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Tutta la strada per arrivare qui

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Consegna prevista Gennaio 2026
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Mavi e Alaska sono due giovani sognatori dal cuore nomade. Il loro primo incontro è fugace e caotico, ma lascia ad entrambi un ricordo potente e vivido, che sopravvive per diversi anni, durante i quali, le loro vite si sfioreranno senza incrociarsi.
Due personaggi molto diversi, accomunati da un’inquietudine di fondo che li tormenta e li spinge a cambiare spesso rotta, a fare i conti con la solitudine dell’anima, quella più feroce.
Roma e Berlino sono le città che fanno da cornice a questo viaggio interiore ed esteriore , il senso del movimento, l’urgenza di spostarsi, di andare via, fanno compiere ai protagonisti dei giri immensi per poi ritrovarsi, a volte, al punto di partenza. Come se il senso di questo vagare non riuscisse davvero a trovare una soluzione di continuità. Mavi e Alaska non sono gli unici protagonisti di questa storia, i personaggi “sullo sfondo” diventano profondi e fondamentali in questo romanzo di formazione che coinvolge tutti loro.

Perché ho scritto questo libro?

Questo libro nasce dall’urgenza creativa e da quella di viaggiare. Perché scrivere e raccontare storie ci permette di vivere avventure incredibili, che spesso prendono una piega diversa da ciò che ci aspettavamo all’inizio. Io so fare tante cose nella vita, ma quello che devo assolutamente fare è scrivere. Anche in questo caso, come sempre, i miei personaggi hanno abitato i miei giorni e i miei sogni per mesi, fino a che non li ho messi nero su bianco e ho raccontato la loro avventura.

ANTEPRIMA NON EDITATA

PROLOGO

Quando aveva visto le calle nella busta di plastica, aveva pensato fossero per lei e, anche, come gli fosse venuto in mente di regalarle una pianta.

Forse sette ore di conversazione al telefono la prima notte e altrettante la seconda, gli avevano fatto pensare che lei fosse tipa da piante.

E non è che proprio non lo fosse, ma c’erano due fattori principali che facevano di quel gesto qualcosa di particolare:

Primo. Lei non era abituata a ricevere nemmeno un fiore da tanto, tantissimo tempo.

Secondo. Era la prima volta che si vedevano e regalare qualcosa a qualcuno, la prima volta che ti incontri, era del tutto inusuale.

Avrebbero potuto non piacersi, rendersi conto che tutte quelle chiacchere non erano altro che la farneticante ricerca di qualcosa di bello in un mare di costante nulla. Ma forse le cose funzionano così. Quando si fa un passo più lungo della propria gamba.

Ad ogni modo, lei quel giorno aveva deciso di indossare la sua felpa preferita a collo alto, un pantalone a palazzo e i suoi capelli peggiori. Nemmeno un filo di trucco. Essenzialmente, una dichiarazione di guerra.

E in effetti quello era un periodo di difese, tanto che era scesa con il suo cane, perché non le importava affatto se lui avrebbe apprezzato o meno quella camminata a tre, anzi, avrebbe dovuto farci l’abitudine.

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Da lontano, nel suo giacchetto verde militare e lo sguardo cupo, le era sembrato respingente, nulla a confronto di quanto potesse apparire lei stessa. Poi avevano incrociato gli sguardi dello stesso colore ambiguo, che quella tarda mattinata domenicale tingeva di cumuli nembi.

Forse un impacciato abbraccio, lui che le porge la busta, lei che gli mette in mano il guinzaglio del cane e non condivide il modo in cui lui decide di accorciarlo, ma lo lascia fare.

Lui osserva ogni movimento, resta scostato, lei invece cerca un contatto. Camminano, non si ricordano più se fa freddo, ma fa freddo e anche no. Lei porta in braccio la pianta ringraziandolo malamente perché ancora non sa come si fa e cosa debba farne, pensa solo che non sa se saprà prendersene cura. È brava con tutto e tutti, non con le piante.

Un primo incontro di osservazione reciproca, qualche bacio, darsi la mano. Ritrovarsi vicini senza volerlo e non sapere bene che fare, lascia che sia lui a condurre il gioco, d’altronde per lei durerà quel tempo o forse una volta in più, o magari una settimana. Le cose che la mettono sottosopra non durano mai molto. Non le fa durare mai molto.

CAP 1

Alaska si chiamava così da quando aveva sedici anni.

Gli occhi erano talmente celesti, che con la luce diretta sfumavano verso il bianco fino a sembrare un abisso di ghiaccio.

Non la chiamavano Alaska per quello.

Sapeva abbracciare Alaska, quando voleva. Di quegli abbracci che ti fanno un buco al centro del petto e spalancano un nucleo caldo, freddo o vuoto, a seconda di chi viene abbracciato.

Però non sapeva fare altro.

Da piccola aveva imparato a parlare con gli animali, con loro, con gli sguardi in silenzio, con i movimenti impercettibili e lo spostamento del peso del corpo, lei capiva. Da grande, aveva disimparato a parlare con i conspecifici.

Anzi, a dire la verità, le sembrava di non aver mai davvero saputo farlo. Riusciva a comunicare con loro ad un livello base, che, ad ogni modo, risultava molto meno superficiale della maggioranza di quello dei suoi interlocutori.

La prima volta che l’aveva punta una zanzara, Alaska si era stupita. Il suo sangue, a quei piccoli vampiri con le ali, non era mai piaciuto e lei se lo spiegava benissimo, perché non era come il sangue degli altri.

E aveva sempre le mani e i piedi e le cosce caldissime, Alaska. Il che la faceva sorridere, dato il suo nome, però si era sempre detta che se mani fredde voleva dire cuore caldo, forse mani calde voleva dire che il suo era molto, molto, freddo.

Però si era completamente dimenticata di come fosse successo.

Non che le dispiacesse. A volte dispiaceva alle persone con cui usciva, ma a lei no. C’erano davvero poche cose che potessero toccarla, o meglio, sfiorarla appena, quel tanto che bastava per farle rizzare un po’ i peli biondissimi delle braccia. Gooseflesh. Diceva sua madre. Qualcuno ha appena camminato sulla tua tomba, diceva suo nonno.

Il detto, in realtà, valeva per i brividi, ma più o meno era assimilabile anche la sua pelle d’oca. In quel momento quindi, pensava Alaska, la sua tomba era già da qualche parte lì fuori e lei aveva sempre pensato che avrebbe voluto essere seppellita nella terra umida, senza cassa da morto. Ma forse era illegale.

La morte non le aveva mai fatto paura ed era questo che aveva minato alla base il suo senso del pericolo. Semplicemente non le era stato dato in dotazione.

Mavi era bravissimo a baciare.

Questo gliel’aveva detto la sua amica del cuore, Adalie, quando, avevano all’incirca tredici anni. Lei gli aveva chiesto se poteva baciarla, per prepararsi al primo bacio con il suo fidanzato crucco. Le piaceva chiamarlo così, anche se pure lei era cento per cento tedesca, la faceva sentire più complice con Mavi che, al contrario, tutto sembrava tranne che uno di loro. Lei adorava che fosse diverso.

Quella era stata una rivelazione. Si, il ragazzo aveva baciato qualche compagna di classe e una di nuoto, però non aveva mai pensato di avere un dono.

“tu baci proprio come ogni ragazza dovrebbe essere baciata”

Gli aveva detto la sua fidanzata Klara, qualche anno più tardi.

E allora lui aveva cominciato a crederci.

Così, quando Klara gli aveva spezzato il cuore, un po’ di tempo dopo, aveva deciso che avrebbe baciato quante più ragazze possibile per testare se effettivamente l’effetto fosse sempre lo stesso e anche perché, aveva pensato in un delirio di onnipotenza post rottura, tutte le donne meritavano di essere baciate come desideravano, almeno una volta nella vita.

Mavi era metà turco, metà chileno, nato a Berlino. Beh, lui si che aveva qualche storia da raccontare. Non fosse stato per il fatto di non aver mai conosciuto i suoi genitori, che l’avevano dato via appena nato. Abbandonato era la parola giusta.

Mavi era stato adottato praticamente subito da una coppia di napoletani emigrati in Germania a fare fortuna. E fortuna l’avevano fatta eccome. Partiti a ventotto anni, con moltissimi soldi e qualche titolo nobiliare in disuso alle spalle, Anna e Francesco, avevano aperto il loro primo ristorante appena arrivati a Berlino e da lì il resto ormai era storia della ristorazione in quella città.

Poi era arrivato Mavi. La pelle olivastra e morbida, gli occhi grandi come una noce, le ciglia lunghissime nere come la notte e come i suoi capelli, tanti, troppi, che in età prescolare erano cresciuti a dismisura senza mai essere toccati.

Una faccia da schiaffi e da baci e la mania di pulirsi il naso con la manica della maglietta. Senape, cuoio, arancia matura erano i colori che gli donavano di più. Sua madre non perdeva occasione di comprargli salopette di velluto a coste, che gli cadevano così bene sul corpicino magro e scattante, da scugnizzo mezzosangue.

Avrebbe tranquillamente potuto essere il loro figlio biologico, date le innumerevoli affinità cromatiche e somatiche. Non fosse stato per il fatto che quegli occhi così azzurri non avrebbe potuto ereditarli da nessuno dei suoi avi adottivi e che il nome, chiaramente, non aveva origini partenopee.

Anna e Francesco erano stati d’accordo nel lasciarglielo, era l’unica cosa certa che gli fosse rimasta, quando la madre biologica l’aveva lasciato in ospedale.

Attraverso amici influenti, la coppia, che ormai aveva quasi rinunciato ad avere un figlio naturalmente, dopo almeno cinque anni di estenuanti tentativi, visite e analisi di ogni genere, aveva deciso di percorrere la strada dell’adozione. Per loro sarebbe stato impossibile pensarsi senza prole e le conoscenze giuste avevano fatto arrivare nella loro vita quel nanetto di appena sei settimane.

E poi Mavi voleva dire blue e a loro ricordava il mare, lontano.

CAPITOLO 2

La vita era una cosa piuttosto semplice per Mavi e per Alaska e al tempo stesso decisamente complicata.

Erano quei tipi di persone che tutti vogliono attorno, ma che spaventano anche.

Né troppo vicini, né troppo lontani. Alla giusta distanza. Era la stessa cosa che si erano detti a vicenda quando si erano conosciuti. Per non avere effetti collaterali, assumerne a piccole dosi. Questo era il loro personale bugiardino, con le istruzioni per l’uso per “sopravviversi”.

Alaska si era trasferita a Roma da ormai quindici anni, non da molto lontano. Era cresciuta in campagna, nelle zone del viterbese e lì sì che era una strana. Quantomeno a Roma le persone erano più indifferenti a definire la vita degli altri. Se ne fregavano di più e a lei, che conduceva una vita tutt’altro che lineare, essere definita le cascava sempre male addosso, come una giacca dalle spalline troppo larghe.

La Tuscia sapeva essere anche piuttosto incasinata, i vizi degli adolescenti andavano molto oltre l’alcool e gli spinelli e così aveva visto amiche e amici finire in riabilitazione più di una volta, per disintossicarsi da veleni che avevano continuato a mangiarseli da dentro. Anche quando erano riusciti ad essere puliti per qualche mese.

Sua madre aveva un campeggio sul lago e chi restava a fine stagione, quando i villeggianti se ne andavano, doveva abituarsi all’abbandono ciclico. Lei ce l’aveva nel sangue, il dono di non sentire niente e non avere paura aveva fatto sì che ogni cosa le sembrasse molto leggera.

Suo padre le aveva lasciate quando era molto piccola, per non tornare più e anche lì l’esercizio ad essere abbandonata aveva forgiato i suoi occhi ghiacciati al freddo più feroce, quello di agosto.

Forse per quello non le interessava morire. Se non hai paura di lasciare qualcuno o essere lasciata, non può spaventarti andartene per sempre.

Aveva vissuto a Londra per un po’, per un po’ a Berlino e per un altro po’ a Copenhagen.

Sua madre era inglese, ogni posto dove si potesse parlare quella lingua semplice e distaccata, somigliava a casa.

Berlino forse era stata la sosta che l’aveva messa più a rischio.

Aveva conosciuto un musicista, Luca. Napoletano. Alto. Grosso. Disincantato. Molto più grande di lei.

Una sera Luca l’aveva invitata a cena, vedendola bere una vodka liscia al bancone del bistrot dove lavorava. Lei aveva detto di si, perché le piaceva come parlava.

Sciù Sciù le diceva. Sweety. Rispondeva lei.

Quella sera avevano fumato una canna con il filtro ricavato da un biglietto della metro di Berlino, un kurtztracke, nella casetta airbnb che lui aveva affittato a Montemario. Non avevano dormito quasi niente, facendo sesso in napoletano e in inglese e in romano. Un uomo grande e grosso, sudato e coinvolto come non gli capitava da anni e una magrissima ragazza dagli occhi azzurri, che si prendeva una delle cose che conosceva meglio, il piacere. La mattina lui le aveva portato a letto un caffè e un bacio perugina. Alaska era allergica al cioccolato, o forse solo lo detestava, non se lo ricordava più, perciò diceva di essere allergica. Ma quella mattina se l’era messo in tasca e gli aveva detto con un sorriso di circostanza

“Lo tengo per dopo”

Sulla porta, mentre lei si affrettava ad andarsene alle sei e venticinque, lui le aveva chiesto senza punto interrogativo

“Torna a Berlino con me dopodomani”

“Può darsi”

Aveva risposto lei distrattamente, mentre si allacciava le converse bianche sull’uscio.

“Come ti chiami?”

L’aveva fermata lui prima che lei potesse andarsene

“Alaska”

CAPITOLO 3

Michelle aveva venti stupidi anni, era alta un metro e settanta, pesava quarantasette kili e la sua carriera da modella stava per finire. Perciò aveva deciso di trasferirsi a Roma per provare a fare l’attrice. Il suo agente, con cui andava a letto regolarmente, le aveva promesso che le avrebbe trovato qualcosa.

Nel frattempo campava con qualche shooting e facendosi pagare l’affitto dall’agenzia, visto che qualche privilegio se l’era guadagnato negli ultimi quattro anni di pompini ben fatti.

Mavi l’aveva conosciuta in Costiera, durante un viaggio in famiglia tre anni prima. E si era innamorato di lei, praticamente al ciao.

Italo francese, cresciuta a Torino, un corpo scolpito dall’anoressia e dalla palestra, i capelli biondissimi che le sfioravano le natiche sode, il topless perfetto ben lavorato da mani di un chirurgo esperto: sodo e dall’effetto naturale. Occhi verde fiume di bosco, pelle di luna. Quante poesie avrebbe potuto scriverle in qualsiasi lingua.

Lei, da brava francese, pensava che Napoli fosse la città più romantica del mondo e una volta si era presa una cotta per un ladro in motorino, che aveva cercato di rubarle il cellulare. Solo che poi erano finiti in un vicolo attaccati alla pietra viva a infilarsi le mani ovunque. Lui il telefono gliel’aveva fatto lo stesso. Lei voleva solo rivederlo per sempre.

Quando aveva incontrato Mavi, in un locale inn, con la camicia di lino bianca, che lasciava intravedere le clavicole abbronzate e gli avambracci muscolosi, la voce profonda che passava con naturalezza dall’italiano più perfetto, all’accento campano, per introdurre, nei momenti più concitati, qualche parola dura in tedesco, l’avevano affascinata.

I due avevano continuato a vedersi in giro per l’Europa. A volte a Parigi, a volte a Milano, a volte a Napoli. Lei, ogni due tre mesi, gli mandava un messaggio per dirgli dove si sarebbe fermata a dormire e lui si faceva trovare lì, ad aspettarla, con un regalo, dell’ottimo vino e tantissimo desiderio.

Poi ripartivano, ognuno per la sua vita. Non importava quante volte lui le avesse dichiarato il suo amore. Lei gli aveva detto di essere fidanzata, anche se lui non sapeva se crederle e questo lo massacrava.

Anche il ragazzo aveva provato a fidanzarsi nel frattempo, ma la cosa non era riuscita benissimo. Michelle era un chiodo fisso e difficilmente avrebbe potuto rimpiazzarla.

Adalie odiava Michelle. Forse un po’ amava il suo migliore amico, ma adesso era tardi. Aveva un fidanzato e stavano per sposarsi. Voleva fare molti bambini e doveva sbrigarsi. La sua vita era perfettamente pianificata e a lei piaceva. Mavi la invidiava, ma non l’amava. Non più di quanto si possa amare un’amica.

Adalie odiava Michelle perché aveva cambiato il suo amico del cuore. Dopo Klara, pensava che nessuna più sarebbe stata in grado di fargli così del male, ma aveva l’impressione che a lui un po’ servisse soffrire e un po’ gli piacesse. Struggersi per un amore romantico che non avrebbe mai coronato: era perfetto. Michelle era ideale per quel ruolo. Tra Shakespeare e Baudelaire, chi mai se non una modella francese, tanto bella quanto inutile e problematica, avrebbe potuto farlo capitolare.

Dopotutto, prima di diventare architetto, il sogno di Mavi era quello di fare l’attore.

Così, quando Michelle gli aveva detto di andare a Roma a incontrarla, lui aveva fatto un biglietto sola andata. Avevano molti anni di differenza e la carriera della modella stava inevitabilmente volgendo al termine. In più, il suo agente aveva deciso che era un po’ troppo grande per continuare a fare sesso con lei e le aveva rifilato la scusa che non gli sembrava giusto continuare così. In realtà, la sua nuova pupilla aveva diciassette anni, capelli corvini cortissimi e lo sguardo tagliente di chi non si sarebbe fermata davanti a niente.

L’ex modella sapeva che l’idillio romano e i benefit sarebbero durati ancora poco, così quando Mavi le aveva chiesto di sposarlo, tre settimane dopo una lunga vacanza romana dotata di vespa, aperitivi e tour storici, lei aveva detto di si.

Meglio quel diamante all’anulare che andare a fare la cameriera e doversi preoccupare dell’affitto.

E poi quel ragazzo era stato sempre così romantico e presente e premuroso, magari avrebbe rischiato di innamorarsi, prima o poi.

CAPITOLO 4

Luca era tornato da Berlino solo per quel lavoro.

Il matrimonio di un lontano parente che non aveva mai visto, ma sua madre gli aveva fatto promettere di andare a suonare a Roma.

Non vedeva Alaska da tre anni e quella sera sarebbe stata con lui. L’aveva pregata di accompagnarlo e di suonare insieme, come facevano ai tempi del Kurtztracke.

Avevano chiamato così il loro tempo insieme, anche se poi non era durato tanto poco e, tutto sommato, lui era certo che lei si fosse affezionata a qualcosa di loro, a qualcosa di lui, forse a Monet, la gatta bianca con un nome da maschio.

Avrebbero bevuto vodka liscia prima di cominciare, mentre tutti si ingozzavano all’aperitivo sul viale esterno, in attesa degli sposi che erano da qualche parte lì intorno a far fotografare la loro felicità.

Appena visti, fuori dalla villa su via Appia Antica, si sarebbero lanciati uno sguardo complice, quello di lui nerissimo e stanco, quello di lei bianco e felino.

Luca l’avrebbe baciata praticamente subito, spingendo la bocca un po’ troppo forte contro la sua. Lei non si sarebbe tirata indietro, avrebbe schiuso un po’ le labbra, fatto entrare la lingua per un secondo e non avrebbe chiuso gli occhi.

Sarebbe stata bellissima in un vestito lavanda scollato sulla schiena, con una piccola ruga in mezzo alle sopracciglia e le fossette evidenti.  Il bob liscissimo e biondo costellato da qualche fiore fresco. Un trucco smokey dark e sexy, che le avrebbe fatto risaltare quegli occhi.

Quegli. Occhi.

Luca avrebbe dovuto richiamare tutta la freddezza appresa in Germania in quei lunghissimi quindici anni ormai di permanenza, per non farsi saltare il cuore fuori dalla bocca.

La vodka comunque avrebbe aiutato.

Forse aveva i fianchi troppo rotondi per quel vestito, aveva contemplato Alaska prima di uscire di casa, chissà perché crescendo succedono cose al corpo che non erano mai successe prima, tipo i fianchi che s’arrotondano. Restava magra come al solito, solo più morbida in alcuni punti del corpo che non amava sottolineare. Luca l’avrebbe trovata bellissima. In ogni caso non importava, niente in realtà importava.

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Mikaela Dema
Grafomane da quando ho imparato a tenere in mano una penna, non ho mai smesso di scrivere, poesie, racconti, canzoni. Nata a Roma, mi laureo in sceneggiatura prima e giornalismo poi, scrivo per delle testate online e non, ma la narrativa e il songwriting assorbono tutta la mia vena creativa. Dal 2011 scrivo un blog "Lo Spazio Rosa", su temi di attualità e relazioni. Dopo aver pubblicato un racconto e delle poesie, un disco e portato in scena un monologo teatrale "Nata di Giovedì", decido di dedicarmi a questo libro. La scrittura continua ad essere e sarà sempre un tratto inscindibile della mia identità e questo libro il mio esordio come autrice di narrativa.
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