Ci sono momenti nella vita in cui ci si ferma.
Non per scelta, ma perché qualcosa dentro s’inceppa, si spegne, sfuma.
All’esterno tutto sembra a posto: un lavoro, una famiglia, una routine che funziona.
Ma dentro… qualcosa manca. O forse è rimasto troppo a lungo in silenzio.
Questo libro nasce proprio da lì.
Dalla sensazione di essere bloccati in una vita che scorre senza di noi,
dal desiderio di ritrovare una scintilla, un senso, una direzione.
Nasce da una domanda semplice ma potente:
“E se non fosse troppo tardi per cambiare?”
Volevo essere un super eroe è la storia di Alessandro, ma potrebbe essere la storia di molti di noi.
Di chi ha messo da parte i propri sogni per senso del dovere.
Di chi ha imparato a indossare una maschera di sicurezza,
quando in realtà si sentiva fragile.
Di chi ha smesso di crederci, ma sotto sotto, non ha mai smesso davvero.
Non troverete qui imprese eroiche nel senso classico.
Non ci sono mantelli, né poteri sovrannaturali.
C’è invece la forza di un uomo comune che, un giorno, decide di rimettersi in gioco.
Che sceglie di lottare, non per vincere qualcosa, ma per ritrovare se stesso.
Ho scritto questo libro per chi crede che la propria vita possa ancora sorprenderlo,
anche quando tutto sembra già deciso.
Per chi crede che il coraggio più grande non sia nel non cadere mai,
ma nel trovare la forza di rialzarsi. Ancora e ancora.
E se leggendo questa storia, anche solo una persona decidesse di fare quel primo passo…
Allora, tutto questo sarà servito.
Buona lettura.
Guarda che il mondo non è tutto rose e fiori, è davvero un postaccio misero e sporco e per quanto forte tu possa essere, se glielo permetti, ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre.
Né io, né tu, nessuno, può colpire duro come fa la vita. Perciò, andando avanti, non è
importante come colpisci, l’importante è come sai resistere ai colpi, come incassi, e se finisci al tappeto hai la forza di rialzarti.
Così sei un vincente!
E se credi di essere forte, lo devi dimostrare che sei forte. Perché un uomo vince solo se sa resistere.
Non se ne va in giro a puntare il dito contro chi non c’entra accusando prima questo o poi quell’altro di quanto sbaglia.
I vigliacchi fanno così e tu non lo sei!
Non lo sei affatto!”
Alessandro non riusciva a spiegarsi davvero il motivo per cui quella scena di Rocky lo colpiva così profondamente. Quella frase, semplice e diretta, lo scuoteva sempre, come se Stallone stesse parlando direttamente a lui, dritto al cuore.
Seduto sul suo divano in eco pelle marrone, con le gambe leggermente distese sul
poggiapiedi, guardava quel il film per l’ennesima volta. Sapeva a memoria ogni battuta, ogni scena.
Eppure, tutte le volte, quelle parole gli provocavano un sussulto nello stomaco, come se
toccassero un nervo scoperto.
C’era qualcosa nella figura di Rocky, nella sua tenacia, nel suo modo di affrontare la vita e le difficoltà, che lo faceva sentire meno solo e in qualche modo più ispirato. Quasi come se fosse un promemoria di quello che una volta era stato anche lui: un uomo forte, determinato, capace di rialzarsi dopo ogni caduta.
Posò lo sguardo su Claudia, sua moglie, che quella sera si era addormentata presto sul divano accanto a lui.
Lei era una donna forte, calma e riflessiva, non si lamentava mai; anche nei momenti più difficili trovava la capacità di sorridere, come se dentro avesse una luce in grado di risplendere in ogni situazione.
Nonostante questo, da qualche tempo, Alessandro leggeva nei suoi occhi una sorta di rassegnazione silenziosa. Sembrava che anche lei avesse intuito quanto lui si stesse spegnendo a poco a poco, come una candela consumata dal tempo, logorato da una routine che non lasciava spazio a sogni o slanci.
Da anni portava dentro la sensazione di vivere una vita che non gli apparteneva più. Qualcosa, si era incrinato lentamente, senza avvertire, senza preavviso.
I giorni scorrevano tutti uguali, gli passavano accanto senza lasciare traccia, si sentiva
distante, quasi spettatore di sé stesso, come se stesse vivendo la vita di qualcun altro.
Lavorava come impiegato presso lo studio notarile del paese, da oltre due decenni. Ogni
giorno, le stesse azioni, le stesse facce, le stesse scartoffie. La sicurezza di quel lavoro stabile, una volta motivo di orgoglio, adesso gli sembrava una gabbia dorata.
Aveva raggiunto la “veneranda” età di quarantotto anni, un fisico che lasciava ancora
intravedere un passato da ex atleta dilettante: spalle larghe, una massa muscolare non del tutto svanita, ma appesantita dal tempo e da una vita troppo sedentaria. I pochi capelli rimasti, ormai brizzolati li tiene rasati, lasciando un ciuffo sulla fronte nel tentativo di mascherare la stempiatura. Sul viso, qualche ruga d’espressione raccontava silenziosamente il tempo trascorso e le preoccupazioni accumulate negli anni.
La vita di Alessandro scorreva lenta a Borgo Fosco, un piccolo paese arroccato sulle colline del nord Italia.
Un luogo dove il tempo sembrava essersi fermato, immerso in una serena malinconia, dove gli edifici logori e le strade strette erano testimoni di un passato glorioso ormai decaduto, la piazza, cuore pulsante della comunità, era dominata da una vecchia fontana in pietra edificata negli anni ‘30.
Una leggenda narra che la sua costruzione sia stata il frutto di un’impresa collettiva, alla quale presero parte, in qualche modo, tutti gli abitanti del paese, in una sorta d’atto d’amore compiuto da mani callose e cuori ostinati.
Ogni sera, al calar del sole, dopo una faticosa giornata di lavoro nei campi, gli uomini, prima di tornare alle loro case, si radunavano lungo il margine della strada polverosa.
Con le schiene indolenzite e i vestiti ancora intrisi di sudore, si caricavano in spalla una gerla rinforzata e si dirigevano verso il fiume, con passi lenti ma determinati.
Là, tra l’acqua che scorreva placida e il riflesso tremolante delle ultime luci del giorno,
sceglievano con cura le pietre, tastandole con le mani ruvide per valutarne forma e peso.
Alcune erano levigate dalla corrente, altre spigolose, ma tutte venivano raccolte con lo stesso rispetto con cui si sfiora qualcosa di sacro.
Poi, quando le luci del giorno avevano ormai ceduto il passo alla penombra della luna, in fila indiana risalivano il sentiero sterrato che collegava le rive al centro del paese, camminando per oltre quaranta minuti nel silenzio interrotto soltanto dallo scricchiolio dei passi sulla ghiaia e dal respiro affannato sotto il peso del carico per poi deporre le pietre accanto a quelle raccolte nei giorni precedenti.
Una volta completata l’opera, i Borgofoscani la celebrarono con una grande festa,
coinvolgendo l’intera comunità, dai più giovani ai più anziani. La facciata della chiesa venne
addobbata con festoni di carta colorata e ghirlande intrecciate con rami verdi e fiori secchi, preparate con cura e pazienza dalle donne del paese.
La piazza si riempì di bancarelle cariche di caramelle dure, giocattoli in legno e tessuti variopinti.
Nell’aria il profumo di dolci appena sfornati e l’aroma delle caldarroste che arrostivano su
grandi bracieri artigianali alimentati con legna d’ulivo, contribuivano a creare un’atmosfera
calda e avvolgente insieme all’indimenticabile flagranza leggera dello zucchero filato alla
fragola.
I bambini correvano felici inseguendo un pallone di stoffa, mentre gli uomini si radunavano
sotto un palco improvvisato con un bicchiere di vino rosso in mano, a chiacchierare e ad
ascoltare i suonatori d’organetto.
Oggi, quella piazza rimane il cuore del paese, ma è invecchiata, resa grigia dal tempo.
Gli anziani siedono sulle panchine di legno sverniciato, gli stessi volti di sempre, le stesse
storie ripetute all’infinito.
In ogni cosa si respira un’aria di rassegnata tranquillità a Borgo Fosco; persino il vento che
soffia tra i rami degli alberi sembra muoversi a malapena, come a non voler disturbare il
silenzio del paese.
Il mercato del giovedì mattina in piazza è l’evento della settimana, ma anche quello non
riserva più grosse sorprese. Le stesse bancarelle di sempre, gli stessi volti che contrattano su prezzi ormai fissi da anni, senza aspettarsi alcuna novità. Ogni volta è come un piccolo rito che si ripete, con la familiarità di chi sa già cosa troverà e di chi, a sua volta, sa che non ci sarà nulla da scoprire.
Le voci e i colori del mercato si intrecciano tra sorrisi di circostanza e trattative che, in fondo, non nascondono più né attese né speranze. Le mani, segnate dal tempo e dall’abitudine, si scambiano i contanti sbiaditi, mentre l’aria è impregnata di una consapevolezza collettiva: il mercato è ancora lì, ma il suo spirito sembra aver perso la forza di cambiare.
Le bancarelle, con il loro assortimento di oggetti invecchiati, non hanno più nulla da rivelare.
La sera, i pochi giovani rimasti si radunano sempre al solito posto, seduti su una
ringhiera, in fondo alla strada del paese, accanto al cartello sbiadito che recita “SIETE STATI A BORGO FOSCO, ARRIVEDERCI”, a fare due chiacchiere e fumarsi una sigaretta.
Lì ci sono i resti di un vecchio parco giochi per bambini, ormai dismesso, perché di bambini a Borgo Fosco non ce ne sono più. Le altalene oscillano appena mosse dal vento, e i colori dei vecchi scivoli sono stati sostituiti dalla ruggine.
Talvolta qualcuno accenna a un futuro diverso, mentre gli altri ascoltano in silenzio, fissando la statale per Milano quasi nel tentativo di scrutare qualcosa di nuovo al di là dell’orizzonte.
Ogni mattina, per andare in ufficio, Alessandro passa per la piazza davanti alla fontana, diretto al bar” Da Piero” senza fare a meno di chiedersi se anche lui sia diventato parte di quel tempo
immobile, incastrato tra quello che era stato e ciò che non riusciva più a essere.
È sulla scia di quei pensieri che la sua mente torna a quella scena di Rocky.
Le parole di Stallone risuonano nella sua memoria come un martello:
“Non è importante come colpisci. È importante come sai resistere ai colpi, incassare senza smettere di andare avanti.”
Al suono di quella frase che il suo inconscio continuava a ripetere, Alessandro chiude gli occhi e si chiede se sia ancora capace di rialzarsi dopo una caduta.
A prima vista, Ale, così lo chiamano gli amici, sembra condurre una vita serena e tranquilla.
È sposato da venticinque anni con Marta, la compagna di sempre, quella che aveva
conosciuto nei corridoi dell’Istituto Tecnico Commerciale Giuseppe Garibaldi, dove tutto
ebbe inizio.
Era il secondo anno del corso di ragioneria, l’unica opzione scolastica possibile a Borgo
Fosco. Chi sognava un’alternativa doveva affrontare il buio del mattino presto, salire su una corriera ancora assonnato e poi su un treno diretto ai centri maggiori, dove la scuola offriva qualcosa di più. Alessandro non lo aveva mai fatto.
Ci aveva pensato, certo, ma era sempre rimasto lì. Non perché gli mancasse il coraggio o
l’ambizione.
Semplicemente, tra quei corridoi consumati, tra libri di contabilità e lezioni di economia,
aveva trovato qualcosa di più importante di qualsiasi corso di studi: aveva trovato l’amore.
I loro sguardi si erano incrociati tra i banchi di scuola, durante una mattinata qualunque.
Lei era entrata nell’aula sbagliata: dopotutto, era appena arrivata in paese, a causa del
trasferimento della sua famiglia per motivi di lavoro.
Con passo incerto, stringeva il diario contro il petto e scrutava velocemente i volti degli
studenti già seduti.
“Scusi, è la terza B?” aveva chiesto al professore, arrossendo leggermente.
“No, questa è la seconda A,” aveva risposto lui con un sorriso bonario.
Ma Alessandro, seduto in terza fila vicino alla finestra, l’aveva già notata.
Non fu un colpo di fulmine folgorante, ma un istante sospeso: i suoi occhi si incrociarono con quelli di lei e per un attimo tutto il resto svanì.
C’era qualcosa in quello sguardo, forse un’incertezza, forse una scintilla, che lo portò a fissare l’ingresso anche dopo che lei se n’era andata.
Sembrava la scena di un film, una di quelle che nella realtà accadono raramente. Eppure, per loro, fu tutto vero.
Qualche giorno dopo si rividero nel cortile, poi in biblioteca, poi ancora in corridoio.
Da quel momento cominciarono a cercarsi con lo sguardo, a riconoscersi nei silenzi, fino a scambiarsi un sorriso che divenne presto una promessa.
E da allora, non si sono più lasciati.
Avevano costruito insieme una vita fatta di piccoli gesti e di routine consolidate. Ai loro
occhi, quel primo incontro tra i banchi di scuola era rimasto un punto fermo, una radice
profondamente ancorata nel tempo.
Oggi Ale e Marta avevano due figli ormai grandi. Gioele, il primogenito, un ragazzo di
ventidue anni dal fisico atletico, studiava a Firenze con l’ambizione di intraprendere la carriera politica. Parlava di idee, di cambiamenti, di futuro. Ogni volta che rientrava a casa, portava con sé una nuova energia, come una boccata d’aria fresca che spezzava la monotonia della routine familiare.
Ale lo osservava parlare con quella luce negli occhi, con quella determinazione e passione
che solo i giovani hanno. Un fuoco che lui, nel tempo, aveva lasciato spegnere.
Poi c’era Eva, la secondogenita, aveva vent’anni. Capelli biondi e occhi verdi, ereditati
dalla madre. Era bellissima, ma non solo nell’aspetto. C’era una forza gentile in lei, una
dolcezza che, però, sapeva trasformarsi in durezza e determinazione quando occorreva.
Lavorava da poco in un piccolo negozio nel centro storico, ma il suo cuore batteva per l’arte.
Spesso, dopo il lavoro si rifugiava nella soffitta dei genitori, dipingendo quadri che
raccontavano il suo mondo interiore. Attendeva solo il momento giusto per trasformare quella passione in un lavoro. Spesso Alessandro la osservava in silenzio mentre dipingeva, mentre la luce del tramonto che le accarezzava il viso. Si chiedeva se sua figlia sapesse già chi fosse, se sentisse già di appartenere a qualcosa o se anche lei, fosse ancora in cerca della propria strada.
Lui, invece, aveva una vita che si era costruito senza quasi accorgersene, fatta di certezze, ma anche di rinunce silenziose.
Aveva un lavoro sicuro, prevedibile, quasi soffocante.
Ogni mattina, si presentava puntuale, con la solita giacca grigia e lo sguardo assente di chi
ripete lo stesso copione da anni.
Tra documenti da ordinare, atti da redigere e firme da gestire, le sue giornate scorrevano lente, scandite da piccoli gesti sempre uguali.
Dopo tanti anni, aveva costruito una routine così fitta di abitudini che ormai si muoveva come un automa.
I figli ormai erano grandi, sempre più indipendenti, come è giusto che sia, e pronti a vivere la loro vita. Questa consapevolezza, però, non lo aiutava certo ad alleviare quel senso di vuoto che aleggiava nella sua quotidianità.
Marta, dal canto suo, non smetteva di fare del suo meglio per riempire quegli spazi e sostenerlo, proprio come aveva sempre fatto. Ale, sapeva quanto potesse essere difficile per lei stargli accanto in ogni momento, ma sentiva anche che, nonostante tutto, erano ancora una squadra. Una coppia solida, sì, non per abitudine, ma per quel legame costruito nel tempo, fatto di scelte condivise, piccoli sacrifici e un amore che, pur silenzioso, non aveva mai smesso di esserci.
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