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Un posto bello

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Consegna prevista Gennaio 2026

Diamo per scontato che questo Mondo rimarrà per sempre come lo conosciamo. Ma se un giorno dovessimo trovarci in mezzo a una pandemia? E così è successo.
Sara ha trentotto anni e vive a Milano; ha appena perso il lavoro, è stata lasciata e non ha prospettive. Ma non è questo il problema; Sara non sa più qual è il motivo per cui dovrebbe alzarsi la mattina. In un vortice di eventi che entrerà a far parte dei libri di Storia, lei sta scrivendo la sua, attraverso i ricordi e le sensazioni di un passato lontano e vicino.
Per essere ricordata.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questo libro perché scrivere è più forte di me, per ricordarmi che le cose non sono sempre solo bianche o nere, perché volevo raccontare una storia.

 

ANTEPRIMA NON EDITATA

All’Italia,

il mio Paese.

Non fingerò un nazionalismo che non mi appartiene perché mi sono sempre sentita come se molte delle tradizioni di questo Paese non mi rispecchiassero. Eppure, nonostante i miei numerosi tentativi di fuggire, ero ancora qui quando arrivò il Coronovirus o, come lo ribattezzò la scienza, il Covid – 19.

Mia cara Italia, non sarò docile con te. Hai sbagliato tanto e tante volte, che nessuno, anche se follemente innamorato, ti perdonerebbe.

Tu che sei nata così bella, hai partorito un Paese che non è in grado di essere una nazione. No, non conta ora che siamo spaventati e soli. Bisogna esserlo sempre.

Abbiamo mentito, ingannato e rubato. Molto prima di questa pandemia. Ci siamo ritenuti superiori senza una ragione e non abbiamo saputo rispettare semplici regole del vivere civile.

Non abbiamo mai avuto chi ci governasse con saggezza e lungimiranza. Abbiamo barato spudoratamente quando è arrivato l’euro, raddoppiando i prezzi e non gli stipendi.

Abbiamo tagliato i fondi alla ricerca e alla cultura, facendo scappare le nostri Grandi Menti. No, non le abbiamo fatti scappare. Li abbiamo cacciati, non c’era altra scelta per loro, per utilizzare tutto ciò che avevano imparato, per coltivare il dono che era stato dato loro. Le prime persone che hanno individuato il nuovo virus erano italiane. E’ stata solo fortuna che fossero ancora qui. La fortuna, siamo stati abituati a contare troppo sulla Dea bendata, che spesso ci ha favorito, sbagliando.
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Non siamo stati in grado d’incentivare le nostre aziende, abbiamo creato disoccupazione e povertà. Abbiamo incolpato i nuovi arrivati, gli stranieri, per errori solo nostri.

Ma la cosa più grave di tutte è che, ad oggi, non siamo in grado di ammettere le nostre colpe e non smettiamo di cercare scorciatoie.

Qualcuno punta il dito e noi guardiamo il dito. Non abbiamo una coscienza sociale, un’istruzione sufficiente per pensare con le nostre teste.

Il futuro è nero. Era nero anche prima che la gente si ammalasse. Anzi, siamo piombati in questo incubo mentre già dormivamo male.

Chi ci difenderà? Che cosa succederà quando il virus sarà passato e la smetteremo di sentirci uniti e vicini? Chi sopravviverà a settimane senza attività produttive regolari?

No, grazie. Io non voglio esserci per vedere.

Mi chiamo Sara e, quando, arrivò il virus avevo trentotto anni e un giorno, vivevo con i mei genitori e due fratelli minori nella stessa casa. Non avevo un lavoro, soldi, prospettive. Ero stata lasciata dalla persona con cui ero stata per quasi un anno e mezzo da pochi mesi e prendevo degliantidepressivi.

Vagavo tra sedute di psicoterapia e aperitivi continuando a pubblicizzare il mio libro, con ostinata determinazione. Era la cosa migliore che avevo fatto in vita mia, quello che avrei voluto ricordassero di me, una volta finita.

Mi chiamo Sara, ho trentotto anni, vivo in Italia e, alla fine di questa storia, morirò.

La miglior cosa sarebbe scrivere gli avvenimenti giorno per giorno. Tenere un   diario per vederci chiaro. Non lasciar sfuggire le sfumature, i piccoli fatti anche se non sembrano avere alcuna importanza e soprattutto classificarli.”

(Jean Paul Sartre – La Nausea)

IL GIORNO PRIMA DEL PRIMO GIORNO

​​​​​​Accettazione

Le persone danno tutto per scontato.

Sembra che prima del Covid avessimo tutti una vita bella e appagante, che la pandemia avesse interrotto un meraviglioso sogno ad occhi aperti ma per me non era così.

Quando la vita all’esterno si è fermata, io ero già scomparsa. In un modo o nell’altro, presto morirò anch’io.

Pareva che se lo sentisse. Mi ha chiamato qualche giorno prima, dicendo che veniva a Milano per un corso di fotografia e che gli avrebbe fatto piacere vedermi. Anche a me faceva piacere, allora.

Non ci eravamo arrivati facilmente ma ci eravamo arrivati.

Lui era il mio “amico/potevaesserequalcosadipiù svizzero”.

Ci eravamo incontrati su una di quelle app e mi aveva conquistata quando ormai avevo deciso di chiudere con quella cosa dell’amore online che no, non era proprio per me.

Quella sera in cui stavo per disinstallare tutto e anche di più, lui mi mandò una poesia. Gli lasciai il mio numero per sentirci e da lì cominciò un lungo mese di messaggi e telefonate. Un mese bellissimo, fatto anche di scontri e di momenti spiacevoli ma mi sentivo sempre un po’ brilla nel sapere che ci saremmo sentiti di lì a poco. Era come avere una relazione a distanza senza stare davvero insieme. Tutto incredibilmente assurdo. Molto nel mio stile.

E poi c’incontrammo e io, nonostante lo negassi anche a me stessa, avevo aspettative troppo alte per chiunque. E quando le grandi aspettative si scontrano con la realtà, è sempre un incidente mortale.

Lui era dolce e gentile e sapeva ascoltare, fino a quando ha capito ciò che io avevo tristemente realizzato: non era scattato niente da parte mia e volevo scivolare fuori da quella situazione senza ferirlo, perché lui, invece, sembrava confermare quelle sensazioni che avevamo vissuto così intensamente al telefono. Mi sono sentita uno schifo, ne abbiamo parlato e poi io ho preso un treno che mi avrebbe riportato a Milano.

Sembrava destinato a finire tutto lì ma era difficile staccarsi da quella presenza, da quella gioia che portava nella mia vita anche da lontano. Abbiamo continuato a sentirci e, non so come, siamo arrivati alla conclusione che Roma non si costruisce in un giorno.

Decidemmo di rivederci e non fu l’ultima di tutta una serie di decisioni sbagliate. Ma, cosa avrei dovuto fare? Archiviare tutto e andare avanti senza darci una seconda possibilità?

Siamo andati a casa sua; il progetto era una cenetta accompagnata da buon vino e tante chiacchiere.

Non ci sedemmo neanche a tavola.

Quando fece per mettermi una mano sul braccio, mi scostai “con disgusto”, disse lui. Lo feci davvero? Ancora oggi non saprei dirlo, forse era stato un gesto incondizionato.

Fatto sta che lui decise che non era il caso di prolungare oltre la serata e mi mise su un treno con tre scambi per tornare a Milano.

Prima di andarmene, ci abbracciamo e lui mi mise tra le mani un biglietto da aprire quando fossi stata sola. Inutile dire, che mi sentii di nuovo uno schifo.

M’imbarcai su quello che poi sarebbe stato un viaggio molto più complesso del previsto e, mentre mi avviavo verso il primo scambio, aprii il biglietto.

Sapete la nostra ignoranza geografica a volta ci frega, letteralmente. Non so perché ma, nelle lunghe ore passate al telefono non ho mai pensato che, non essendo la Svizzera uno Stato dell’Unione Europea, le tariffe di roaming erano attive e costose.

Un paio di sere prima del mio viaggio, mentre parlavamo, mi cadde la linea. Com’era possibile? Avevo fatto una ricarica di cinquanta euro proprio quel giorno! Era possibile, avevo bruciato ben cinquanta euro in una serata.

E da quella busta uscì proprio quello, cinquanta euro quasi nuove con un biglietto con un fiore disegnato sopra.

Scoppiai a piangere, da qualche parte tra Lugano e Chiasso, in un treno semivuoto. E quella sera non riuscii mai a smettere. Mi ritrovai ad aspettare a Chiasso per più di un’ora perché il treno per Milano che dovevo prendere era stato soppresso. Ero stanca, triste, infreddolita e affamata. Non potevo comprare niente o fare l’elemosina a dei ragazzini che me la chiedevano perché, ovviamente, non avevo franchi svizzeri (sempre non Unione Europea, moneta diversa)

Una commessa del piccolo supermercato della stazione si mosse a compassione e mi diede uno snack per i piccoli spiccioli che avevo.

Sono riuscita a commuovere anche un controllore di Trenitalia; in un diluvio di lacrime, andai a chiedergli se il biglietto che avevo andasse bene perché nella fretta e… avevo avuto una serata orribile e… non sapevo neanche più cosa stavo dicendo.

Mi disse: “Di solito questo non va bene ma, per stasera, sì”.

Avrei voluto rispondere che la gentilezza che mi aveva dimostrato aveva un po’ migliorato la mia triste serata ma riuscii solo a dire: “Grazie”. Credo che, in fondo, lo avesse capito.

Provammo a essere solo amici, durò poco più di una settimana.

Volevo rivederlo, non mi piace lasciare le cose nel rancore. Noi scrittori abbiamo bisogno di un finale, sì proprio la scritta “fine”.

E quel giorno, quel sette marzo 2020 che tutti noi ricorderemo come il giorno prima del primo giorno del Coronovirus, mi successe una cosa che non avrei mai creduto possibile.

Siamo andati in un locale sui Navigli e, tra una parola sul lavoro e una sui nostri interessi artistici, lui si è scusato, per essersi comportato male con me.

Alcune donne raccontano eventi del genere ma, ammettiamolo, noi comuni mortali le abbiamo sempre ritenute delle legende metropolitane.

Eppure è successo, un’altra spunta messa prima di congedarmi da questa vita.

Alla fine del nostro primo incontro, mentre aspettavamo l’orario per riportarmi in stazione, ormai consapevole che le cose non sarebbero andate come avremmo voluto lui mi chiese: “Come vorresti che finisse la tua storia?”

Ci pensai un attimo e poi risposi: “Con qualcuno. M’immagino a scrivere e con la persona con cui avrò condiviso la vita, non m’importa del matrimonio, dei figli… m’importa aver camminato insieme ed esserci amati. Così mi vedo morire.”

Chissà cosa risponderei ora…

Alla stessa domanda lui, invece, mi gelò: “Combattendo contro un orso in qualche posto selvaggio”.

Pensai che fosse una strana risposta ma, insomma, tanto moriamo tutti nello stesso modo.

Che sbruffona eh! Questa strafottenza nei confronti della morte da persona navigata, da chi ne ha viste di tutti i colori, da artista travagliata… chissà da dove viene? Dalla mancanza di paura? Avrò ancora questa faccia tosta quando arriverà il momento? Morire è una cosa, togliersi la vita è sputare in faccia alla Morte. Io la vedo così.

Sputerò in faccia alla Morte con tanta sbruffonaggine?

Comunque, di quella sera ricordo che sono tornata a casa e che Conte parlava in differita dal credo centesimo telegiornale che i miei avevano visto in tv da quando era uscita.

Quel virus lontano, quello che aveva contagiato tutti in Cina, era arrivato anche qui. Chiudevano le scuole, i cinema, si consigliava di stare a casa.

Penso a qualche ora prima mentre camminavo sui Navigli pieni di gente, mentre facevo l’aperitivo in un locale dove c’era la fila per il buffet e al treno della metropolitana che mi aveva riportato a casa.

Sarà proprio un bel casino, ora che ho fatto quel colloquio che mi sembrava così promettente. Un tempo indeterminato poi, il Santo Graal dei disoccupati.

Chissà se qualcuno, pensando alla propria morte, abbia solo immaginato un finale così, con un virus che arriva e vince tutto il piatto.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Silvia Trevisone
Silvia Trevisone nasce a Milano nell’inverno del 1982, si laurea in Sociologia all’Università degli Studi di Milano Bicocca e fa i più svariati lavori. Pubblica il suo primo romanzo “Un momento di chiarezza” nel 2018 con bookabook ottenendo molte recensioni positive. Ora mantiene la promessa che ha fatto a se stessa: “Un momento di chiarezza” sarà solo il primo dei suoi libri.
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