In pochi secondi il ticchettio della sveglia apriva la giornata. I miei occhi si riempivano della stanza. Avevo la bocca metallica e una sottile pressione dalla testa. In pochi secondi calcolai le azioni da intraprendere prima di uscire di casa: colazione, doccia, camicia, vestiti, lettore mp3.
Sonno, ero già stanco prima di iniziare, mi sedetti sul mio culo, con fatica e leggermente stordito, la luce invadeva la stanza dai fori dalle tapparelle, illuminava quella montagna di vestiti sulla poltrona e il divano. Era un’accozzaglia di mobili IKEA e roba vecchia trovata al mercatino di piazzale Cuoco. La scrivania era un misto di fogli sparsi, un vecchio laptop della Sony e una piccola libreria. Il silenzio mi riempiva le orecchie. In lontananza un tram sferragliante girava tra le curve della piazza. Dovevo iniziare, ma ricaddi di lato, volevo chiudere gli occhi, almeno un altro pò. Avevo dormito poco la sera prima, i pensieri accelerano nella notte, mentre cercavo di autoconvincermi che dieci minuti di sonno in più non sarebbero stati così dannosi; mi risvegliai dopo quaranta minuti. Ora si che sono in ritardo, rifeci i calcoli velocemente: doccia, camicia, pantaloni, lettore e fuori in tempo record, i pensieri martellavano il silenzio, ero completamente sveglio. Prima di scendere, gettai lo sguardo tra le tapparelle e lì, al di là della piazza popolata di alberi secchi, palesava là, immobile come in una San Pietroburgo, la Madonnina inconsapevole, osservava un inverno gelido fino a meno quindici gradi. Avevo trovato lavoro in un ufficio marketing di una importante azienda, o meglio: il fantasma di una grande azienda che produceva televisori, stereo e altre cineserie. Pensai che sarebbe stata una buona occasione per fare esperienza, l’ufficio si trovava fuori Milano, a Monza. Appena uscito fuori di casa incontrai Chiara, la mia dirimpettaia. Usciva anche lei di casa per andare all’università, un caschetto castano, e due occhi vispi, molto vispi, quasi incazzati.
– Baccano ieri sera? Divertiti? disse quasi con stizza e dall’espressione delle sue labbra, percepì di sfuggita una sorta di gelosia.
– Baccano? forse, forse non ce ne siamo accorti. Mi posizionai, goffamente ma elegante agli occhi infuocati di Chiara.
Scesi di corsa, l’ascensore era bloccato, forse qualcuno ieri notte l’ha bloccato, pensai tra me e me. Ingoiai con le gambe sette rampe di scale; ecco il corridoio dell’uscita e il suo semi-liso tappeto rosso, il marmo monotematico degli anni 60, ed eccola lì, uno dei personaggi più potenti della città: la portinaia, Angela, un donnone siciliano, capelli sempre cotonati, nerissimi, occhi enormi e un decoltè da film neorealista. Lei sapeva tutto, voleva sapere ogni dettaglio di ogni inquilino, affittuario o locatore. Mi aspettava con i pugni nei fianchi, da donna del sud, incazzata al punto giusto, soprattutto perché sapeva di avere ragione e mi voleva rimproverare: violato il regolamento fù.
– Divertiti ieri sera? Si sono lamentati quelli del sesto e del quinto, sia della tua scala e sia quelli della scala a fianco, mi spieghi? C’era bisogno di buttare giù tutta Milano?
-Angela ne possiamo parlare con calma stasera? è il primo giorno di lavoro e sono già in ritardo cercai di smarcarla velocemente, continuando a camminare, voltando lo sguardo nella sua direzione.
-Certo che ne parliamo dopo, la portineria chiude alle 18:00, ti aspetto! Mi lanciò dietro l’ammonimento per portarlo con me.
Feci gli ultimi tre gradini e dalla pericolosa portineria aprii il pesante portone in ferro nero e vetro e finì in strada. Il freddo mi diede letteralmente un pugno in faccia, lo sentivo anche tra le gengive, malgrado il sale cosparso nel marciapiede, l’aria era così fredda che ghiacciava immediatamente tutto.
Il sale gettato da Angela nel marciapiede era l’unico compagno di strada, scrocchiava tra palazzoni, cornice nella piazza circolare, riempita da tanti alberi. Solo un signore portava a spasso un pastore tedesco, impacciato nei suoi vestiti pesanti e un anziano dal volto scuro forse zingaro mi osservò mentre attraversavo la piazza. Indossai una cuffietta, guanti, auricolari, mp3 e una lista a caso: Moanin di Charles Mingus, per andare al passo giusto.
Camminai con un passo veloce, un pò per il freddo, un pò per il ritardo. Monza era solo a 2 treni di distanza. Il passante affiorava dal sottosuolo attraverso delle enormi bocche di cemento. Prima rampa, biglietti, fila, seconda rampa. Il calore del sottosuolo attenuava di colpo il freddo polare dell’estero. Mi fermai di fronte alla macchinetta dei biglietti, la fila accentuava l’adrenalina del ritardo. Il sax nelle orecchie dava ritmo alle dita, monete, biglietti.
– Farò l’abbonamento del treno, con calma, dopo il lavoro. Ora, qualsiasi treno fino a Porta Garibaldi. Non posso arrivare tardi il primo giorno di lavoro – Specchiai il mio viso, lanciato dentro un cappotto scuro nel treno veloce, sfrigolante nei binari.
Ecco il Treno, dentro uomini e donne sardinati, ben vestiti e silenziosi, dotati per il passante di borse e borsettine a zaino, piccoli e compatti. Per contenere computer e schiscetta senza toglierlo e non invadere anche gli altri passeggeri, collaudate per via crucis quotidiana. Erano visibilmente nervosi, diciamo stizziti nello spendere quel tempo schiacciati nei treni, avvolte maleodoranti, ma non perdevano mai la pazienza, perché avevano fatto una scelta, loro erano i pendolari, e forti della loro scelta preferivano vivere ore della loro vita in un treno. Un signore, e una signora di fronte a me, praticamente naso a naso discutevano amabilmente su quale fosse il treno più conveniente da e per Pavia incrociandosi non so dove. Auricolari, labbra senza voce, altri visi, duri ma non impauriti. Erano i lavoratori. A mio avviso un pò si erano rotti il cazzo di quella scelta. Anche io sarei diventato come loro?
Sax, Trombe, batterie, voci dei pendolari, assieme in scale improvvisate come un vecchio rag time, mentre le porte si aprivano e il treno vomitava tutte quelle persone pronte ed agguerrite ad attaccare la scala.
“Non sarà mica quella rampa di scala a separare noi e il nostro posto di lavoro” mi guardai intorno erano tutti convinti di quello che stavano facendo, erano tutti decisi, onesti lavoratori. Prima rampa corta, seconda rampa, immensa. Sotterraneo di collegamento ai binari, di nuovo freddo.
Binario diciotto, corsi frettolosamente per tutto il sottopassaggio. Mi scontrai con una ragazza, chiesi scusa, era bella. Salì un’altra rampa di scale, treno, già partito. Altri calcoli, orari memorizzati. Quello per Bergamo andava bene, allora mi fiondai 10 binari più indietro. Ovunque persone, ma non tanto preoccupate come me. Altra rampa, il treno, vecchio e malconcio tipico di Trenitalia, calore insopportabile per via dell’aria condizionata, gente ammassata e accaldata. Incominciai a sudare, la condensa di quelli vicino alle porte sublimava sui vetrini. In totale erano 30 minuti di treno, ma non essendoci una linea diretta, era praticamente un sali e scendi per rampe di scale in quel marmo e cemento lanciato sottoterra. Tra Milano e Monza ci sono solo 2 fermate: Milano Greco Pirelli e Sesto San Giovanni. Il fantasma dell’acciaieria Falck affiorava dalla nebbia glaciale. Dalla stazione del lungo fiume d’acciaio alla sede impiegavo altri venti minuti a piedi, l’avevo testato durante i colloqui. Il freddo mi accompagnava senza chiedermi se la sua presenza fosse ben voluta. Un folto gruppo di dipendenti faceva la mia stessa strada. Ecco l’allegra combricola della Onetech. Avevano l’aria di quelli che la strada la conoscono così bene, avevano sicuramente abituato il passo al marciapiede. Li superai di gran carriera, accennai un sorriso ma fui salutato da un nulla. Entrai nella reception di quell’enorme colosso. La guardia giurata dietro ai suoi baffoni dopo avermi dato il badge mi disse con il suo forte accento meridionale che mi stavano già aspettando. Cosa vuol dire aspettare? Sono l’ultimo?
Due, tre, quattro lunghi corridoi, infiniti con sigle alle porte di chissà quali divisioni, mi portarono all’ingresso della sala conferenza. Il sudore oramai sentivo che colava per tutta la schiena, bagnando completamente la camicia. Tutta l’azienda era riunita per l’apertura dell’anno commerciale. Avevo ricevuto l’invito via email e presumibilmente, come un rito, davano il benvenuto alle nuove leve. Schermo gigante, applausi, cravatte, sensazionalismo verso i prodotti proiettati. Mi sedetti dietro il mio capo, un ragazzo giovane, ben vestito e mento inclinato leggermente verso l’alto: sapeva il fatto suo, l’avevo visto due volte al colloquio. Notò con la coda dell’occhio che mi sedetti proprio dietro di lui, tutto il freddo era diventato un enorme ondata di calore, la camicia era fradicia e il fiato non scendeva.
-Dove cazzo eri? Hanno chiamato il tuo nome, la tua foto proiettata, due parole di benvenuto e non c’eri? Che cazzo stai facendo? Aveva un sorriso finto, pieno di rabbia.
– Ho perso il treno, scusami
– Ah, e me lo dici così?”
– Ti dovrei dire una bugia?”
– Mi stai già facendo girare i coglioni!”
Riprese a guardare il mega schermo, aveva stretto la mandibola, abbozzava un sorriso ma era furente si poteva notare dalla contrazione del muscolo della mascella. Daniele, questo era il suo nome, in quel preciso momento era rubicondo d’ira.
Ok, mi odia, sono già nella merda prima di iniziare. Eppure durante i colloqui sembrava incuriosito. Feci quello che faceva il capo: guardai lo schermo, con tranquillità, sentivo che i miei colleghi mi guardavano sconcertati. Con quella luce soffusa, i sorrisi, non proprio autentici degli astanti creavano un’atmosfera quasi da ritrovo massonico. Il respiro lentamente si placava, dopo la presentazione, tutti tornarono alle loro postazioni, mi accompagnarono nella mia stanza. La camicia finalmente si asciugò, lì mi aspettavano una anonima scrivania color faggio, un computer da desktop di quelli enormi, costituito da uno schermo, una tastiera un mouse e il case dal forte richiamo degli anni ottanta, quaderni e tanti pennarelli. Ogni prodotto aveva un blocchetto di manuali alti 50 cm. L’azienda era massiccia, anche visivamente. Non sapevo quante persone lavorassero in quella sede, ogni corridoio portava altri visi. La giornata consisteva, in un tour organizzato di tutte le divisioni. Mi portarono a zonzo tutto il giorno; fu un frullatore di strette di mani e nomi, persone, funzioni aziendali, erano tutti gentili, fin troppo, quasi di plastica. Ero Intorpidito, quasi rincoglionito, intravedevo il buio arrivare dalle finestre. Solo a sera riuscì a sedermi, alla mia scrivania, identica a tutte le altre, sfogliai senza curiosità gli enormi materiali di prodotto. Per qualche minuto, riposai ed ebbi modo di mettere insieme i pezzi. Notai che i miei colleghi, nell’enorme stanza, erano immersi nei loro lavori e non mi calcolavano. Vi era uno magro e secco e tre isteriche che piangevano ogni tanto su excel.
-Enrico, vieni un momento- sentì da una stanza vicina. Daniele, il capo, aveva la stanza vicina alla nostra. La stanza non aveva nulla di personale, era semplicemente una parte dello stanzone con delle semplici pareti di cartongesso che ci dividevano dalla nostra. Quando entrai era seduto alla sua scrivania e fissava il monitor intento non so a fare che cosa, aveva lo stesso sguardo severo della mattina mentre fissava il grande schermo e inoltre aveva una gran voglia di rompermi il culo già dal primo giorno.
-Ci aspettiamo grandi cose da te, mi raccomando- stava sistemando la borsa e chiudeva la giornata. La sua camicia ancora perfettamente stirata dava proprio l’impressione che qualcuno gliela avesse cucita addosso.
-Puoi andare per oggi-
-Va bene, ciao Daniele desiderava incendiarmi lì sul posto.
-Tutto qui?
Sgattaiolai fuori per i quattro piani dall’ufficio alla strada.
Badge e i baffoni del sonnacchioso portinaio erano identici a quelli della mattina. Mi feci una bella doccia di freddo fino alla stazione. Solo alla banchina del treno tirai un sospiro di sollievo. ll treno per Porta Garibaldi era in ritardo, alla banchina vi era solo un signore distinto, una madre e un bambino. Il bambino si stava prendendo una ramanzina perchè non aveva saccagnato di botte il compagnetto a calcio, mentre il bambino si allontanava per non sentire la madre che lo fiancheggiava il signore distinto, prese coraggio per attaccare bottone, aveva i capelli bianchi, un trench, un ascott e dei guanti neri. Il vecchio medico nel film l’’uomo dei sogni. Mi fissò qualche secondo prima di parlare:
“Vede, i bambini giocano per giocare, punto, se non vogliono picchiare qualcuno dicono perchè no!, N.O – cadenzava le parole con le mani “non hanno una ragione come la mia e la sua. Loro ragioneranno dopo i dieci anni, loro giocano, spensierati e negli spalti i genitori si picchiano. Ma si picchiano per cosa? Perchè quella madre lo sta rimproverando? è statistica, tuo figlio non diventerà mai Platini o Beckenbauer, diventerà un individuo come noi e si realizzerà nella media. Allora spera che sia nella media, perchè dopo diventerà un surrogato senza anima. Invece no, la madre lo incita a essere il primo, il migliore. Quando è statistica, non sarà mai primo. Cerchiamo la forzatura in ogni cosa, sarebbe molto più semplice senza chiedere i no e i si. Pensa a quel bambino che non è ancora. Grazie a coloro che non sono ancora coloro”
Nel pensare di replicare, arrivò il treno e il signore prese subito un altra carrozza e la madre rifilò un bel ceffone al ragazzino, inghiottito da un muro di gente e da un enorme nube di vento gelido, degno del miglior film russo degli anni venti. Cio detto non sarei riuscito a replicare nulla. Arrancai verso casa, distrutto. La portineria era chiusa, meglio così non dovevo confrontarmi con Angela, l’ascensore era funzionante, con un cartello all’interno che invitava le persone ad utilizzarlo in maniera corretta ed evitare gli schiamazzi notturni. Facevano prima a chiamarmi e a dirmelo in faccia che dovevo fare da bravo. Entrai in casa, la mia coinquilina non c’era. Ero così stanco, che non riuscivo neanche a cucinare. Mi lanciai sul letto, senza vestiti, ancora gelido. L’odore rassicurante della propria casa, era il segnale che per oggi era andata così.
Dopo questa giornata quello che mi veniva in mente era la frase del signore distinto.
“Grazie a coloro che non sono ancora coloro”
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