladino?»
«Lo riconoscerai dalla sua fede e dalla sua armatura, lo accompagnerai nella sua missione di raddrizzare i torti di questo mondo così lontano dal volere del Signore, ma che, nella sua infinita bontà, ci ha prodigato di questi angeli in terra.» Salmonò Fra Batacchio.
«E il crocefisso?» Domandò mostrando tra i polpastrelli una piccolezza splendente. Il prete cercò di aggiustare la vista, ma non riusciva a scorgere la piccolezza nella stretta immensa delle falangi di Perdersante, immaginò si trattasse del crocefisso che Astolfo gli avesse donato per convincerlo a convertirsi dopo averlo terrorizzato a morte con mille storie sull’inferno e l’Avversario. Perdersante s’alzò in piedi e si batté il pugno chiuso sul cuore per poi sfoggiare la sua abilità nel segno della croce, le cui movenze per poco non falciavano un torrione del monastero, che non aveva potuto mostrare al paladino, suo più grande rimpianto.
«Molto bene.» Sentenziò il monaco e dopo averlo benedetto a sua volta con un segno della croce lo esortò ad intraprendere la propria via. Dopo aver errato seguendo il percorso del fiume Strozzato, che con tutti i suoi affluenti attraversava e irrigava la regione, avvertì i morsi della fame e decise di fermarsi per pescare a piene mani dal fiume come aveva sentito fare da qualcuno nelle storie dei padri e dei santi. Aveva quasi vuotato il fiume quando la sua pancia sì riempì a metà, doveva trovare un paladino a cui offrire i suoi servigi al più presto per potersi guadagnare un crocefisso e un posto in paradiso, e forse con la fede avrebbe placato anche lo stomaco. Si concesse qualche ora di sonno ristoratore per ripartire domattina di buon’ora. Al canto del gallo era già all’opera e in punta di piedi si era avvicinato ai villaggi che gli apparivano mentre vagava nella regione. Con ognuno la solita solfa: gli occorreva un paladino per poterne trovare un altro, era sempre più difficile convincere le brave genti che non voleva né mangiare né predare, ma solamente informazioni su nobili uomini in odore di santità. Peccato che nessuno sembrava conoscerne, o quantomeno averne sentito mai parlare. Dopo giorni stanchi e ripetitivi si era spostato nelle terre più occidentali della regione dove poteva riposare all’ombra degli appennini. Perennemente affamato perché non poteva più nutrirsi a sazietà da quando si era convertito. Poiché, secondo quanto spiegato da Fra Batacchio “se ti nutri a volontà per gli altri non resterà nulla, affinché tutti possiamo goderne occorre che ogni figlio del creatore si limiti”. Gli sembrò di udire nel sonno la voce del buon prete che echeggiava nella sua testa. Le parole gli ronzavano dentro come mosche fastidiose che non riusciva a scacciare, al pari del borborigmo che albergava nel suo stomaco. La voce si trasformò nel rumore di zoccoli che avanzavano ad agio. Spalancò l’occhio destro e scorse al suo cospetto una figura in armatura e cavallo. L’armatura di metallo fiammeggiante portava inciso sul pettorale un barbadragianni ad ali spiegate da cui scendevano cappi come sentenze. Il cavaliere se ne stava tronfio e irto sul destriero a pochi passi dal suo ventre sdraiato per metà. La gioia che lo assalì nella speranza di trovarsi innanzi a un vero paladino lo fece scattare in piedi dimenticandosi di quella quisquiglia di terremoto che puntualmente generava. Il cavaliere barcollò assieme alla propria cavalcatura ma entrambi riuscirono a restare in piedi.
«Se mai avrò una mia casata il mio motto sarà: Barcollo ma non mollo!» Dichiarò il nuovo venuto ad alta voce, non certo che il gigante lo avesse udito. «Sei un paladino?» Chiese Perdersante senza troppi convenevoli. Il cavaliere annuì con il capo.
«Sei tu il gigante che erra di villaggio in villaggio chiedendo di un paladino a cui fare da scudiero?» Gridò.
«Sono proprio io!» Gridò ancora più forte.
«Mi permetterai di farti da scudiero?»
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