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Mi dicono che questo è un libro a doppio binario di età. Leggibile, cioè, indifferentemente da vecchi e bambini. Sta di fatto che il lettore pensato in fase di scrittura ha 9 o 10 anni. Mi sono fatto un’intervista da solo. D – Quando si scrive per ragazzi/bambini bisogna semplificare il mondo? R – Probabilmente […]

Mi dicono che questo è un libro a doppio binario di età. Leggibile, cioè, indifferentemente da vecchi e bambini. Sta di fatto che il lettore pensato in fase di scrittura ha 9 o 10 anni.
Mi sono fatto un’intervista da solo.

D – Quando si scrive per ragazzi/bambini bisogna semplificare il mondo?
R – Probabilmente sì, anche. Costa fatica. Non finisci di togliere il superfluo. Pensieri, ripetizioni, aggettivi, pieghe del discorso.
Togli tutto quello che è in più e speri che alla fine la parola …
D – Dipinga? Colori? Comunque “faccia vedere”? Qui sorge il primo dubbio. In un romanzo per l’infanzia, le parole devono obbedire all’imperativo di fissare immagini nitide nella mente del lettore? Tratti marcati, netti chiaroscuri? E già che ci siamo: netti sentimenti, buoni e cattivi etc? E’ questa la meta della semplificazione?
R – Personalmente credo che ogni narrazione, anche quella per ragazzi, sia bella quando la musica delle parole è articolata, contrappuntata. Nitida ma anche misteriosa. Antiretorica, magari. Le parole al posto giusto, e lo senti quando lo sono.
Se la musica è buona, anche il lettore di dieci anni potrà creare, dalle parole lette, un suo universo, una sua visione. Anche senza illustrazioni. Il libro che suona bene diventerà una sinfonietta diversa per ogni lettore.
D – Solo che, per raggiungere questo, dobbiamo suonare bene. Far buona musica. Per niente facile.
R – Infatti per campare uso un altro linguaggio. Faccio teatro per l’infanzia e i ragazzi. Lo so, anche ‘sta grammatica è ostica. Però io ce l’ho, come dire, più nel sangue. Poi in teatro faccio cose belle e meno belle, ma quella grammatica la conosco.
Parlo con parole, occhi, sopracciglia, mani, oggetti, pupazzi, suoni, disegni, cose proiettate, ombre.
D – Potresti accontentarti di usare il linguaggio teatrale, visto che ne hai uno tuo specifico.
R – Invece no, voglio essere poliglotta e imparare a raccontare bene le storie anche con la pagina scritta. Quindi, imparare a suonare bene sulla pagina.
Più lo faccio, più constato che sono lingue profondamente diverse.
In teatro, dieci pagine possono stare dentro un gesto o uno sguardo. Una mano o un pupazzo che si muove, accompagnato dal suono.
E i passaggi sono intuitivi, a volte tanto più belli quanto meno detti. E la logica di una storia in teatro a volte sta nel togliere logica e causa/effetto a questi passaggi.
D – In narrativa è più difficile?
R – Nella narrativa per grandicelli, quella non o pochissimo illustrata, quella che voglio imparare (l’illustrata ha similitudini con l’atto teatrale, secondo me), devi essere più logico. E anche più ingegnere. Senza abdicare alla fantasia, anzi. Devi dare logica e causa/effetto anche all’incredibile, per aiutare quella sospensione dell’incredulità che in teatro (che parla con parole e silenzi, salti logici, visioni, spiazzamenti) è più spontanea e che in narrativa invece va conquistata con le sole frasi. Difficilissimo. Una sfida.
D – Torniamo all’inizio. Devi semplificare il mondo?
R – Sai che ti dico? No, non credo. Ne devi creare un altro, realistico o fantastico ma un altro. Col suo respiro, la sua logica, la sua ragione, le sue facce, le sue regole, tutti i suoi perché o non perché.
Poi sì, certo, questo mondo deve apparire semplice. Ma per arrivarci …
D – T’è voja.
R – E’ così.

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