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Aggiornamento

Qui di seguito uno stralcio della presentazione che ho effettuato in videoconferenza internazionale per presentare il progetto editoriale, con ottima partecipazione di pubblico. Buonasera, saluto tutti con grande calore, vi do il benvenuto in questa sala virtuale e vi ringrazio per la partecipazione. Avrei preferito tenere questa riunione dal vivo ma d’altro canto in quel […]

Qui di seguito uno stralcio della presentazione che ho effettuato in videoconferenza internazionale per presentare il progetto editoriale, con ottima partecipazione di pubblico.

Buonasera, saluto tutti con grande calore, vi do il benvenuto in questa sala virtuale e vi ringrazio per la partecipazione. Avrei preferito tenere questa riunione dal vivo ma d’altro canto in quel modo non avrei potuto invitare partecipanti da location così diverse. Oggi abbiamo amici dal Lago Maggiore, da Milano, dalla California, da Pisa, da Roma. Abbiamo chi rappresenta le amministrazioni pubbliche, chi la medicina e la sanità, scienziati, matematici, professori di lettere, studenti, ragazzi. Un pubblico misto e qualificato. Ringrazio veramente tutti di cuore perché capisco quanto sia difficile ritagliarsi una mezzora di tempo in giornate che in questo periodo sono state ancora più caotiche. Specialmente per chi ha 9 ore di fuso di differenza. Il libro è un thriller: due omicidi commessi a distanza di trent’anni, con una prima indagine del protagonista da giovane in America, su un delitto avvenuto in azienda, che ricalca lo stile classico del giallo all’inglese, con i dialoghi, le situazioni psicologiche, e poi una parte centrale e finale, che si svolge intorno all’assassinio di un importante uomo politico statunitense in ambasciata a Roma, seguendo i dettami del thriller d’azione, all’americana, con sparatorie e colpi di scena. Le due indagini si intersecano, si innestano una dentro l’altra per dare dinamismo alla scena e creare attesa nel lettore. Quando sei immerso in una inchiesta ti rode, spero, che l’autore improvvisamente, nel capitolo successivo, ti riporti nell’altra. L’indagine californiana mi ha offerto l’opportunità di ricordare alcuni episodi autobiografici, aneddoti vissuti in quel periodo. Ma io oggi non voglio parlare del mio libro, ma di che cosa mi ha spinto a scriverlo. Quando ero ragazzo desideravo diventare uno scrittore, mi vedevo forse come tanti di noi, come un poeta maggiore, di quelli studiati a scuola, volevo essere un romanziere. Amavo Dickens, per tanti anni ho considerato David Copperfield il miglior romanzo che fosse mai stato scritto. Poi, un bel giorno, dovrei dire semplicemente un giorno, perché non so ancora bene, un amico qui presente in sala, oggi, mi convinse, durante la visita per il militare, ad iscrivermi a Scienze dell’informazione. Era una facoltà nuova, a Pisa per la prima volta in Italia, lavoro assicurato. Lì sono diventato pragmatico e la mia vita cambiò. Sono entrato in quel mondo dell’informatica, e vi sono rimasto per 40 anni. Appena laureato fui inviato dall’Olivetti in California.

Nel libro ho raccontato un aneddoto di come fecero a convincermi a trasferirmi. Insomma mi dissero, vai per un mesetto, per un’esperienza formativa, a imparare un po’ d’inglese. L’esperienza è stata sicuramente formativa, il mesetto sono diventati 11 anni, in diverse fasi. Se sono voluto tornare in Italia mi sono dovuto trasformare o, come si usa dire riciclare, termine più attuale, in un uomo di commercio, di marketing, negli ultimi anni addirittura di amministrazione. Un passo obbligato, non so se positivo. In questi anni passati in giro a organizzare o aspettare riunioni, in treno o in aereo, quando a maggio avevo già superato le 100.000 miglia che davano diritto alla card di lusso delle compagnie aeree, per far passare il tempo e sconfiggere la noia leggevo e continuavo a cullare dentro di me il desiderio di scrivere. Un giorno, cascasse il mondo, avrei scritto qualcosa. Ma in quegli anni successe anche un’altra cosa dentro di me. Avevo bisogno di staccare, di fantasticare, di pensare ad altro, di fiction, di azione, di pathos, di emozioni e il mio interesse si era spostato da Dickens a Connelly, a Cornwell, a Child, a Chandler, Crais. Se avete notato tutti autori che iniziano per C, forse per avere qualche chance dovrei chiamarmi Cennari. Mi viene in mente un aneddoto a proposito del mio inglese e del nome. Quando arrivai in California mi presentai in banca per aprire un conto corrente, è la prima cosa da fare se si abita per un po’ in America. L’impiegato mi chiese di fare lo spelling del mio nome, ovviamente. Io mi impegnai di brutto. Una settimana dopo, perché in America sono efficienti, mi arrivò a casa un libretto degli assegni intestato a me: il nome era Daniel senza la e finale, e questo ci sta. Il cognome era invece così composto: J-e-n-h-a-r-y. Daniel Jenhary. Per anni sono stato chiamato dai miei amici di quel periodo Jenhary, enfatizzando la J e la h aspirata.

Quando mi sono ritirato ho avuto tutto il tempo del mondo. Ho cominciato a ricordare e a mettere in word le mie esperienze giovanili, prima per scherzo, poi ho visto che riuscivo a scrivere 10 pagine al giorno, 100 pagine in pochi giorni. E sono venute fuori, contemporaneamente, la mia passione per i libri gialli americani e l’imprinting commerciale che mi ero cucito ad- dosso. Ho voluto farne un prodotto, per il mercato editoriale, raccontare le mie cose, ideando una fiction, che piacesse a donne, uomini, giovani, adulti, maturi, manager, studenti, viaggiatori, ragazzi. Oggi qui ci sono dei ragazzi giovani, che sembrano apprezzare il libro. Io ne sono profondamente orgoglioso. Un prodotto quindi, spero ben confezionato, ma che si aspetta da tutti voi una critica valutazione, un feedback, perché possa migliorare ancora, prima della versione finale che verrà pubblicata fra qualche mese, e per permettere a me di migliorare. Di passare dalla fase dilettantesca a quella professionale. Perché io mi diverto a scrivere, un mondo, ma vorrei farne anche una professione, la mia prossima professione.

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