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Una di quelle notti

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Consegna prevista Agosto 2026
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La Pura Verità e la Dolce Illusione sono le due entità che guidano Sico attraverso la lunga notte della sua morte. Una ha la pelle bianca dai riflessi di ghiaccio, l’altra nera e lucida come acque buie. Quando le incontra per la prima volta, Sico non riesce a dire neanche una parola. Ha sedici anni ed è appena morto. Resta ad ascoltare l’intreccio delle loro voci che gli spiegano che ci sono notti inspiegabili in cui può accadere che, nel passaggio tra la vita e la morte, un vivente lasci aperta la porta tra i due piani. È quello che è accaduto a lui. ‎La morte non può impossessarsi di lui per quella notte, ma Sico non è neanche più vivo. È bloccato in un limbo dove andranno a fargli visita nove anime di persone che moriranno quella stessa notte. Sico dovrà tornare alla vita per nove volte per rivivere la morte di ogni anima e tentare di salvarla. Potrà riportarle indietro tutte se riuscirà a salvarne più di quante ne perderà. In caso contrario resteranno tutte alla morte.

Perché ho scritto questo libro?

“Una di quelle notti” è il grido di dolore di un ragazzo di sedici anni che ha perso la persona che amava. Immergendosi nella notte sempre più cupa della sua anima, nutre il suo dolore con la forza autodistruttiva di chi non ha più niente da perdere o da chiedere alla vita. Ma la forza che potrebbe distruggerlo, lentamente si trasforma in parole, poi in una storia che viene scritta, sottoforma di romanzo. Un romanzo grezzo e violento, scritto come liberazione da un grande malessere interiore.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Infilai il mento nel collo del maglione, misi le mani nelle tasche e raggiunsi Ambrose.

«Dove sei stato?», mi chiese.

«Dall’altra parte del buio», feci un cenno con la testa.

«Cosa è successo? Dove porta quel corridoio?».

«Porta alla tua vita», disse la ragazza vestita di bianco nella mano di rampicanti che si era appena aperta.

«A quel che ne restava», aggiunse l’altra ragazza.

«Cosa significa? Cosa è andato a farci?».

«Per tentare di salvare la tua vita», disse ancora la ragazza vestita di bianco. Aveva di nuovo un seno rigoglioso, le forme piene e morbide e il viso di una giovane donna.

«Come? In che modo potevi salvarmi la vita?».

«Non lo so», risposi. «Non so cosa avrei dovuto fare, non so perché avrei dovuto farlo. Non so chi sei e cosa hai a che fare con me».

«Tutte le anime sono collegate tra loro, partecipano l’una all’altra per il semplice fatto di esistere o di essere esistite, anche se le loro esistenze sono distanti nel tempo e nello spazio», disse la ragazza vestita di bianco.

«Cosa vuol dire?», chiese Ambrose.

«Che ogni vita resta legata alla vita di tutte le altre anime perché partecipano all’esistenza insieme», rispose la ragazza.

«Oppure può rompere il legame con tutte le altre e vivere e morire solo per se stessa, confinandosi lentamente nel nulla».

Le due grandi braccia di rami e foglie avvolte dai rampicanti si piegarono in avanti fino a poggiare a terra il dorso della mani.

«Quindi è riuscito a salvarmi?», chiese Ambrose.

«No. Non ha neppure provato a farlo», rispose la ragazza vestita di nero.

«Perché?».

Restai in silenzio.

«Non sai neanche questo», disse.

Invece lo sapevo. Ambrose era un povero coglione che non era tanto interessato a vivere quanto a continuare a vivere come un povero coglione. Non avrebbe accettato un altro tipo di vita, non si sarebbe fatto un esame di coscienza, non avrebbe considerato la possibilità di aver sbagliato qualcosa. Per lui la vita avrebbe dovuto farlo passare da quello stretto spazio tra un camion e un’auto oppure poteva tranquillamente andarsene affanculo. Non si era trattato di un rischio, ma di una condizione necessaria, l’unica condizione attraverso la quale avrebbe accettato di continuare a vivere.

«So che guidi davvero di merda, so che, se premuta al punto giusto, anche una Porsche può assomigliare a una lattina schiacciata e so che anche le persone più inaffidabili per sé e per gli altri hanno qualcuno talmente stupido da essere disposto ad aiutarle. Quel qualcuno non sono io, però», sorrisi.

«Quanti anni hai, dodici? Sei diventato esperto di guida su una BMX?», disse Ambrose.

«Ho sedici anni, guido una moto e non sono io quello che ha preso in pieno un tir», mi misi a rullare una sigaretta.

«Sei ancora in tempo per prenderlo», disse tra i denti digrignati Ambrose, con un pugno sollevato.

«Vediamo se mi ridurrà peggio di te», mi sollevai sulle punte dei piedi leccando la cartina.

«Fermati», la ragazza dal vestito nero afferrò il polso di Ambrose. «Il tuo tempo è finito. Hai avuto l’occasione della vita e l’occasione di una salvezza. Adesso dobbiamo andare».

«Dove?», la guardò Ambrose, tirando giù il braccio. «Dove vuoi portarmi?».

«Andremo lì», rispose la ragazza, indicando la torre dismessa poco distante.

«Che posto è?».

«Non giudicarla dall’esterno. Vedrai che gli interni ti piaceranno. Sono interni di lusso», accesi la sigaretta.

Ambrose provò a slanciarsi verso di me e io mi allungai verso di lui, ma la ragazza vestita di nero riuscì a trattenerlo soltanto sfiorandogli una spalla, con una capacità dissuasiva che non aveva bisogno neppure di parole.

«Coglionazzo», dissi, tra me e me.

«Lascia perdere», sentii il calore di un respiro nel mio orecchio.

Mi girai, la ragazza dal vestito bianco, con lo stesso tocco leggero sulla mia spalla, stava trattenendo me senza che me ne fossi accorto.

Trascinai i piedi verso il confine della pianura circolare ai piedi delle colline. Pochi banchi di foschia si diradavano sui grovigli di erbacce morte dei campi ai lati del sentiero. Sul taglio netto del buio pendevano gli ultimi steli di erba turchese. Mi sedetti lì, con il fondo dei pantaloni sulla terra e le caviglie immerse nel vuoto. Davanti a me c’era un’immensità buia di cui non si vedeva la fine. Nell’oscurità erano sospese le strane semisfere di una materia inconsistente. Il buio ne era disseminato. I riflessi vaghi di quelle forme si moltiplicavano fino sopra alla volta di tenebra e fino in fondo agli orizzonti visibili. Sembravano nebulose dai contorni perfetti, pance gravide di futuri che non sarebbero mai stati. Oscuri futuri molto simili al nulla.

Continua a leggere

* * *

Dal buio del corridoio che si era appena riformato, emergeva con passi lenti, ma ben messi, la figura di una ragazza dai capelli lunghi e lisci e una frangia dritta che le ricadeva poco sopra le sopracciglia, con una camicetta bianca e due gambe lunghissime che venivano fuori dal tartan rosso classico di una gonna scozzese e finivano in un paio di Converse alte color crema.

Le gambe si fermarono proprio davanti ai miei occhi, ma non era per farmele vedere meglio. Era perché il corridoio finiva proprio in corrispondenza dell’inizio del sentiero, dov’ero seduto io. Sollevai lo sguardo, con gli avambracci poggiati alle ginocchia e una mano nell’altra. La ragazza si ritrasse perché quasi potevo vederle sotto la gonna. Accennai un saluto con la testa, poi feci la grazia di mettermi in piedi lentamente e di lasciarla passare. Appena approdate le Converse sul sentiero, il corridoio oscuro si separò nelle quattro facce che lo componevano che rotolarono via nel buio. La ragazza continuò ad andare avanti sul sentiero. La seguivo senza fretta, guardandole il culo. Cioè, cercando di immaginarlo, dentro le pieghe della gonna che danzavano intorno alle sue cosce.

«Cos’è questo posto?», chiese, girandosi verso di me con lo stesso tono di rimprovero che avrebbe usato per dirmi di smettere di guardarla.

«Questo è esattamente il genere di domanda che potrebbe non avere una risposta», cercai di smettere di guardarla comunque, per precauzione, perché se c’è una cosa che odio è proprio essere rimproverato.

«Io», la ragazza si mise a guardarsi intorno. «Devo tornare immediatamente a casa. Dev’essere tardissimo, non so che fine abbia fatto il mio telefono e non so neanche dove sono finita».

«Che t’importa?», le chiesi.

«Come, che t’importa? È la prima volta che mi permettono di uscire con i miei amici, di sera, e guarda che casino. Mi metteranno in punizione per sempre».

«Che t’importa ancora, voglio dire? Di tornare a casa, del telefono, delle punizioni. Hai visto quel corridoio oscuro da dove sei venuta, per esempio? Le sue pareti si sono scomposte e sono letteralmente volate via. Tu dici che è una cosa normale?».

La ragazza restò a guardarmi con il morbido disegno rosa acceso delle labbra aperte. Aveva le guance arrossate sulla pelle del viso abbronzata e gli occhi color nocciola chiaro con le ciglia increspate dal mascara. Aveva riflessi chiari tra i capelli puliti.

«Non mi faranno uscire mai più. Non voglio passare anche la mia adolescenza rinchiusa, ci ho già passato l’infanzia e la preadolescenza», si ravviò i capelli.

«Ma, ritornando a noi, il corridoio, l’hai visto?», le chiesi.

La ragazza sbuffò e si voltò. Poi si avviò verso le grandi mani. La bellezza mi metteva sempre in soggezione, non c’era molto da fare. Davanti alla bellezza, a tanta bellezza, avevo sempre il retropensiero di aver detto o aver fatto qualcosa di stupido. O comunque di essere ancora in tempo per farlo. Era una qualche forma di ipersensibilità o di allergia che mi impediva di sembrare intelligente o quantomeno senziente a una ragazza troppo bella per i miei occhi. Mi mandava completamente in confusione.

«Quelle due colonne là in fondo», dissi, seguendo la ragazza, «non sono due colonne, sono due braccia di foglie, di terra o di non so cosa e lì in alto ci sono due pugni. Fra un po’ quelle due braccia si muoveranno e i due pugni si apriranno e poi neanche a te questo sembrerà normale. Oppure sì?».

Lei continuò ad ancheggiare mettendo passi uno davanti all’altro come se fosse obbligata a camminare su una linea retta finché non arrivammo nella pianura chiusa a sud a semicerchio dalle colline. I due pugni avvolti dai rampicanti iniziarono ad aprirsi in quel momento.

«Vedi?», dissi puntando un dito in avanti anche se la ragazza era girata di spalle.

«Federica», la ragazza dal vestito bianco si affacciò dalla mano gigante. «Indossi la bellezza con la timidezza di chi l’ha cercata migliaia di volte, nello specchio, ma non è mai riuscita a vederla, nonostante la vedessero tutti, sul suo volto, sul suo corpo, sulla sua stessa pelle. Quella che hanno visto è una ragazza che dimostra un’età che non ha ancora. Hai quindici anni, ma i tuoi gesti e la tua mente sono quelli di una donna. È così che ti senti, anche i tuoi occhi lo dicono. Hai smesso presto di sentirti soltanto una ragazzina, non vedevi l’ora di sfumare il fondotinta ai bordi del viso per confonderlo col colore della tua pelle, di tirare via con  la punta di un dito le sbavature di rossetto oltre il contorno delle labbra. Ti piacevano quei gesti, semplicemente. Li hai provati nella tua mente un’infinità di volte. Avevi fretta di indossare una gonna corta per mostrare le tue gambe, l’unica cosa che davvero ti piace, di te».

«Porti sempre in giro di nascosto i trucchi», continuò la ragazza vestita di nero. «Indossi camicie che puoi annodarti in vita o magliette corte nascoste sotto i maglioni perché i tuoi genitori non ti permetterebbero di uscire così. Non ti permettono di essere libera. Soltanto in vacanza, nei mesi estivi, loro ti mandano in città, dove hai cugini più grandi di te. Ti piace il loro mondo, le comitive che si riuniscono nei parchi, i pomeriggi passati in giro nelle grandi piazze piene di gente, le serate in discoteca e l’ultimo tram preso di corsa nella città ormai vuota. Tutte quelle volte ti sei sentita libera, ma quello che ti rendeva più felice erano le attenzioni dei ragazzi più grandi, un bacio che ti veniva rubato nel buio di una discoteca, un amico che ti chiedeva di accompagnarlo in macchina a comprare le sigarette. Di tutto questo i tuoi genitori non sanno niente. Vorresti che fosse sempre così, anche quando sei a casa con loro, vorresti avere la stessa libertà che hanno tutti. La libertà di crescere».

«Ma nella fretta di farlo, hai dimenticato di imparare a riconoscere la tua vera bellezza, di imparare ad amare e di imparare ad amarti. Fino a questa notte, in cui, dopo la prima volta in discoteca concessa dai tuoi genitori, qualcuno ha deciso di forzare il tuo amore».

«Stuprandoti, per poi strangolarti», concluse la ragazza vestita di nero.

Federica si guardò attorno come se non vedesse più né me né le due ragazze.

«Qualcuno può accompagnarmi a casa adesso, per favore?», riemerse improvvisamente.

«Non tornerai a casa, questa notte», dissi. «Perché qualcuno ti ha violentata e uccisa. Non te lo ricordi?».

«Non è vero. Nessuno mi ha mai toccata», storse le labbra come se stesse per mordersele.

«Non puoi non saperlo, io ricordo alla perfezione quello che è successo prima che il mondo scomparisse».

«Va bene, non fa niente, me ne vado da sola», i capelli le rotearono attorno mentre si girava per andarsene.

«Qualcuno ti ha stuprata e poi uccisa. Non sei più viva e non puoi tornare a casa».

«Nessuno mi ha fatto quelle cose».

«Un cazzo di maniaco ti ha stuprata e strangolata», le bloccai la strada.

«Togliti, voglio andare via».

Avevo visto Ambrose schiantarsi proprio come avevano detto le due ragazze. Era morto, esattamente come loro avevano descritto.

«Qualcuno ti ha afferrata. ti ha messo le mani sotto la gonna per strapparti via le mutande e ti ha rifatto il ventre».

«Lasciami!», urlò.

Guardai la mia mano che si riapriva di scatto dopo averle stretto il polso. Le nocche ripresero colore.

«Non azzardarti mai più ad avvicinarti, a toccarmi o a rivolgermi la parola», disse Federica.

«D’accordo», risposi. Ed ero esattamente serio perché se c’è una cosa che odio, quella è proprio essere trattato da stupido.

Indietreggiai di qualche passo, prima di voltarmi e incamminarmi per il sentiero. Davanti ai miei occhi, le pareti nere volteggiarono nel vuoto, ricomponendo il corridoio oscuro. Mi infastidì l’idea di dover attraversare tutto quel buio, ma mi feci forza: non avevo mai assistito allo stupro di una ragazza troppo bella per i miei occhi.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Stefano Saccinto
Stefano Saccinto ha quaratatré anni, ha scritto dieci libri a partire dai sedici anni e ne ha pubblicato uno nel 2010, Un'estate qui, per Rupe Mutevole, e una bozza di Una di quelle notti di nome Zenith in self per avere pareri e migliorarlo. A Canosa ha lavorato come cameriere e pizzaiolo, ha sposato Francesca a 21 anni da cui ha avuto due figli e si è laureato in scienze dell'educazione. Nel 2017 si trasferisce a Udine per lavorare come educatore nei convitti. Ha studiato scrittura creativa da autodidatta per migliorare i propri testi scritti tutti in giovane età e abbandonati per dedicarsi al lavoro e alla famiglia.
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