Dopo un sonno millenario, Emrid si risveglia in un mondo che non riconosce: una terra primordiale, densa di misteri, dove la natura selvaggia custodisce verità dimenticate. Privo di memoria, ma legato a un destino che non può eludere, scopre di essere l’ultimo baluardo per la salvezza di ogni forma di vita. Così, guidato da una voce eterea, avanza tra foreste rigogliose e colossi vegetali che vigilano come antiche sentinelle. In questo paesaggio maestoso, popolato da creature sconosciute, il suo cammino si intreccia con la perdita, il sacrificio e una speranza che ostinatamente rinasce.
Capitolo 1
Svegliati.
La parola risuonò nella sua mente come un eco lontano, un sussurro che proveniva dal mondo dell’oscurità. Emrid spalancò gli occhi. Un fremito lo percorse mentre l’aria fredda e umida lo avvolgeva. Per un istante, il suo corpo rimase immobile, avvolto da muschi e radici che si erano intrecciati intorno a lui durante il suo sonno millenario. La luce fioca filtrava attraverso le fronde di alberi colossali, illuminando la caverna muschiosa in cui giaceva.
Si sollevò a fatica, sentendo le articolazioni scricchiolare dopo un’eterna immobilità. I suoi lunghi capelli argentei erano incrostati di terra, e la sua tunica, un tempo splendente, ora era logora e sbiadita. Non aveva memoria degli eventi che l’avevano indotto nel suo sonno millenario, ma quella voce… quella voce era reale.
«Chi sei?» sussurrò, ma ricevette solo il sibilo del vento come risposta.
Emrid aveva un aspetto che incantava e inquietava allo stesso tempo. Alto e slanciato, con movenze fluide come quelle di un felino in ascolto, sembrava quasi in grado di camminare senza peso, come se sfiorasse appena il mondo. I suoi capelli erano d’argento pallido, lunghi fino a metà schiena, spesso intrecciati con sottili fili di rame o piume di corvo, come segno del suo legame con la magia della Frattura. La sua pelle era chiarissima, quasi diafana, con riflessi lunari che si accentuavano sotto la pioggia o alla luce della luna. I tratti del volto erano affilati: zigomi alti, naso dritto, mandibola elegante ma non dura. La bocca era spesso serrata, come se tenesse dentro troppe parole non dette. Ma erano i suoi occhi a colpire più di tutto: di un oro antico, screziato di vene scure, con pupille che si restringevano come quelle di un felino. Quando ti guardava, avevi l’impressione che stesse scrutando non solo chi sei, ma anche chi potresti diventare. Sul corpo portava sottili cicatrici, segni di un passato di cui non parlava mai, e un tatuaggio che correva lungo l’avambraccio sinistro, inciso con inchiostro che reagiva alla luce magica. Il suo abbigliamento era semplice ma carico di significato: tonalità fredde, mantello logoro, stivali consumati. Niente oro, niente vanità. Solo ciò che serviva per sopravvivere, e ricordare.
Continua a leggere
Ispirò profondamente, cercando di riconnettersi con il mondo attorno a lui. La foresta era cambiata. Gli alberi sembravano più alti, le loro radici più contorte, e l’aria aveva un odore diverso, più antico e carico di segreti. Il suolo sotto i suoi piedi era soffice, ricoperto da uno spesso strato di foglie marce, e il canto di creature sconosciute riempiva l’aria con suoni estranei e inquietanti.
Si guardò attorno, scrutando la vegetazione fitta e selvaggia che lo circondava. Ogni cosa sembrava intrisa di un’energia silenziosa, come se la foresta stessa lo stesse osservando, attendendo i suoi prossimi passi. Istintivamente, poggiò una mano sul tronco di un albero vicino e chiuse gli occhi. Un tempo, riusciva a sentire il battito della natura, la linfa scorrere come sangue nelle vene degli alberi, il respiro della terra. Ora, però, avvertiva solo un silenzio innaturale, un’assenza che lo fece rabbrividire.
Doveva trovare la fonte di quella voce. Qualcuno, o qualcosa, lo aveva chiamato. Qualcuno lo aveva risvegliato da un sonno che avrebbe potuto essere eterno. E lui doveva sapere perché.
Si rimise in piedi, togliendosi di dosso la polvere del tempo. Ogni passo era un ritorno alla vita, un risveglio della memoria muscolare, un ricollegarsi al ritmo dimenticato della terra sotto i suoi piedi. Sentiva il suolo umido tra le dita, il freddo pungente del vento che gli accarezzava la pelle. Con passi incerti, si inoltrò nella foresta, lasciando dietro di sé il luogo in cui aveva dormito per secoli. Il sole, ormai basso all’orizzonte, gettava lunghe ombre dorate tra le fronde. L’aria era carica di suoni nuovi e familiari al tempo stesso: il fruscio delle foglie, il cinguettio di creature invisibili, il lontano scorrere di un ruscello.
Camminò per ore, forse giorni. Non aveva fame, non aveva sete. Il suo corpo si stava adattando al risveglio, e la sua mente cercava disperatamente di ricordare chi fosse, da dove venisse. Frammenti di immagini danzavano nei suoi pensieri: un trono d’argento avvolto da rampicanti, occhi luminosi che lo fissavano nel buio, una melodia suonata con un’arpa di cristallo. Ma nulla aveva ancora un senso.
La foresta sembrava non finire mai. I sentieri che un tempo conosceva erano scomparsi, inghiottiti dalla natura. Il cielo, sempre più scuro, era punteggiato di stelle scintillanti, e la luna si stagliava pallida e solenne sopra di lui. Si fermò per riposare ai piedi di un albero secolare, il tronco nodoso avvolto da licheni luminescenti. Chiuse gli occhi solo per un attimo, ma il sonno non arrivò.
Poi, la voce tornò.
Trova la radice.
Emrid sobbalzò di colpo, il cuore che martellava nel petto. La radice. Quale radice? Guardò attorno a sé, cercando segni, presagi, indizi. Ma la foresta taceva, avvolta in un manto di nebbia argentea.
Non aveva altra scelta che continuare.
Con rinnovata determinazione, si rialzò e riprese il suo cammino. La voce era tornata a chiamarlo, e questa volta non l’avrebbe ignorata. Non si sarebbe fermato finché non avesse scoperto la verità.
Mentre avanzava tra le ombre della foresta, il vento parve sussurrare il suo nome. La notte era lunga, ma Emrid sapeva che la sua ricerca era appena iniziata.
Durante la sua ricerca, si addentrò sempre più nel cuore della foresta, ma qualcosa non andava. Le fronde degli alberi, che una volta si estendevano come un tetto verde e lussureggiante, ora pendevano svuotate, spoglie e secche. Le radici che avevano sempre dato vita alla terra ora emergevano come ossa esposte, aride dalla mancanza di umidità. Ogni passo che faceva nel terreno smosso, un tempo ricco di vita, sollevava una polvere fine che sembrava inghiottire il suono dei suoi passi. Il silenzio era surreale, e pesava come un macigno sulle spalle. L’aria era densa, aveva perso la sua freschezza, diventando oppressiva e stantia.
Il cielo sopra di lui, una volta di un azzurro vivido, ora appariva grigio, coperto da nuvole basse e dense che non lasciavano filtrare la luce del sole. Il caldo era torrido, e non c’era nemmeno un accenno di pioggia in vista. Ogni respiro sembrava più difficile del precedente, come se l’ossigeno stesso si fosse esaurito dall’ambiente circostante.
Martina Guberti (proprietario verificato)
Non vedo l’ora di poterlo leggere!
Martina Guberti (proprietario verificato)
Non vedo lora di poterlo leggere!