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Nurah, il gioco delle torri di luce. Intervista all’autore Marco Oggianu su Pesa Sardigna Nurah, il Gioco delle Torri di Luce. Di cosa parla? Quattromila anni fa, in epoca nuragica, la Sardegna era divisa in venti Regni. Nel cuore di ogni Regno si trovava il Tempio di Shardan, Dio del Sole, chiamato anche Nurah, Torre […]

Nurah, il gioco delle torri di luce. Intervista all’autore Marco Oggianu su Pesa Sardigna




Nurah, il Gioco delle Torri di Luce. Di cosa parla?




Quattromila anni fa, in epoca nuragica, la Sardegna era divisa in venti Regni. Nel cuore di ogni Regno si trovava il Tempio di Shardan, Dio del Sole, chiamato anche Nurah, Torre di luce (oggi Nuraghe), così chiamata per il fuoco sacro che ardeva sulla sua sommità l’intero arco dell’anno. Per evitare guerre i Regni si affrontavano in un Gioco dove due squadre di nove elementi combattevano per una Nurah: prima della sfida il fuoco veniva spento, la squadra che conquistava la fiaccola e lo riaccendeva era la vincitrice e otteneva il dominio sul Regno. La squadra con più Nurah al suo attivo, avrebbe sancito il Judike, ovvero l’Imperatore di tutti i Regni. In questo contesto è ambientata la storia della piccola squadra di Kehra che, condotta da una ragazzina, Ilian, sfida la più blasonata Antinè e i campionissimi di Bahr Amon. Ilian gioca per liberare Gunnar, il suo fidanzato, tenuto in ostaggio dal Judike Is e costretto a giocare per Bahr Amon…




Storia, fantastoria o tutte e due le cose?




Più fantastoria, anche se l’ambiente descritto è quello della civiltà nuragica e dei templi ad essa collegati: tombe di giganti, tempietti a megaron, pozzi sacri e così via. La storia è ispirata ai Giganti di Monte Prama e ai personaggi rappresentati nei bronzetti. Infatti ogni squadra è composta da quattro arcieri, due pugili con scudo, due lottatori e un Campione, rappresentato come il cosiddetto capotribù con bastone, trofeo simbolo per ogni Nurah conquistata. Nella storia vi sono anche altri oggetti come i pugnaletti e le navicelle, che hanno anche funzioni ben precise.




Perché un romanzo sul passato dei sardi?




Per far conoscere la storia dei Sardi in maniera abbastanza semplice. In questo racconto mi sono attenuto a quello che la storiografia ufficiale sostiene ancora oggi, facendone quasi una parodia. Mentre gli altri popoli del mondo navigavano, scrivevano, venivano qui a insegnarci tutto, i nuragici erano totalmente occupati nel Gioco. Costruire torri di pietra e mettere tutte le energie per le squadre che avrebbero dovuto conquistarle, o difenderle. Un po’ come oggi avviene col calcio e nell’antica Roma coi gladiatori. I Nuraghi costruiti per un gioco? Può sembrare assurdo, ma se pensiamo che l’edificio più imponente della Roma antica era il Colosseo e che oggi nelle nostre metropoli sono gli stadi… Inoltre nel racconto vi sono chiari riferimenti allo sport dei tempi moderni e ai suoi problemi: corruzione, doping, scommesse, partite arrangiate, ecc.




Il passato e la riflessione sul passato possono aiutarci a cambiare il presente?




Si, ma dipende da come si interpretano le fonti. Quando vi sono fonti scritte palesi e obbiettive è chiaro che non le si può discutere, ma quando tutto si basa su ambigui reperti materiali o su descrizioni mitologiche, allora la storia diventa speculazione ed è molto facile cadere nella propaganda, che quasi sempre favorisce i vincitori e i dominatori. Nel caso della Sardegna è abbastanza evidente, è stata creata una narrazione storica che vede i sardi come eternamente perdenti. Non dico colonizzati, sconfitti, poiché questi termini potrebbero essere limitati a certi periodi per poi venire ribaltati in altri, parlo invece di perdenti poiché questa situazione viene spacciata come eterna, inevitabile. Un’esaltazione estrema dello status quo che non trova eguali nemmeno nella Reazione dell’Ancien Regime di inizio ottocento. Un uso distorto della storia a scopo coloniale che ha veramente cambiato il presente, ma in maniera negativa, convincendo i sardi che sono sempre stati un popolo di incapaci, con tutte le conseguenze che abbiamo davanti agli occhi.




Per ribaltare le cose io reagisco con un’altrettanto forte mitologia, inventata, come la loro, e raccontata in maniera popolare. Usando un termine più esplicito: proletaria. Come gli americani fanno con Hollywood, anche se l’esempio è molto azzardato. In questo caso lo faccio con una storia semplice, d’amore e di battaglie, nella quale tutti possono riconoscersi, e che non ha nessuna pretesa di scientificità storica. Ma che colpisce, resta nell’immaginario popolare, ed è questo il mio obbiettivo. La scienza invece la lascio ai veri archeologi, di cui rispetto il lavoro.

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