Un uomo in proiezione racconta cosa vuol dire per il protagonista attraversare quel momento in cui a lui sembra che tutto vada in frantumi e si dissolva. Tra fiction, i personaggi sono proiezioni di un flusso di coscienza, e indagine giornalistica è una riflessione su come stia cambiando la società a seguito della chiusura in serie dei cinema e come la vita non sia più la stessa con la perdita dei punti di riferimento. Ambientato tra Milano e New York alterna luoghi reali , le sale c’erano davvero prima che passassero ad attività come i Bingo con effetto”ludopatia”,all’immaginazione sullo schermo della vita interiore del protagonista, Antonio. Un appassionato cinefilo che cerca di rielaborare lo smarrimento per la scomparsa della propria madre e di quella dei cinema perduti con ricaduta negativa a livello personale e sul contesto sociale a seguito delle sale cinematografiche perdute: solo a Milano si è passati dagli oltre 130 degli anni d’oro, i “60”, alle attuali poche decine.
Perché ho scritto questo libro?
Il libro è dedicato ad Antonio Sancassani, il proprietario del cinema Mexico, di recente scomparso, che ha resistito ad oltranza alle lusinghe di destinarlo ad altre attività fino alla fine nella speranza di una riscossa culturale globale, come titola il docufilm “Mexico; un cinema alla riscossa”.
Insieme alla perdita di simili personaggi illuminati si sono spente le luci al neon delle sale provocando non più il buio in sala necessario alla proiezione, ma il buio definitivo delle sale.
ANTEPRIMA NON EDITATA
Inizio
Nell’epoca in cui la fine è senza fine, con la parola “the End” diventata persino insolita a conclusione di un film per dare appuntamento a un seguito,
c’è un mondo che in silenzio rischia davvero di chiudere definitivamente. Andrebbe scongiurata la sua fine, o sperare in un happy end d’altri tempi per quel microcosmo sempre più ristretto e in ristrettezze che abbiamo conosciuto fin da piccoli: il circuito delle sale cinematografiche.
Se all’estero da Amsterdam a New York, le chiamano “art cinemas”, intoccabili luoghi d’arte e non di intrattenimento, da noi non è così, tanto che alle sale vanno sostituendosi a ciclo continuo le attività commerciali. Potranno mai ricreare il rito del cinema, che procede dalla luce al buio e viceversa,
per ricordarci che sulle nostre vite prima o poi cala un’ ombra? Condividendo il timore dei Fratelli Lumière sull’incerto futuro della loro invenzione mi decisi che era il momento di andare per
le sale superstiti convinto che ormai fosse giunto il tempo di proteggere quei luoghi, e non solo trovarvi protezione. All’uscita da un forzato isolamento trovai un mondo cambiato diventato più insolito ed estraniante, perfino la platea di gente vociferante, intenta a scartare le caramelle e a controllare il cellulare sempre acceso prima dell’inevitabile squillo, mi mancava; ma ero alla ricerca anche di questo perché il cinema è fatto di pubblico e non solo di una storia proiettata sullo schermo. Non era affatto cosa da poco trovare quei luoghi, alcune di loro non erano più dove le avevo lasciate perché avevano conosciuto la stessa sorte di tante persone care scomparse, portate via da una continua sostituzione ed estinzione.
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Tutto era cominciato molto prima della pandemia, un’inarrestabile escalation che sarebbe culminata almeno a Milano, in piena estate in una città incurante, con la chiusura dell’Odeon, a due passi dal Duomo, il più antico multisala meneghino. Inaugurato col nome di Cannon Odeon, riuscì a salvarsi dalle cannonate della Seconda guerra riuscendo a riaprire temporanemente col conflitto in corso tanto da ospitare l’Orchestra della Scala, privata dei suoi spazi ridotti a macerie, negli ampi spazi di dimensioni music hall. A quella sala fu più agevole scampare agli attacchi bellici che a quelli più letali dei centri e delle attività commerciali pronte a entrare nell’ingresso monumentale, sovrastato da lampadari art déco sospesi sotto la volta imponente in stile “Tuschinski Theater di Amsterdam”.
Se per gli olandesi è intoccabile ed è meta turistica di visite guidate da storici dell’arte, da noi non è così. La lenta agonia dei cinema è incominciata ai tempi della Settantesima edizione di Cannes, quando il film cambiò pelle: non più proiezione collettiva di una pellicola in sala, ma fruizione individuale in streaming. La sua metamorfosi aveva le sembianze di “Okja”, un enorme maiale ideato da BongJoon-ho, il regista sudcoreano reso in seguito famoso per l’Oscar a “Parasite”: per la prima volta a Cannes c’era un film in concorso subito disponibile in streaming, senza passare dal circuito delle sale. La storia di un adolescente che cerca di salvare il suo migliore amico, un enorme animale timido e in ambasce, dalle grinfie di una di una potente multinazionale, mi spinse a immaginare se non proprio di far riaprire il centinaio scomparso almeno di proteggere quella scarsa di trentina rimasta a fatica. Anagrammando il titolo ripetevo che non era per niente “okay” che le piattaforme potessero sostituirsi alla tradizionale proiezione in sala, e quanto fossero insidiose certe sostituzioni non solo per il cinema, anche nella vita delle persone. In gioco, infatti, c’era molto più della trasformazione di un mondo conosciuto: a essere coinvolta era anche e soprattutto la mia stessa identità. Era una questione personale che andava oltre i premi: che potessero ambire alla Palma o forse anche all’Oscar i film fuoriusciti dal circuito, delle sale mi importava fino a un certo punto in ballo c’era ben altro. La perdita di centralità della sala alla lunga stava implicando dei problemi identitari: mi sentivo sempre più in bilico a seguito della crisi del sistema basato sul nesso tra film, il cui nome non significava più pellicola e sala, che non era più il luogo deputato una volta modificato il regolamento dell’Oscar Academy: possono candidarsi all’Oscar solo quei film usciti entro la fine dell’anno e programmati di seguito per una settimana in almeno due sale, con pubblico pagante, di Los Angeles e New York. Insomma nulla sarebbe stato più come prima anche nella mia vita. La mutazione dell’identità del film, dal nitrato di partenza all’odierno digitale fino alla liquidità dello streaming, parlava di me: ero in piena fase di transizione complessiva.
La trasformazione di quel sistema poneva interrogativi non solo sul futuro del cinema ma su di me, su ciò che stavo diventando. Il diradarsi delle sale era tutt’uno con il dileguarsi progressivo di me stesso: se il cinema era messo male, dopo circa un secolo di stabilità gli occorreva una riunione speciale dell’Academy per ridefinirsi, pure io non me la passavo bene dopo la perdita di punti di riferimento che resistevano solo nei ricordi. Cosa sarebbe stato di me senza quei luoghi di appartenenza, in quale altra esperienza alternativa mi sarei infilato una volta privato di una poltroncina avvolta nel buio della sala dove abbandonarmi alla libera immaginazione? Di certo mai le piattaforme digitali avrebbero potuto altrettanto.
La trasformazione di quel sistema poneva interrogativi non solo sul futuro del cinema ma su di me, su ciò che stavo diventando. Il diradarsi delle sale era tutt’uno con il dileguarsi progressivo di me stesso: se il cinema era messo male, a distanza quasi di un secolo dalla prima gli occorreva una riunione speciale dei giurati dell’Academy per ridefinirsi, pure io non me la passavo bene dopo la perdita di punti di riferimento che resistevano solo nei ricordi. Cosa sarebbe stato di me senza quei luoghi di appartenenza, in quale altra vita alternativa mi sarei infilato privato di una poltroncina avvolta nel buio per abbandonarmi alla libera immaginazione? Di certo mai le piattaforme digitali avrebbero potuto altrettanto. Che io mi ricordi la mia prima volta non fu di prima visione, neppure all’oratorio. Mi ero infilato in un cinema di prosegui mento prima visione, non ancora d’essai, alla fine dell’anno scolastico frequentato al Liceo Manzoni, per vedere “Monsieur Klein” di Losey con Alain Delon. Era un torrido pomeriggio di estate anticipata quando, stanco di bighellonare senza meta sotto la calura, fui allettato dal refrigerio e dalla penombra all’interno dell’antro cavernoso. Scivolai dentro come attratto da una forza che emanava una sensazione rassicurante e da quel momento trovai nelle ombre del cinema i miei amici segreti. Sulla locandina distrattamente lessi che “Monsieur Klein” era passato in concorso a Cannes, alla ventinovesima edizione, ma ciò non incise minimamente sulla scelta, neppure l’attore protagonista, men che meno il regista: a valere il costo del biglietto fu il fascino della sala, in una posizione centrale ma appartata, all’ombra della scuola, deserta come spesso accade al primo spettacolo. Con un certo affanno mi precipitai nell’atrio, stava per iniziare il film, con gentilezza una maschera mi rassicurò che c’era tutto il tempo per entrare con calma. Mi attese con un sorriso mentre ero in fila alla cassa – si fa per dire dire a quell’ora c’ero solo io- e con la torcia di cortesia a passo sicuro mi portò a sedere in sala. Da allora è come se celebrassi- comodamente seduto- sempre lo stesso rito: dare inizio con lo spettacolo alla libera immaginazione, un’esperienza per cui valga la pena di vivere. Solo poter rivivere quei momenti -specie adesso che rischiano di diventare introvabili certi posti come il Cinema Centrale, di nome e di fatto- mi spinge a procedere nell’illusione di rimetterli al loro posto, come tutte le cose che prima c’erano e poi non più. Volendo condividere la storia dell’elegante antiquario Monsieur Klein coinvolto, attraverso il suo doppio, in una vicissitudine dai contorni kafkiani, provai lo stesso senso di smarrimento. Fin dai titoli di testa venni introdotto quasi in una realtà parallela, nella doppia vita del protagonista, narrata con un gioco di specchi, la forza attrattiva della trama fitta di inquadrature mai dirette, mi spinse in una zona indefinita, al di là di qualsiasi possibilità di controllo. Un ’escalation inquietante portata al limite nella scena madre, quando il doppio di Klein esce allo scoperto, che mi affascinò così tanto e solo in seguito capii perché fossi scivolato dentro l’antro vuoto quel pomeriggio assolato: ero attratto dal lato in ombra della vita. Quel film anticipava il mio futuro, mostrava chi io fossi, come capita quando si apre a caso una pagina illuminante di un libro.
Attraverso i varchi lasciati dai granelli di luce dello schermo, mi trovai nello spazio-tempo della Francia di Vichy, dal gennaio al luglio del 1942, per immedesimarmi in un personaggio che non sapeva più chi fosse o potesse essere. La storia di Mr. Klein, scambiato per il suo omonimo ebreo, mi portò a immaginare vite diverse da qualche altra parte, quasi ci fossero dei miei sosia in giro per il mondo. Tutt’uno con la poltrona e lo schermo fino all ‘ultimo dei titoli di coda, trovai non poche suggestioni del film per la mia vita: il signor K in qualche modo era come volesse mostrarmi in anteprima il film della mia vita. Per rinfrescarmi soprattutto le idee pensai che un frullato sarebbe stato l’ideale e mentre mi avviavo verso il negozio di frutta dove papà mi portava a berlo, notai il mio professore di storia dell’arte: proprio lui il sospettoso De Lon, appena uscito dal cinema, di cui era un habitué, anche nel periodo scolastico lo frequentava a colpo sicuro -passando prima dal vicino Cinema Rubino- nella certezza che potesse pizzicare qualche suo studente in flagrante bigiata.
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