Eravamo in due, e uno è di troppo quando arriva una terza persona. Più giusto dire che eravamo due di tre, e il terzo ero io. Solo che non lo sapevo. L’ho capito quando mi sono ritrovato con una valigia in mano e una destinazione diversa dalla vita che avevo immaginato. E così, dei tre, due sono una, una coppia intendo; il terzo è solo. È uno. Uno di tre, senza più gli altri due.
Tutto questo si chiama Alessandra, che ormai ha anche un altro cognome. Inutile che mi ricordi il suo, se non le appartiene più. Però Alessandra per qualche tempo ha detto di appartenere a me. Ed eravamo soltanto in due. Almeno così mi aveva convinto.
È tutto quello che mi viene in mente, guardando i rivoli che si formano sul vetro di questo autobus, un residuato degli anni Sessanta che circola ancora nel 1982 e che mi porterà nella mia nuova vita.
Piove, e la pioggia che si schianta contro i vetri di un pullman in corsa forma dei rivoli, che si incrociano fino a diventare un unico flusso sulla base del finestrino. Piove da ore e i corsi che seguo sono sempre tre, che poi diventano due e poi uno.
Uno di tre, con gli altri due che hanno ceduto le forze al superstite. Perché uno solo poteva proseguire il cammino. Ma non so se quell’uno sono io, o è Alessandra.
Io so che sono qui, su questo pullman, vecchio, lercio e rumoroso, che mi porterà dove non avrei mai voluto finire. Non ce l’ho mica con il paesello cui mi hanno destinato: non lo conosco. Ma conosco il destino che mi è stato assegnato. Ed è una vita senza Alessandra. Tanto mi basta.
Ho immaginato molte volte il giorno in cui sarei andato in un’altra città per lavoro, convinto di restarci per un po’. E sempre mi sono visto felice, o quasi. Ma mai nelle fantasticherie più voraci, ho pensato che sarei finito su un sedile rotto e sporco, traballante e stretto, a fianco a un prete con una tonaca lisa e inamidata dal suo sudore rancido. Sono incastrato, tra questo fetido curato di paese e il finestrino della corriera affollata. Puzza anche il vetro, dove la pioggia battente forma i rigagnoli che corrono sulla superficie oleosa per chissà quanti lavaggi rimandati. Il mio sacco è nella cappelliera, sopra le nostre teste, e a ogni curva melmosa minaccia di cadere sul pretino bisunto, che solleva lo sguardo dal suo breviario oscillante, si torce verso di me e mi lancia occhiate seccate.
Il malcapitato non sa che tra qualche ora nel suo paesello e in quelli vicini io sarò l’autorità costituita, degno di sedere a messa accanto al sindaco, al medico, al farmacista e all’avvocato. Sembro troppo giovane, anche con la mia marzialissima uniforme da tenente. Mi tradisce la faccia sbarbata, bionda e gentile.
Le curve che l’autista riesce a imbroccare, senza far dondolare i bagagli, sono davvero poche. E non distinguo i passeggeri che lasciano il pullman per la stanchezza da quelli arrivati a destinazione. C’è una donna che spinge quasi a calci il suo bambino per quelle scalette alte che li separano dalla meta. C’è uno studente, venuto dalla coincidenza di un’altra corriera per tornare a casa.
Il pretino mi lascia libero, ma è una gioia effimera. Accanto a me siede ora il passeggero dell’ultima tappa. Il pullman che mi porta dal capoluogo alla periferia dell’impero tocca vari comuni: quello che prende il nome dalle capre, quello che si chiama come le grotte, quello che omaggia il monte, quello che si arrampica sugli altri e che tocca a me.
Il mio nuovo compagno parla dritto all’autista, che conosce bene. Non ha l’aria del pendolare, ma dell’infastidito, perché l’auto l’ha lasciato a piedi sull’ultimo miglio. E maledice la pioggia, il fango che ha inzuppato il radiatore e l’ombrello che non c’è mai nel bagagliaio. Ha i pantaloni infangati fino al ginocchio. Arriviamo, lui in fondo alla sua disavventura, io incontro alla mia.
La piazza è deserta e il pavé di pietra bianca riflette la luce pallida dei lampioni, ma solo fino a una certa altezza. È buio in questa mezza sera di autunno inoltrato. Svetta un campanile sul fondo, nascosto per metà da un ponte che separa il borgo alto da quello basso. Separa, sì, non come tutti i ponti che uniscono. Ci sono i palazzi decorati, qualcuno un po’ cadente, ma dal passato illustre, c’è il ponte, e di sotto le case costruite pietra su pietra, con il muschio che nasconde la malta impastata più che con l’acqua, con il sudore di chi vuole soltanto un tetto sulla testa per la famiglia. E poi c’è quel pavimento bianco della piazza che quasi mi acceca e mi nasconde l’imponenza di un vecchio monastero, dove le finestre alte e strette portano la luce alle vecchie celle dei monaci.
Mi aspetta un maresciallo in uniforme, con il berretto zuppo d’acqua, come la sua giacca e i guanti di pelle, che si strizzano quando stringe la mano intorno al manico del mio borsone.
«Comandi, signor tenente. Maresciallo Zotti Ernesto. L’aspettavamo per domani…»
Avrà almeno vent’anni più di me e il tono è quello di una paternale per non aver rispettato gli orari.
«La ringrazio, ma preferisco fare da solo.»
Il colonnello al corso mi ha detto di non cercare mai la confidenza con i sottoposti, soprattutto quelli più anziani. Sulle prime può sembrare utile, col tempo paga sempre il più giovane.
«È lontana la caserma?»
Chiedo non perché mi spaventi camminare sotto la pioggia, ma non saprei cosa dire per accorciare la distanza.
«È quella.»
E mi indica il monastero. Avrò una cella per ufficio, una cella per alloggio, un’altra cella per cucina. La mia vita sarà una clausura, la mia casa un carcere.
«Una sede storica…», dico per sviare la delusione, o così, perché non mi viene altro.
«Un po’ scomoda, per la verità. La dividiamo con gli uffici del Comune. Il paese non è grande e non ci sono molti edifici pubblici. Mi hanno detto che fino a una decina di anni fa c’era anche la scuola elementare, ma poi l’hanno trasferita.»
«Non ci si sente soli, allora.»
Continuo il mio fraseggio inutile, mentre saliamo le scale che portano al chiostro. E una volta al coperto, riesco a scrollarmi di dosso quelle gocce di pioggia che non si sono ancora infiltrate nei miei panni e nel mio pessimo umore.
«Non ci si annoia nemmeno, per la verità.»
E il suo stile di conversazione non è poi tanto diverso dal mio.
«Molto movimento? Criminali, calamità…»
«Abbiamo quindici comuni da controllare. Non sono pochi. Per la verità, potrebbe essere utile che lei sia già qui stasera. Abbiamo ricevuto una chiamata un’ora fa e stiamo verificando una segnalazione.»
Non mi compete, prendo servizio domani. Se la sbrighino tra loro. Vorrei rispondere, ma l’etica del lavoro in certi ambienti non è un concetto così astratto (per la verità!).
«E di cosa si tratterebbe?»
Mi riservo uno spicchio di via di fuga, nel caso si tratti di una sciocchezza.
«Hanno chiamato dalla miniera e c’è una vittima.»
Lo dice con una certa flemma, a fine corridoio, davanti alla porta del mio alloggio, come se mi stesse congedando, perché sono in grado di sbrigarsela senza di me. Tanto non c’ero un’ora fa. Che cosa potrebbe cambiare?
«E non ci sono altri dettagli da riferire?»
«Per la verità, non saprei.»
L’ultima risposta mi gonfia le vene del collo e quella che mi attraversa la fronte. I nervi sono tirati a molla pronti a lanciare la verretta.
Ci sono: il maresciallo Zotti mi regala la scusa giusta per sfogare quella rabbia che covo da due giorni e che ho compresso in un pullman schifoso, pieno di gente orribile, che mi ha portato in un posto lugubre, dove mi accoglie un morto.
«Zotti!», dico con voce ferma e alta. Il maresciallo intuisce che qualcosa mi ha infastidito, perché ho lasciato cadere a terra la mia borsa. Mi piazzo di fronte lui, teso, lo fisso negli occhi e prendo fiato.
«Zotti, quando dice per la verità mi prende in giro, perché di solito dice fesserie?»
Il maresciallo si carica di un’espressione infantile che accentua un ridicolo attenti, scomodissimo se il superiore è a cinque centimetri dal naso.
«Comandi, signor tenente. Mi scuso, è un intercalare. Ci farò attenzione. Non volevo prenderla in giro.»
Un agnellino ha preso il posto dell’anziano di servizio che mi rimproverava l’anticipo sulla presentazione.
«Ecco: impariamo che detesto le frasi fatte, i luoghi comuni e gli intercalare.»
Distendo subito i nervi e riprendo la borsa con una mano, mentre con l’altra sfilo la chiave del mio alloggio al povero Zotti, che resta immobile a fissarmi senza chiedermi se gli è concesso respirare.
«Mi dia qualche minuto per togliere l’uniforme bagnata e poi andiamo… Dov’è che hanno segnalato una vittima?»
Zotti riprende coraggio, perché ormai gli do le spalle per girare la chiave del mio alloggio. O della mia cella.
«Nella miniera, signore. C’è una miniera vicino alla stazione. Estraggono zolfo da almeno un secolo. Ogni tanto capita qualche incidente. È un’azienda importante, credo ci lavorino almeno ottocento persone. Quasi ogni famiglia qui in paese e nei dintorni ha qualcuno che lavora lì.»
E mentre mi accingo a entrare, Zotti fa un passo come per seguirmi dentro. Mi fermo e mi volto verso di lui, afferrando la maniglia interna della porta, così, tanto per tenerlo fuori dal mio spazio.
«Ci vediamo tra dieci minuti, maresciallo. Dica a chi è in caserma di farsi trovare nel mio ufficio. Un minuto per salutare, tanto per non sembrare subito insopportabile e poi raggiungiamo i colleghi alla miniera. È molto distante?»
Zotti ha capito che ho marcato un confine e arretra docile.
«Un paio di chilometri da qui, è nella parte bassa del paese. L’aspetto all’ingresso del convento, da lì l’accompagnerò agli uffici. Il suo predecessore ha lasciato l’alloggio questa mattina in tutta fretta e non so cosa troverà.»
«Non troverò niente; non si preoccupi, Zotti.»
***
Quando provo una camicia nuova, faccio dei gesti involontari, che sono sempre gli stessi: sollevo le braccia e piego gli avambracci verso il petto. Sembra quasi che faccia le ali di gallina. E do due o tre scosse in rapida sequenza, per vedere se la camicia stringe sotto le ascelle, sul petto, dietro le spalle. Abbottono il davanti sforzando le asole, per vedere se qualche filo scappa dall’orlo. Allaccio i polsini e tiro giù le maniche, per controllare se la lunghezza è giusta.
Mi sta la camicia? Un po’ attillata, per non dire delle pieghe che fa sulla pancia appena rilassata, con il bottone che stira i lembi e mi dice di non mangiare altro stasera. E sono severo, troppo severo nel bocciare una camicia, che forse una chance l’avrebbe pure meritata. Nemmeno una possibilità. Che è quella che concedo sempre a quella che indosso puntuale alle 7 e tolgo alle 20, forse anche alle 22. È inamidata, dura, e tira tutti i miei muscoli rilassati, mi costringe a trattenere il fiato ogni volta che incrocio qualcuno.
Perché? Perché pare brutto.
Mi domando sempre se qualcosa che faccio, che dico, che penso pare brutto. Me lo ripeteva mia madre tutte le volte che una spiegazione, vera e convincente, per vietarmi qualcosa, non c’era: «Pare brutto». E il discorso finiva lì, come se avesse pronunciato la parola d’ordine.
È la camicia che avrei indossato per il passaggio di consegne. Mi aspettavo per il primo incarico di comando tutta la formalità del caso: il mio predecessore che mi accompagna in ufficio, il personale schierato, il saluto, un breve discorso del comandante provinciale, le strette di mano dei colleghi ufficiali, la fascia azzurra posta di traverso sulla giacca, che fa contrasto con la camicia bianchissima dal colletto rigido. Niente di tutto questo.
Prima di me c’era un tenente più anziano, un ufficiale di complemento, mandato qui a fine carriera. Sarebbe rimasto di sicuro un altro paio di anni, ma ha accelerato la pensione. Non ne so molto, ma quando stamattina mi sono presentato al comando provinciale, mi hanno detto soltanto che era stato deciso così, per motivi disciplinari. E arrivo io, per motivi disciplinari.
Dal bagaglio spuntano un’altra camicia e l’uniforme di ricambio. Non sono fresche di stireria, ma poco importa se devo finire in una miniera a cavare un morto.
Non ho il tempo per guardarmi intorno e capire come sistemare al meglio una cella di tre metri per tre, con un letto singolo, una libreria scarna, un comodino, una scrivania, messi a casaccio addosso alle pareti, che hanno visto l’ultima mano di bianco almeno un paio di anni fa, quando il predecessore si è insediato.
Sono pronto proprio allo scadere dei dieci minuti e faccio a ritroso la strada percorsa prima con Zotti, che è in piedi davanti al portone d’ingresso e getta via una sigaretta incenerita a metà.
«Non fumo e non mi piace che si fumi negli uffici.»
Mi sento un gatto già adulto al primo giorno nella nuova casa abitata da altri simili: marco il territorio. Zotti, si comporta quasi come se lo avessi colto sul fatto, ma cerca un appiglio per giustificare il gesto.
«Il tenente Caruso era un fumatore accanito: sigarette, sigaro, qualche volta la pipa…»
«Ed è andato via»
Lo dico con un mezzo sorriso, mentre seguo il maresciallo per delle scalette anguste che portano al primo piano e finiscono in un corridoio dal soffitto a mezza volta, forse un tempo ampia il doppio, perché un tramezzo posticcio divide in due l’originario, molto lungo con celle e cellette sulla nostra destra. Una di queste è il mio nuovo ufficio.
«Signor tenente, benvenuto. Ci sono solo l’appuntato Maresca, i carabinieri De Francesco, Rossi e Peluso. Avremmo fatto le cose perbene, se ci fosse stato il tempo. Ma, come saprà, il tenente Caruso è andato via di fretta dall’ufficio ieri sera e dal comando ci hanno fatto sapere solo che lei sarebbe arrivato domani. Poi questa cosa della miniera…»
Il protocollo per Zotti deve essere qualcosa di molto serio, se pensa di dover giustificarsi per ciò che non gli compete e non è tra le sue colpe. Mi irrita questa fretta. Mi sento defraudato, ma non da Zotti, Maresca, De Francesco, Rossi e Peluso, in rigoroso ordine di grado e di anzianità.
«Sono il tenente Giordano Di Capua e, viste le circostanze, sono costretto a prendere servizio con qualche ora di anticipo. Il maresciallo Zotti non ha avuto il tempo di mettermi a parte di nulla. E io non ho avuto modo di preparare un discorso di presentazione. Cercherò di essere un buon comandante e sono sicuro che la vostra esperienza mi sarà di grande aiuto. Non possiamo dedicarci oltre al mio insediamento. Ci saranno altre occasioni per non perdere di vista protocollo e cerimoniale. Vorrei raggiungere subito la miniera e gli altri colleghi. Chi mi accompagna?»
Sono tutti dritti sugli attenti, anche se ho cercato di essere più informale possibile. Il carabiniere più anziano fa un passo verso di me, cerca di stare dritto più che può, nonostante la stazza da oste.
«Comandi, tenente. Sono il carabiniere Rossi e l’auto è già pronta. Se volete seguirmi, andremo con il collega Peluso.»
Zotti, che è il più alto in grado, non sta nel picchetto ma un passo di lato in questa cella che chiamano ufficio, e annuisce.
«Se non ha nulla in contrario, io resterei in caserma, ma sono a disposizione.»
«Nulla in contrario.»
Prendo il berretto e il cappotto e seguo Rossi e Peluso verso l’auto. Dovrei avere un po’ di adrenalina per il primo caso da comandante. Non c’è niente che mi entusiasmi oggi. Domani, forse, ma oggi no. Oggi ce l’ho con l’universo. Soprattutto con le strade tutte curve, con le buche, con la pioggia, con l’auto che scivola in una discesa perfetta come pista nera, e con questo posto maledetto che mi accoglie con un morto.
Non riesco a farmene una ragione, neppure quando arriviamo all’imbocco della miniera.
Guardo dal finestrino della 128 blu e le gocce della pioggia e il buio attorno mi nascondono quello che ho visto scendendo dall’auto di servizio: una folla increspata e silenziosa. Le facce tutte rivolte verso di me, con la stessa espressione che non riesco a decifrare.
«Li mando via, tenente?», mi chiede Rossi e intuisco che tutti vogliono capire se sono amico o nemico.
Affondo il piede in una pozzanghera e sento sotto la suola l’argilla molle intrisa di pioggia. Calibro così i passi per non scivolare e sembrare lo sbarbatello che tutti vedono.
«No, Rossi. Basta che non intralcino dentro. Dobbiamo scendere?»
E anticipo di un passo il carabiniere, mentre la folla silente mi lascia andare. Muovo lo sguardo tra il terreno fradicio e le loro facce. Qualcuna sporca, qualcuna arrossata dal pianto, e capisco che non avrò una serata semplice.
«C’è il brigadiere Bruno, tenente. È stato tra i primi ad arrivare. E questo è l’imbocco del cunicolo principale.»
Bruno sembra il classico brigadiere giovane, ma più anziano di me, che sprizza efficienza al cospetto di un superiore appena arrivato.
«Comandi, signor tenente. Il morto è al livello inferiore, dove c’è lo scambio dei carrelli. Di sotto c’è il maresciallo maggiore Casale che sta sentendo i presenti.»
«Grazie, andiamo di sotto.»
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