Avete presente la sensazione che si prova al risveglio da una sbronza degna di nota?
Lo stato di confusione, di intorpidimento e, soprattutto, l’assenza totale di memoria su quanto è accaduto nelle ore precedenti?
Questo era, indicativamente, il mio stato psicofisico, nel momento in cui ripresi i sensi… peccato io non avessi alcun ricordo di bevute o bagordi vari.
Non appena la mente divenne più lucida e cosciente, cominciai a percepire la presenza di sassi, polvere e sabbia dappertutto.
Li sentivo sotto le mani, sulle guance, tutt’addosso e, come se non bastasse, aprendo gli occhi non riuscivo a vedere nulla.
Niente era chiaro intorno a me e tutto si riduceva a delle chiazze di colore sbiadite, nonché informi che confondevano pesantemente i miei sensi.
Tutto era palesemente incomprensibile e la mia percezione della realtà era tanto distorta da farmi tremare, ma senza che io sentissi freddo, da voler piangere, ma senza che provassi tristezza e, soprattutto, da spingermi a scappare, senza che io conoscessi una ragione per farlo.
In quel tripudio di sensazioni, pensieri e confusione, c’era, però, un brusio in sottofondo che stava catturando la mia attenzione, che non ero in grado di identificare, ma che sentivo ripetersi, oserei dire, ciclicamente.
Prestando più attenzione a quel costate fruscio che si ripeteva e si ripeteva ancora, notai che aveva delle differenze sostanziali e che, di volta in volta, quel rumore sapeva essere pacato e deciso, sconfortante, ma che donava anche quiete.
La mia mente sembrava intasata da mille domande senza risposta, che si andavano accavallando spasmodicamente l’una sull’altra, come formiche all’ingresso di una colonia.
Purtroppo, la mia vista, al momento priva di utilità, non mi aiutava a scemare questi dubi, ma lo sfregamento delle dita sugli occhi e lo sbattere velocemente le palpebre, stava producendo flebili frutti e le forme sbiadite attorno a me, stavano cominciando a delinearsi lentamente.
Alzai gli occhi al cielo, quasi a voler fuggire da quello stato confusionale che mi possedeva e dalle mille sensazioni che mi avevano assalito dall’istante del mio risveglio.
Un’immensa distesa di nuvole che sembravano sfaldarsi al vento, come ovatta tra le mani di un bambino che ,ignaro di cos’abbia tra le dita, ci gioca delicatamente… e sotto questo cielo plumbeo, un mare rabbioso e stanco che, con le sue ultime forze, si gettava sulla riva, quasi a volersi suicidare.
Pacificato ed incantato da quella magnifica distesa d’acqua, apparentemente ad un passo dalla resa, la mia attenzione venne catturata dalla linea dell’orizzonte che sembrava stesse, anch’essa, rinunciando alla propria esistenza,sbiadendo lentamente ed elargendo pace al mio spirito.
I colori sembravano sciogliersi gli uni con gli altri, fino al punto che non fui più in grado di distinguerne la differenza ed il cielo col mare furono un tutt’uno.
Cominciai a guardarmi attorno: prima a sinistra, poi a destra ed, ancora, dietro le spalle… come se, nonostante il mio stato confusionale non fosse in grado di svanire con il tempo, io fossi cosciente di dovermi proteggere da qualcosa o da qualcuno.
La spiaggia, su cui mi ero risvegliato, era una distesa di sabbia mista a ghiaia, sassi di varie dimensioni, arrotondati dal lavoro instancabile del mare ed, ancora, piccoli arbusti, spezzati da una veemente violenza evidente ed erosi dal tempo.
Il ciottolame era sparpagliato senza una logica apparente, ma, in alcuni punti, la casualità aveva accavallato tra loro le pietre, formando dei veri e propri monumenti futuristici in miniatura.
Proprio l’essermi accucciato ad ammirare una di queste costruzioni della casualità, mi aveva fatto scorgere, sulla linea dell’orizzonte, un qualcosa di poco più grande di un puntino.
Aguzzai lo sguardo ed i profili sembrarono mettersi a fuoco, ma non troppo; quel che riuscivo a scorgere, quel che vedevo, sembrava una specie di torre che galleggiava in mezzo al mare.
Chiusi gli occhi… inspirai ed espirai più volte; poi, dopo aver messo da parte un po’ dello stupore che si era impadronito di me, annebbiando la mia capacità di ragionare, iniziai a guardarmi le mani, come se fosse la prima volta che potessi farlo.
Continuavo a guardare palmo e dorso delle mani, come se avessi appena scoperto di avere due arti prensili a mia disposizione; a seguire fu la volta delle braccia, delle gambe e via via, di tutto il corpo.
Un’occhiata rapida, ma curiosa, agli abiti indossati e, fulmineo, un pensiero si fece largo nella mia mente… le mani inforcarono i miei capelli lunghi ed ispidi, mentre le palpebre si allontanavano dalle pupille, rintanandosi sotto le sopracciglia e rivelando il terrore nascosto nei miei occhi, grigi come il cielo sopra di me.
Mi lasciai cadere con le ginocchia in terra, mentre le mani, abbandonati i capelli, erano andate rapidamente a bloccare le labbra, già pronte a sussurrare, timorosamente, la prima verità scoperta dopo il mio risveglio: “non sapevo chi fossi né, tanto meno, dove mi trovassi!”
Lo sconforto, il vuoto più totale, la sensazione di trovarsi in una bolla sospesa nel vuoto dell’universo, era tutto quello che stava impossessandosi della mia mente e del mio corpo, ma, nel tempo di un battito di ciglia, tutto questo lasciò il posto alla perplessità.
Com’era possibile che la mia mente barcollasse nel più totale vuoto? Come poteva un uomo non avere memoria del suo passato, tanto da non sapere neanche il proprio nome? Com’era possibile non conoscere la propria identità, quale fosse il proprio posto nel mondo e quali fossero i luoghi nei quali aveva attraversato gli anni già vissuti?
Nascosto tra le nuvole e la foschia, un sole pallido cominciava a rasentare il suo zenit e, mentre ero assorto nel domandarmi chi fossi e quale fosse la mia casa, la mia attenzione venne rapita nuovamente da quella macchia più bianca, nel cielo grigio, che sembrava avvolta da un velo impalpabile, semitrasparente.
Smisi di pensare a me ed al vuoto nella mia testa e cominciai a guardarmi intorno: la spiaggia era deserta, più simile ad un campo di battaglia abbandonato, che ad un luogo partorito dalla fantasia e dall’amore di Madre Natura, con piedistalli per ombrelloni divelti ed erosi dal tempo; scheletri di ombrelloni con brandelli di stoffa lisa e svolazzanti; lettini rovesciati ed in posizioni improbabili; buste di plastica leggera e corrosa, impigliate su cespugli incolti e cresciuti senza regola; una coppia di ciabatte incartapecorite erano piantate nella sabbia, come a delimitare uno spazio di qualche tipo e, parzialmente sommerso dalla sabbia portata dal vento, un carrozzino rovesciato, giaceva inerme davanti allo scorrere del tempo.
Un palo di legno, verniciato di rosso ed a sezione quadrata, alto poco più di un metro, sembrava svettare orgogliosamente, al centro di tutta quella desolazione, con un salvagente appeso in bella vista, quasi fosse una collana da indossare e mostrare con orgoglio.
Continuai a guardarmi intorno, accennando qualche passo, ma senza allontanarmi troppo dal punto in cui avevo riacquistato conoscenza.
Dopo qualche metro, raggiunta la timida altura da cui sembrava aver origine tutta la spiaggia che mi circondava, riuscii a guardare più il là di quanto avevo visto fino a quel momento, scoprendo un nuovo orizzonte.
Tra cespugli, tanto vicini da sembrare alti quanto le chiome delle pinete che si scorgevano in lontananza, ed i canneti rigogliosi e fitti ai confini della spiaggia, si scorgevano profili lontani di maestose palazzine, circondate da alti pali d’illuminazione.
Quasi imbambolato, rapito o, meglio ancora, ipnotizzato, cominciai a mettere un piede davanti l’altro, in direzione di quegli edifici, sentendo pulsare il mio cuore di un battito nuovo, impaurito, ma, al contempo, mescolato ad una lieve sensazione di speranza.
Bastarono pochi passi per far crescere quella speme in modo esponenziale e lo stesso numero di passi fu sufficiente a far crollare le speranze costruite.
I palazzi sembravano esser abbandonati, alcuni incompleti od erosi, altri danneggiati e l’unica certezza che sentivo di poter avere era che lì non ci fosse vita.
Non so se fu la curiosità, l’istinto di sopravvivenza o la totale assenza di rumori di alcun genere, che mi fece decidere di continuare a camminare, fino a raggiungere quelle rovine, non poi così distanti.
I passi che mi dividevano dal primo luogo coperto che la mia memoria danneggiata ricordava di aver visto, erano molti, ma non troppi.
Ad ogni passo fatto, una fatica sconosciuta sembrava entrarmi sottopelle ed impadronirsi del mio corpo.
Ben presto dovetti fermarmi per dare respiro a delle gambe che sembrava non avessero mai camminato o che non camminassero tanto da tempo immemore, ma, fortunatamente, lungo il tragitto, quasi ad attendermi consapevole del mio passaggio, una vecchia tenda di fortuna, era lì ad attendermi.
Era realmente un “appiccico” fortuito di improbabili elementi, tanto che a comporla erano due rami a cui era stato legato un lenzuolo ed, il tutto, fermato a terra con dei grossi sassi.
Non mi feci pregare dalla tentazione e mi sdraiai senza alcun complimento, all’invitante ombra della tenda, su un giaciglio che, inizialmente, non avevo affatto notato.
Era comodo! Fatto di fogliame e sterpaglie racchiuse in un bustone di plastica nera e, nonostante le lesioni che i rametti più tenaci avevano provocato al saccone, la sua tenuta, sotto il mio peso, era notevole.
Decisi di riposare, ma girandomi verso destra ed assumendo istintivamente una posizione simil fetale, scansai involontariamente una grossa foglia, di non so quale tipologia, e scorsi una confezione variopinta.
Era una scatola di merendine, sbiadita ed impolverata, ma ancora sigillata… fu come guardare, per la prima volta,una limpida luna incastonata in un cielo stellato.
L’incredulità nello scorgere la possibilità di placare una fame che c’era e di cui non avevo assolutamente riconosciuto i segnali, era stampata sul mio volto e rimase lì fin quando non realizzai che il padrone di quel riparo e delle cibarie appena scovate, sarebbe potuto tornare in qualsiasi momento.
Dopo un attimo di perplessità, aprii quella confezione giallastra, strappando l’involucro esterno senza alcuna reverenza.
Si susseguirono, senza imbarazzo, le prime tre merendine, senza concedermi neanche la premura di respirare tra un boccone e l’altro, poi, rallentato dal troppo mangiare nella mia bocca e dalla mancanza di una qualsiasi cosa da bere che potesse aiutare la mia deglutizione, ragionai sul fatto di esser stato ingordo e di non aver pensato assolutamente al razionamento queste, inattese, riserve alimentari.
Mi guardai attorno freneticamente, alla ricerca di una qualsivoglia borsa, come se avessi sentito qualche rumore sospetto che mi inducesse alla fuga, ma non trovai nulla.
Presi in mano la scatola di cibarie e buttai all’aria tutto quel che c’era nella baracchetta di fortuna che mi aveva ospitato, con la speranza di trovare altre vettovaglie nascoste o qualsiasi altra cosa che potesse tornarmi utile.
Allo scemare di quel raptus incontrollato, mi resi conto che non avevo motivo per scappare; che chiunque si fosse avvicinato a quella misera tana, avrebbe capito le mie condizioni, vivendole lui stesso in prima persona e che, alla fine, era meglio far riposare quel corpo, che sentivo provato fino allo sfinimento, pur non essendo consapevole del perché.
Risistemai il giaciglio di plastica e fogliame, gettato all’aria nella ricerca spasmodica del nulla e, con un briciolo di calma in più, mi accasciai, con la consapevolezza di poter trovare quiete e riposo.
Aperti gli occhi, dopo un sonno ristoratore che mi aveva ricaricato dell’energia perduta in precedenza, mi misi istintivamente seduto con il busto forzatamente eretto ed il collo ad imitare un periscopio, così da sgranchire tutte le ossa della mia colonna vertebrale.
Poi, con la curiosità di un bambino che osserva un posto sconosciuto, mi guardai attorno, cercando di scrutare tutto quello che mi circondava.
In lontananza, in direzione della strada che mi aspettava, c’era uno strano luccichio che sembrava chiamarmi timidamente, brillando e scomparendo al modo del codice Morse.
Recuperato lentamente l’uso degli arti, intorpiditi dalla posizione in cui avevo dormito, raccolsi tutto quello che immaginavo potesse essermi utile, non ultime le poche merendine rimaste.
Strappai la busta che mi aveva fatto da giaciglio nella notte appena trascorsa, ci misi le cibarie trovate e, come fosse un grande fazzoletto, lo legai ad un bastone, facendone una legacciola.
Salutai, con un’occhiata ricca di gratitudine, quel piccolo angolo inatteso che mi aveva offerto il tepore di un’apparente dimora e mi diressi verso quel luccichio, che aveva catturato la mia attenzione.
Nonostante la mia memoria fosse totalmente azzerata, avevo la netta sensazione che la spiaggia fosse più calda e polverosa del normale, ma questa convinzione poteva solamente rimanere una sensazione priva di conferma.
I passi cominciarono a susseguirsi lenti e senza troppa enfasi, per non sprecare quelle poche energie che avevo recuperato nella notte, ma con la determinazione necessaria a raggiungere la meta che mi ero prefissato: il centro abitato scorto il giorno del mio risveglio.
Dopo una mezz’ora di cammino, arrivai in prossimità del bagliore che aveva acceso la mia curiosità.
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