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Storie di Vita e Di Morte

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Consegna prevista Dicembre 2025

È un viaggio tra la vita e la morte, dove ogni storia illumina l’ombra dell’altra. La morte non è un’ombra minacciosa che attende nell’oscurità, ma una presenza silenziosa, spettatrice delle nostre vite e compagna del nostro ultimo passo. Non è nemica né carnefice, ma colei che ci accompagna altrove quando il tempo si esaurisce. Eppure, porta su di sé il peso di tutte le colpe, come uno spazzino che ripulisce le strade dalle foglie cadute, prendendosi la responsabilità dell’autunno. Ogni racconto che parla della Morte porta con sé una riflessione sulla vita, su ciò che essa è davvero, in contrapposizione alla fine. Ci spaventa così tanto la morte da dare per scontata la vita. Vivere, amare, respirare: atti quotidiani che diventano secondari finché il pensiero della morte non li riporta in primo piano. Perché la morte è unica, irripetibile. È il giorno più singolare della nostra esistenza, proprio come lo è stato quello della nostra nascita.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questi racconti cercando risposte tra i miei pensieri. Cosa succede dopo la vita? Non solo a chi parte, ma anche a chi resta. Questo libro è il mio modo di esplorarlo, una riflessione sulla perdita e su ciò che lascia dentro di noi. Vorrei che fosse una piccola luce, un sostegno, una pacca sulla spalla per chi è rimasto, per chi ha dovuto affrontare una perdita importante.

ANTEPRIMA NON EDITATA

L’ULTIMO BALLO

Sai, tutto sommato la mia vita non è stata niente male. Non che sia sempre stata perfetta, ma ne ho comunque fatto quel che volevo.

Ho una moglie bellissima che amo, ho amato e amerò sempre con tutto me stesso e un figlio frutto della nostra cosı̀ perfetta alchimia.

Il mio lavoro mi ha sempre reso felice. Ho studiato medicina e sono diventato medico in uno dei più

importanti ospedali del paese. Per anni ho lottato contro la morte, o almeno ci ho provato. Ho provato a salvare tante, tantissime vite, anche quando consapevole che le possibilità di successo erano praticamente nulle. Posso dire di averci almeno provato con tutto me stesso, fino alla fine.

Una volta mi capitò in cura un anziano signore molto malato e, come sempre, feci del mio meglio per garantirgli qualche momento in più a questo mondo. Si chiamava Sam ed era un brav’uomo rimasto solo ormai da qualche tempo, ma non gli chiesi mai troppo su di sé: per lo più, gli tenni compagnia. Peggiorava col passare dei giorni, lo sapeva e sembrava non curarsene troppo. Apprezzavo la sua serenità, nonostante tutto, lui restava tranquillo. Avevamo un bel rapporto, eravamo sempre felici di passare del tempo insieme.

«Sei probabilmente l’ultima persona che vedrò, e ne sono felice», mi diceva. Ma la sua condizione continuò a peggiorare inesorabilmente.

Un giorno, mentre gli riesaminavo tutti i valori, con poca voce mi chiese di avvicinarmi e disse:

«Ho passato la mia vita a combattere per raggiungere ciò che desideravo. Non ho grossi rimpianti, ma anche se ne avessi, adesso sarebbe troppo tardi. E in fondo, chi siamo noi per decidere di combattere la morte? Io non ne ho più voglia, sono stanco, vorrei invece che mi accompagnasse là dove è deciso che io adesso vada. Perché rallentarle il lavoro? La mia vita ora è nella sua gelida mano e io voglio affidarmici, è più amichevole di quello che si pensi, credimi. Per favore, non combatterla più».

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Non ebbi la forza di rispondere, rimasi di sasso. Era forse uscito di testa? Prima che lasciassi la stanza mi strinse la mano e annuì con un mezzo sorriso. Quella stessa notte, Sam morì.

Tutto il duro lavoro di una vita mi si sgretolò davanti. Quanto avevo realmente inciso? Quante vite

avevo effettivamente salvato e quante, invece, solo allungato di qualche giorno? Come un pugno, mi colpì l’improvvisa convinzione che l’ineluttabilità della morte conducesse questa sfida ben oltre le nostre possibilità.

Se salvare le vite era il mio lavoro, ora mi si presentava davanti un grande punto interrogativo. Presi dei giorni liberi nel corso dei quali misi in discussione tutta la mia vita e infine decisi di abbandonare la mia professione, ma chiesi di poter rimanere come volontario nel reparto terminali per poter accompagnare con serenità le persone all’inevitabile fine.

Passai molto tempo con diversi pazienti e fu incredibile per me poter trascorrere tante ore a conoscere le persone più sagge sulla Terra.

«Credo che nel momento in cui siamo finalmente consapevoli del nostro destino – rispondevo a chi mi chiedeva perché avessi scelto di propormi come volontario – la morte ci doni il massimo della sua saggezza e ci lasci sempre qualcosa di significativo da dire a chi è lı̀ pronto ad ascoltare».

Non avendo in cura nessuno di quei pazienti, potevo semplicemente sedermi a parlare loro, e cosı̀

cominciai a vedere la morte non più come cattiva o ingiusta, ma come un’innocente ambasciatrice a cui

viene affidato il compito di recapitare l’ultimo messaggio per ognuno di noi. Un boia al servizio del destino, senza scelta e, anzi, con il più duro dei lavori. Cominciai piuttosto a provare del sincero rispetto nei suoi confronti. Capivo finalmente quanto fosse difficile assumersi la piena responsabilità della scomparsa di qualcuno.

Trascorsero alcuni mesi che utilizzai per studiare approfonditamente il momento del trapasso e trovai diversi pazienti ben disposti a parlarne. In molti – quasi tutti, in realtà – mi spiegavano di come si iniziava ad accettare l’inevitabile. Alla fine della corsa, tutti prendiamo coscienza della nostra impotenza e ci lasciamo semplicemente andare. C’è chi lo accetta subito e chi lotta fino all’ultimo, ma in

entrambi i casi siamo noi a scegliere di lasciarci portar via, prima o poi. EP come se ci venga lasciato il tempo per prepararci.

Trovai tutto molto stimolante e presi appunti su quello che mi veniva detto. Le reazioni dei pazienti erano molto simili l’una con l’altra: verso la fine diventavano tutti allegri, rilassati, rassegnati. O almeno quelli che potevano parlare. La vita non dava a tutti la grazia della lucidità fino all’ultimo respiro.

Iniziai a capire con il tempo quando qualcuno aveva scelto di andare, e di lı̀ alle ventiquattr’ore successive quel qualcuno puntualmente ci lasciava.

Diedi un titolo ai miei appunti: “Il duro lavoro della Morte”. Descrissi la Morte come una vecchia amica che ci viene a prendere quando il nostro tempo sulla Terra è al termine, per portarci altrove. Non era lei, invece, a decidere come ognuno di noi dovesse andarsene.

Freddo. Di quel tardo pomeriggio ricordo vividamente il freddo gelido. Ero sulla mia bici, di ritorno dall’ospedale, con la tracolla di pelle in spalla. Si era fatto già buio e sulla strada comparve una luce, che si fece rapidamente più vicina e più intensa. Poi nulla, solo il gelo. EP tutto ciò che ricordo del mio incidente.

Sentii una lama gelida accarezzarmi la schiena. Strizzai gli occhi per la troppa luce e mi alzai. Ero ben vestito, con tanto di giacca e papillon. Cercai di guardarmi intorno, ma era tutto troppo luminoso per distinguere anche un solo dettaglio. Troppo luminoso e totalmente silenzioso. Dove mi trovavo? Pensai di essere nel nulla assoluto.

D’un tratto una musica, una melodia che proveniva da non so dove. Una sinfonia dal gusto medievale, con ;lauti, chitarre e battiti di mani a tempo.

Camminai nel bianco di questa luce accecante e vidi la sagoma di una donna camminare verso di me.

Non misi a fuoco i suoi tratti neanche quando mi fu davvero vicina. Prese la mia mano, se la pose sul fianco e iniziammo a danzare. Danzammo nella luce, e nel danzare tutt’intorno si fece più nitido.

La temperatura dell’ambiente circostante adesso era più mite, ma le mani e il corpo di quella donna erano gelidi. Nel toccarla provai un freddo terrificante, un freddo che mi gelò la pelle, arrivando però subito anche agli organi e alle ossa.

Iniziai a sentire delle risa in lontananza, poi musica, sempre musica, poi risa più vicine. Tra un fascio di luce e un altro, anche se per un attimo, scorsi il bellissimo volto della donna che mi teneva per le mani. Nel bianco che ci circondava, invece, scorsi quello di mia moglie. Era più giovane ed era lei a ridere. Correva scalza su un prato ed era cosı̀ bella, cosı̀ felice. Poi vidi anche me stesso raggiungere la mia amata.

Era il nostro primo appuntamento e le stavo mettendo al collo una collana con un ciondolo a forma di clessidra, un ciondolo che poi avrebbe indossato sempre. Riaffiorarono ricordi ed emozioni avevo dimenticato d’aver vissuto. Vidi quella spensierata coppia darsi il loro – anzi, il nostro – primo bacio. L’emozione era talmente tanta che non trattenni il sorriso, pur sentendo nel mio cuore la stretta morsa della malinconia.

Continuai a volteggiare con la mia compagna di danze e, di punto in bianco, come fosse solo fumo, ogni immagine di quei due giovani felici svanì. Fu di nuovo solo luce e musica, ma durò poco. Nella luce, infatti, di lı̀ a breve la mia amata tornò a farmi visita, ora vestita da sposa e diretta verso di me.

Era il giorno del nostro matrimonio. Fui ancora una volta sopraffatto da una raffica di emozioni di cui il

tempo aveva cancellato il sapore e la bellezza. Le scoprii il volto dal velo e a entrambe le versioni di me, quella che ballava e quella pronta a dire di sı̀, scese una lacrima sul viso. Provai una gioia infinita. Pieni di speranze, pieni d’emozione, quei due ragazzi si scambiarono le promesse. Non sentivo altro che musica, ma sapevo esattamente cosa stessero dicendo. Ripetei la mia promessa assieme all’altro me:

«Non ho scelto te come mia sposa, perché la tua sola esistenza rende vana quella di ogni altra cosa. Eri, sei e sarai l’unica cosa che io possa mai volere o desiderare. Non ti ho scelta, ma dal giorno che ti ho conosciuta il mondo si è svuotato di ogni altro elemento e ci ha lasciati soli, a godere di ogni singolo momento passato insieme. Non ho una scelta da compiere: voglio te, e solo te, come mia sposa». Riprovai la stressa emozione di quel giorno, ricordai con esattezza come avessi le mani sudate mentre

scartavo quel foglietto stropicciato su cui mi ero segnato tutto. Come poteva l’uomo più felice del mondo essere allo stesso tempo anche il più agitato?

Svanì tutto ancora una volta. Di nuovo solo luce e musica. Vidi nuovamente il volto della donna che danzava con me, le sorrisi e mi lasciai trasportare dai suoi movimenti. Passammo per un attimo attraverso una nebbia grigia, come scontrandoci con una nuvola. Fummo travolti dal vento e da una pioggia che però non ci bagnava, un maltempo carico piuttosto di tristezza, che servì a prendere le distanze per un momento dalla mia immersione nei ricordi, come ad evitare che venissi risucchiato dalla malinconia.

Danzammo fuori da quella nebbia e tutto si rifece acceso di una luce immensa. Ora sentii piangere, era il lamento di un bambino che proveniva dalla mia destra. Poi un altro pianto, diverso questa volta, un pianto di donna che giungeva da più lontano. Continuammo a danzare e mi vidi al mio fianco, poggiato a un letto d’ospedale mentre stringevo mia moglie, che tra le braccia teneva nostro figlio.

Per un attimo sembrammo rallentare il ritmo delle nostre danze. Sgranai gli occhi, sospirando profondamente. A quale miracolo stavo assistendo!

Quel giorno, toccai con mano per la prima volta il frutto del nostro eterno amore. L’emozione mi stava togliendo le forze e le mie gambe tremavano, come d’altronde il resto del corpo. Strinsi più forte la mano sul fianco della bellissima donna con cui stavo danzando e lei mi tenne saldamente in piedi con la stessa forza, ma anche con la delicatezza con cui io sorreggevo mio figlio. Fermammo le danze, come se anche lei volesse godere dello spettacolo della venuta al mondo del mio bambino, ma la musica non si fermò.

Vidi ancora una volta il viso di colei che mi traghettava tra queste gioie infinite. La luce si attenuò per un attimo, cosı̀ riuscii a metterla a fuoco per più tempo, stavolta. Era bellissima, con un elegante vestito nero, i capelli neri come il cielo di notte e una pelle chiara di un pallore lucente. Gli occhi d’un azzurro agghiacciante, il sorriso di un bianco accecante. Mi ;issava. D’un tratto tirò indietro la testa come per togliersi i capelli dal viso e il suo volto sparı̀. Dapprima sembrò trasformarsi in fumo nero, poi di nuovo la luce coprì tutto. Ma lei era ancora lı̀, a cingermi con le sue mani gelide.

Sentii di nuovo un pianto in lontananza, troppo per capire quale fosse la sua fonte. Danzammo sino a

che anche quel ricordo non svanì.

La musica smise di farci da sottofondo, non danzavamo più. Mi sedetti a terra, intorno a me tutto era ancora bianco e lucente. Sentii la presenza di quella donna alle mie spalle. Ero in overdose di emozioni, avevo potuto gioire ancora una volta della sana e pura gioia di vivere.

Le persone più importanti della nostra vita sono in grado di far sparire l’intero mondo che ci circonda solo con un sorriso o uno sguardo al momento giusto. E tutto è cosı̀ naturale, non c’è nessuna forzatura: chi ti vuole bene ti fa felice per scelta, chi ti ama ti fa felice anche solo svegliandosi la mattina.

Presi un lungo respiro e mi accorsi di quanto l’aria fosse gelida. Non avevo freddo, ma nei polmoni sentivo come due lastre di ghiaccio. Cosa stava succedendo? Ero forse morto? Stavo forse vedendomi passare la vita davanti, come spesso si dice in quei casi? Sognavo? Non capivo, ma ogni cosa mi sembrava possibile.

In un attimo, davanti ai miei occhi si aprı̀ come una nuvola di fumo. Al centro apparve l’immagine di me in bicicletta. Correvo, era il compleanno di mia moglie e nella tracolla portavo il suo regalo. Le avevo fatto credere di aver perso il ciondolo che le regalai al nostro primo appuntamento, ma in realtà lo avevo portato a far lavorare da un orafo.

Lo avevo fatto aprire e al suo interno avevo fatto posizionare un piccolo omino d’oro che bloccava la polverina della clessidra, impedendole di scorrere. Accelerai ancora, quando la ruota anteriore urtò un masso.

Caddi e picchiai violentemente la testa al suolo. Vidi un rivolo di sangue scendere lentamente sul pavimento. Svanì tutto. Rimasi senza parole, con gli occhi gonfi di lacrime. Non mi addolorava tanto la mia morte, quanto la consapevolezza che mia moglie avrebbe trovato il mio regalo accanto al mio corpo. Morire il giorno del suo compleanno… non poteva esistere nulla di più terribile.

«Quindi, sono morto? – chiesi, convinto che alle mie spalle ci fosse ancora la donna vestita di nero ad ascoltarmi – No… non può finire tutto cosı̀… non posso, non voglio accettarlo!»

Piangevo, incredulo. Un masso, il destino aveva deciso che un masso avrebbe causato la mia fine. Per anni avevo analizzato le cinque fasi di accettazione del lutto sui miei pazienti. Stavo forse vivendo la mia fase dell’accettazione senza poterla condividere con nessuno, proprio io che per anni mi ero dedicato ad assicurare a cosı̀ tanti pazienti una serena transizione? No, non lo trovavo giusto. Ma non potei far altro che respirare profondamente.

All’improvviso, sentii un dito gelido disegnare una croce sulla mia spalla. Davanti a me, in lontananza, sentii invece ancora una volta un pianto, il pianto di mia moglie. La vidi in lontananza, in una camera piena di fiori, omaggio di amici e parenti, piangere sul mio corpo privo di sensi. Mi voltai e vidi la donna alle mie spalle tendermi la mano come per afferrarmi. Sgranai gli occhi dal terrore, mentre

mi ;issava.

«Corri», mi disse.

I miei respiri si fecero più affannati, ma in un attimo mi alzai nel mio vestito elegante e presi a correre. La donna alle mie spalle si voltò e distese il braccio come per afferrarmi, ma andò volontariamente a vuoto: con quel gesto, invece, sprigionò un vento gelido, una corrente che mi sorpassò. Vidi i fiori morire uno ad uno nella stanza d’ospedale, alle spalle di mia moglie ancora in lacrime. Tutto si fece buio e si udii un forte ;ischio. Poi, nulla più.

Fu solo silenzio, non sentii neanche più i miei pensieri. Se dapprima nella luce più lucente mai vista sapevo di non esser solo, adesso ero nel buio più nero ero consapevole del contrario.

Aprii gli occhi e vidi tutto molto sfocato, ma capii presto di trovarmi ancora nella mia camera d’ospedale. Vidi mia moglie issarsi in piedi e – non so come fosse possibile – piangere ancora più intensamente di prima. Sorrideva, eppure non riusciva a smettere di piangere. Mi abbracciò con grande delicatezza, poi uscì dalla stanza per un paio d’ore mentre i medici svolgevano tutti gli accertamenti e quindi rientrò con nostro figlio, grande abbastanza da capire cosa fosse successo.

Chiesi la mia tracolla con poca voce. Le diedi un biglietto e la collana che credeva perduta. “Da quando nella mia vita ci sei tu, il tempo ha smesso di scorrere… Ti amo”.

Pianse di nuovo.

«Hai ancora lacrime a sufficienza?» Ridemmo.

Mesi dopo, uscendo dalla doccia, mi accorsi di avere dietro la spalla una cicatrice a forma di croce. Ebbi un’illuminazione, mi accorsi di non aver sognato tutto e che tutti quei bei momenti della mia vita non mi furono fatti rivivere come un ultimo desiderio, quanto piuttosto come un ringraziamento. Era effettivamente stato un modo per ringraziarmi del rispetto che avevo mostrato alla Morte? Questo non lo seppi mai con sicurezza. Ma ero ancora lì, e da quell’episodio erano passati ormai davvero molti anni.

Raccontai questa storia a mio figlio, dopodiché feci per mettermi dritto sul letto.

«Aspetta papà, non hai abbastanza forze», disse lui cercando di sostenermi.

«Hai ragione, figlio mio – dissi accennando un sorriso – quindi fammi usare le poche che mi sono rimaste per dirti che per me, con la mamma scomparsa da mesi, ormai non c’è più motivo di restare qui. Ma tu sii felice! Non piangermi, gioisci piuttosto della meravigliosa opportunità che ci fu data, l’opportunità di vivere insieme su questo mondo per molti, molti anni. Vivi senza paura di morire, vivi rispettando la morte ma non temerla mai. La forza del vivere sta tutta nel non temere la morte».

Quella stessa notte chiusi gli occhi per sempre.

Luce, solo luce e freddo. Poi di nuovo la mia vecchia amica vestita di nero a tendermi la mano.

«E la musica?» le chiesi sorridendo.

Improvvisamente, dal bagliore emerse il volto di mia moglie, vestita di nero e con il braccio teso nella mia direzione. La musica partı̀ e insieme ci allontanammo, lasciandoci coinvolgere in un’eterna danza.

Fine

Buio prima del tutto

Buio. Ho chiaramente gli occhi aperti, ne sono certo, eppure tutto è avvolto nell’oscurità.

L’aria intorno è strana, densa, come se stessi fluttuando in una sostanza viscosa, immerso in una gelatina. Ogni movimento ha un peso, un’inerzia insolita. Non ho mai provato nulla di simile. Cosa sta succedendo?

Per un attimo mi accorgo di non sapere chi sono. Il mio nome, la mia storia… sfuggono alla mia mente. Poi, all’improvviso, il ricordo ritorna. Ricordo di essermi svegliato stamattina. Sto forse sognando? Ne dubito. Non ricordo di essere mai andato a dormire.

Il silenzio è assoluto. Non sento il minimo fruscio d’aria, come se non ce ne fosse affatto. Mai, in vita mia, ho udito un silenzio così profondo.

Eppure qualcosa è diverso. I dolori muscolari che ogni giorno mi accompagnano sono svaniti. La schiena, le ginocchia… nessuna fitta, nessuno scricchiolio. Il mio corpo è leggero, in forze, come quando ero giovane. Se questo è un sogno, è così che voglio sognare per sempre.

E allora dov’ero, un attimo prima di tutto questo?

Una piccola luce appare in lontananza e si espande lentamente. Decido di avvicinarmi. Ma come? Non sento le gambe, non percepisco alcun suolo sotto di me.

Provo a spingermi in avanti. Non so se sono io a muovermi o se è la luce ad avanzare verso di me. All’improvviso mi ritrovo sospeso tra due estremi: sopra di me, un buio infinito; sotto, una distesa bianca e fumosa, simile a una nebbia luminosa.

Sembra di volare sopra le nuvole, ma senza un cielo sopra la testa. Solo il nulla, il nero più profondo.

Sotto di me, in lontananza, scorgo il verde. Un verde sconfinato, un prato immenso che si perde all’orizzonte, accarezzato da un azzurro limpido, mai visto prima.

Mi avvicino. Finalmente respiro. L’aria è così pura che quasi non riesco a trattenerla nei polmoni, fredda e cristallina come aria di montagna.

E allora capisco.

Davanti a me c’è la Terra, nella sua forma più pura, incontaminata. Sola. Solo io a osservarla. Un equilibrio perfetto tra terra e acqua, silenzioso e immobile.

Sento le onde infrangersi, il vento scivolare tra gli alberi. Nessun uomo, nessuna donna. Neanche un uccello nel cielo. Solo pace, solo quiete.

Resto a contemplare quella visione per qualche istante, lasciando che il respiro si faccia meno faticoso. Poi provo a inspirare a fondo.

L’aria mi gela la gola. Tento di emettere un suono, ma le corde vocali sono paralizzate dal freddo. Espiro d’un colpo, lasciando che il gelo mi abbandoni, finché il mio corpo non torna a una temperatura più sopportabile.

Improvvisamente vengo risucchiato con violenza nel cielo nero e buio.

Resto con gli occhi aperti, anche se non fa alcuna differenza. Non vedo nulla, neppure le mie mani. Mi tocco delicatamente il volto, come a voler controllare che sia tutto in ordine: il naso, la bocca, gli occhi. La mia pelle è liscia. Non lo era più da anni. Il tempo aveva inciso sulla mia carne le tracce della melodia che aveva accompagnato la mia vita, solco dopo solco, come un vinile. Ora quelle rughe, quella storia impressa sulla pelle, sono svanite. Tutto cancellato.

Pian piano una nuova luce torna a illuminare il buio.

Nel bianco abbagliante emergono due figure: un uomo e una donna, nudi, abbracciati, incastrati l’uno nell’altra come un unico essere. Si guardano negli occhi. Il mio respiro si fa lento, il sangue scorre con un ritmo placido, armonioso. Sono solo loro due, e nient’altro. L’amore allo stato più puro.

Cos’è, infine, l’amore tra un uomo e una donna, se privato di tutto il resto? Se da esso sottraiamo le interferenze, le parole, le paure, cosa rimane? Qualcosa di puro, incontaminato. E io lo sto osservando. Lo sento, lo riconosco. Ricordo di aver amato così, e di essere stato amato.

Poi, all’improvviso, una scintilla.

Un’esplosione silenziosa li divide, li scaglia lontani, li separa. Restano due punti nell’infinito. Lo shock mi paralizza. Ancora una volta mi sento trascinare nel buio, per poi riemergere attraverso la nebbia luminosa.

Di nuovo la Terra, ma questa volta è viva.

Ci sono città e deserti, grattacieli e tribù, piramidi e carri. Il tempo sembra essersi scomposto: le epoche convivono senza mescolarsi, ignorandosi. Come se non potessero vedersi, pur calpestando la stessa terra. L’idea mi inquieta. Mi sento un’ombra sospesa tra l’oscurità e il mondo, come una marionetta appesa tra il burattinaio e il suolo del suo teatrino.

E poi, ancora una volta, il buio mi inghiotte. Silenzio assoluto. Poi, un suono. No, molti suoni.

Esplosioni, grida, pianti, risate. Separati, distinti, eppure sovrapposti. Cerco di voltarmi, di capire da dove provengano, ma intorno a me c’è solo oscurità.

All’improvviso, come se qualcuno avesse staccato la corrente a una festa affollata, tutto tace. Ancora silenzio. Ancora nero.

Poi, una luce bianca.

Mi abbaglia. Dentro di essa vedo me stesso: prima bambino, poi adulto, infine vecchio. L’ultimo è quello che ricordo meglio. Flash di vita si accendono tra le nuvole, immagini veloci, frammenti.

Un fischio in lontananza.

Si avvicina, cresce, si fa assordante. Una piccola luce bianca si espande nel buio. È accecante, il suono diventa lancinante. Crescono entrambi, divorandomi. Mi sento sopraffatto, sordo e cieco.

Silenzio. Di nuovo.

Chi sono?

Dove sono?

Come sono arrivato qui?

Il buio e il silenzio hanno cancellato tutto. Non ricordo nulla, neppure cosa sia accaduto un istante prima. Non sono nulla. Non conosco nulla. Voglio ricordare. Riportatemi indietro.

Urlo. Piango.

La luce è troppo forte, non riesco ad aprire gli occhi. Non so chi sono, non so da dove vengo. Qualcuno mi tiene tra le braccia.

«È un maschietto.»

Voglio ricordare qualcosa, ma ogni pensiero svanisce nel momento stesso in cui nasce. Mi lamento, piango.

Buio totale.

Piango, ma non so perché.

Sono sdraiato su una donna. Sento il suo odore. Lo riconosco. Sento il battito del suo cuore. Anche quello lo conosco a memoria. Mi calmo, la amo.

Non sono sicuro del perché, ma sento che è una delle persone più importanti della mia vita. Lo sarà per sempre.

I Gradini della Vita

Ogni uomo deve salire un gradino alla volta la scala della propria vita, e i primi passi sono sempre i più faticosi. Da principio viene preso e posto ai piedi di questa ripida scala di roccia che si arrampica su, in alto, e che conduce chissà dove. Se si osserva bene, spostando lo sguardo dal basso verso l’alto, la si vede addentrarsi in una coltre di nubi che sembra a primo impatto essere la meta finale, ma che in realtà quella meta la nasconde soltanto. Posto davanti a quei primi gradini, il piccolo uomo gattona avanti e indietro, rimandando la scalata. Laggiù non sente la mancanza di nulla.

Di tanto in tanto, qualcuno lo aiuta a tirarsi su e porta le sue mani sul primo gradino, invitandolo a incominciare l’avventura. Ma ognuno ha i propri tempi.

Come tutti, comunque, alla fine anche lui inizia ad arrampicarsi. Eccolo, con decisione si appresta a salire il suo primo gradino. Punta le dita delle mani sul bordo e si issa con tutta la forza che ha in corpo, contraendo la schiena e le gambe per aiutare le braccia a sollevare tutto il suo peso. La fatica è tanta, ma lo è anche la voglia di farcela. E così, compiacendo chi da tempo lo spronava a partire, il piccolo uomo taglia il suo primo traguardo. È felice di avercela fatta, sente che nulla possa fermarlo. Sa di avere le persone giuste al suo fianco, persone che non mancheranno mai di aiutarlo nella sua lunga salita. E in poco tempo, preso dall’euforia del suo primo successo, il giovane uomo sale uno dopo l’altro gli scalini successivi. Lo fa per giorni, poi per mesi. Non ha più bisogno dell’aiuto di nessuno: i gradini si fanno sempre più alti e ripidi, ma anche le sue gambe crescono di giorno in giorno, così del cambiamento non si accorge neanche. Corre e salta su quella scala di roccia, arrampicandosi come un giovane capriolo. A volte, senza neanche notarlo, finisce per salire anche due gradini alla volta.

Da qualche giorno ha notato la presenza di una scala identica alla sua e che oltretutto sale nella stessa direzione. Un suo coetaneo la percorre alla sua stessa velocità: a volte l’uno è più in alto, a volte lo è l’altro, ma complessivamente sembrano avere lo stesso passo. Con il volgere del tempo, il numero di scale nel suo raggio visivo aumenta sensibilmente e su ognuna di esse un altro uomo o un’altra donna, scalatori che hanno tutti

all’incirca la medesima età, compie il proprio viaggio. Sono abbastanza vicini da poter comunicare. Anzi, sono talmente vicini che con un balzo potrebbero anche spostarsi l’uno sulla scala degli altri.

Di recente, il nostro uomo ha iniziato a cadere. Ma ogni volta che inciampa, c’è sempre qualcuno pronto ad aiutarlo. Quando finisce con le ginocchia in terra, gli scalatori più vicini si fermano a guardarlo per assicurarsi che tutto vada bene. Dopotutto, anche a loro capita d’inciampare. Cadendo, gli è capitato di battere con il volto in terra e di perdere uno o due denti. Ma non ha paura, perché gli altri sono sempre pronti a rassicurarlo che i denti ricresceranno e che le ferite si rimargineranno. È vero, alle volte capita di sentir ridere qualcuno per le cadute altrui. La scena risulta comica soprattutto a chi ha un fisico forte, ma è più debole d’animo. Gli scalatori più determinati se ne infischiano e vanno avanti imperterriti, così fa anche il nostro giovane uomo. Gli è stato insegnato che può fare qualsiasi cosa, e così lui si rialza ogni volta, con o senza aiuto.

Il tempo passa e l’uomo cresce. Ora sale con l’agilità di una pantera e con la forza d’un leone. Gli scalini sono sempre più alti e ripidi, ma la differenza sembra non averlo turbato affatto, forse neanche se ne è accorto. Così sale e sale, senza mai voltarsi indietro. È giovane, forte e sicuro di sé. Si sente inarrestabile. Le cadute sono sempre più rare, e quando accade sembra non aver più bisogno di aiuto per rialzarsi. Anzi, a una mano protesa nella sua direzione reagisce con rabbia e non l’accetta, come non accetta consigli. Crede di conoscere quelle scale meglio di tutti gli altri, eppure quelle mani sono di chi di strada ne ha percorsa almeno quanto lui, se non qualcosa in più.

Ormai è un uomo, non più piccolo né più giovane. Lo sa anche lui di aver iniziato a rallentare il passo. Non che il fisico lo abbia tradito, anzi.

Semplicemente sceglie di salire con calma, valutando ogni volta la strategia migliore per proseguire il suo percorso. Da qualche tempo hanno iniziato ad apparire alcuni scalini molto più alti degli altri, praticamente muri da scalare, e ogni volta deve fermarsi per escogitare un piano più o

meno semplice per riuscire ad andare oltre. Intorno a lui, il numero di scale è diminuito. Ha mantenuto sempre più le distanze dagli altri arrampicatori, che a loro volta hanno scelto altri percorsi da seguire. Non si è mai fermato per davvero, neanche una volta. O almeno, non lo aveva ancora fatto

finora. Si è accorto con rammarico che dietro di lui, stanche, sedute di fronte all’ennesimo muro da scalare, c’erano tutte quelle persone, una volta forti e determinate, che dal primo giorno lo avevano aiutato nella sua salita. Quindi ora, scocciato, prende un lungo respiro e per la prima volta torna indietro, perdendo terreno. Non ne è felice, ma sa di star facendo la cosa giusta.

Riprendendo il cammino, si accorge che più va avanti e più vede aumentare la distanza tra sé e tutti gli altri. A ogni difficoltà che questi incontrano, per lui si fa sempre più difficile tornare indietro ad aiutarli. E questo, unito alla sua determinazione nel voler proseguire la scalata, lo porta spesso a scegliere di non voltarsi più, di non fare quei passi indietro che agli altri invece tanto sarebbero serviti. Così, arriva anche il giorno in cui l’uomo e la donna alle sue spalle scelgono di volersi fermare. Più volte lui ha ribadito di dover continuare ad andare, senza potersi permettere d’esser rallentato da nessuno. E con loro, alla fine, recide ogni legame. La sua salita è una gara con se stesso nella quale non trovano più spazio neanche quei coetanei coi quali tutto era iniziato. Anche con loro aveva già interrotto ogni rapporto. Lui vuole solo salire, vuole essere sempre uno o due gradini sopra a tutti gli altri. Si gira per l’ultima volta a guardare i due anziani che ha deciso di lasciare indietro. Se ne stanno seduti a terra, con le gambe ciondolanti nel vuoto. La pietra che li sorregge sembra starsi sgretolando lentamente, lasciandoli con uno spazio sempre più piccolo su cui poter sedere e predicendo un’inevitabile caduta nell’oscurità. Eppure, sembrano sereni. Per la prima volta, quell’uomo forte e determinato si accorge di due cose: del buio e delle tenebre che circondano la sua scala e, ancor più spaventoso, che tutti gli altri scalatori hanno iniziato a percorrere la propria strada in coppie, scegliendo un compagno con cui fare squadra per supportarsi durante la salita e aiutarsi a superare gli ostacoli più alti.

Ritiene sia da deboli, oltre che una perdita di tempo, dover fare affidamento su qualcun altro per riuscire a proseguire il proprio cammino. Quindi, solo, circondato dal buio e da un silenzio inquietante, riprende a

salire.

Talvolta si è trovato di fronte a dei cartelli gli indicavano una soluzione alternativa. Quando aveva letto della “Piattaforma degli ascensori” era andato a dare un’occhiata e aveva trovato effettivamente un’ampia lastra di cemento da cui si poteva prendere uno dei tanti ascensori per raggiungere velocemente i piani superiori. La sua morale, però, non gli consentiva

l’utilizzo di scorciatoie. Lo riteneva da deboli, da parassiti, quindi preferiva proseguire con le proprie forze, scalino dopo scalino, piano dopo piano. Altri cartelli lo invitavano a valutare l’idea di poter interrompere la propria scalata, ma non concesse loro neanche un pensiero. Voleva giungere alla vetta, a ogni scalino desiderava scoprire cosa avrebbe potuto trovare in quello successivo, cosa avrebbe potuto trovare alla fine della corsa. E così continua a salire, imperterrito, senza mai voltarsi indietro.

Da anni, ormai, la salita si è fatta più dura. Le scale sono sempre le stesse, ma il fisico non ha più la forza e la resistenza d’un tempo. L’uomo arriva all’ennesimo spiazzo e alza gli occhi verso un nuovo cartello: “Ultima offerta: fermarsi qui o non fermarsi mai più”. È stanco e salire sta diventando sempre più faticoso, ma di fermarsi proprio non se ne parla. Ha dedicato tutta la sua esistenza a quella scalata e fermarsi ora, per lui sarebbe una resa. Anche stavolta, quindi, decide di ignorare l’offerta. Fa un altro scalino, poi il secondo. Il terzo, però, proprio

non riesce a superarlo. Le ginocchia sono stanche, le schiena curva. Quando alza lo sguardo, però, sembra capire di aver raggiunto proprio l’ultimo scalino. Non se ne vede un altro, dopo di quello. Vede la fine e non può mollare: deve farcela a tutti i costi. Striscia sui gomiti, si aiuta con le mani, come aveva fatto proprio la prima volta, riesce a salire. Cade a terra, sbatte il volto e perde un paio di denti, che lasciano in dote alla sua bocca il sapore ferroso del sangue. Questa volta, lo sa bene, non ricresceranno più. E quelle ferite, forse, non avranno più il tempo per potersi rimarginare. Sputa i denti e con un ultimo, sovrumano sforzo si risolleva. Ce l’ha fatta, è arrivato in cima. Alza la testa lentamente, c’è un cartello: “Fine”. Nient’altro. Cosa si aspettava di trovare? Cosa sperava sarebbe successo? Non c’è gloria, né congratulazioni, né sguardi compiaciuti. Nessuno sa che è arrivato lì. Si è lasciato tutti alle spalle per arrivare più in alto di chiunque. Da solo. Con un’espressione sarcastica in volto, sputa sangue su quel cartello. Improvvisamente, davanti a lui appare una nuova scalinata, gradini e gradini che conducono in alto, lontanissimo, e sembrano non aver fine. Si guarda intorno, vede in lontananza che altri uomini e donne giovani e forti si stanno arrampicando. Vuole urlargli di non avere fretta, ché non ne vale la pena, ma non può, perché è troppo lontano. Non può condividere neanche quello con nessuno e non c’è anima che possa rincuorarlo. Ha il ghigno di chi vorrebbe urlare la propria rabbia

ma si frena per non perdere il ritegno. Sconsolato, stanco, si lascia cadere a

terra e, esalando i suoi ultimi respiri, sente il pavimento inclinarsi nella direzione da cui era arrivato. Tutte le scale che aveva salito adesso compongono un’unica, lunga e agevole discesa nel buio che lo circonda. Così, il suo corpo privo di vita scende e scende, senza fermarsi un secondo e senza rallentare mai, svanendo inesorabilmente nell’oscurità. “Fine”.

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Marco Giovannelli
Marco Giovannelli:
nato a Roma il 15 gennaio 1990. Dopo aver vissuto nella capitale fino ai diciannove anni, mi sono trasferito a Londra, dove ho trascorso quasi un decennio, intervallato da un anno in Italia. Oggi vivo a Sarpsborg, nel sud della Norvegia.

Da sempre appassionato di scrittura, fin dai tempi della scuola amavo cimentarmi nei temi, spesso scelti dagli insegnanti per essere letti poi al resto della classe. Diplomato alla scuola alberghiera, ho costruito la mia carriera nella ristorazione, senza mai abbandonare la fotografia, che coltivo sia come passione che come seconda professione.

Scrivere è per me un’esigenza, un modo per esplorare pensieri e riflessioni, dare voce a storie immaginate e cercare risposte alle domande che mi accompagnano da sempre. Conservo ancora testi scritti a tredici o quattordici anni, un percorso che continua a evolversi nel tempo.
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