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La maledizione degli acrònimi “Caro amico, da quando il POF si è trasformato in PTOF, per noi insegnanti la vita si è fatta dura. Non bastava il PEI, ora dobbiamo redigere anche il PAI e il PIA. Ci eravamo poi appena abituati alla LIM nelle aule, quand’ecco, zac, t’arriva il COVID, e allora via con […]

La maledizione degli acrònimi
“Caro amico, da quando il POF si è trasformato in PTOF, per noi insegnanti la vita si è fatta dura. Non bastava il PEI, ora dobbiamo redigere anche il PAI e il PIA. Ci eravamo poi appena abituati alla LIM nelle aule, quand’ecco, zac, t’arriva il COVID, e allora via con la DAD, che oltretutto ultimamente ha anche partorito la DDI, la quale poi, con gli alunni DVA a volte è ben difficile da fare, perché il loro PEI (non quello di prima, l’altro PEI) talora è molto particolareggiato, e magari trovi un DS che su questo ti fa le pulci: il CDV te la può anche far pagare, se sei nell’anno di prova”.
Tutto chiaro? E’ bello? Vi piace questo discorso? O no? Be’, io nemmeno ve lo “traduco” (sic), perché non ne vale la pena. E’ uno scherzo, d’accordo, ma oramai è così che si parla e si scrive nella scuola (che è la realtà che conosco meglio). Tuttavia in qualunque altro settore, pubblico e privato, industriale o commerciale e, in realtà, dovunque, l’andazzo è proprio questo. I geroglifici sarebbero più chiari.
Ora, a domanda risponde: ma costa poi tanta fatica e dispendio di tempo anziché dire DAD parlare di “didattica a distanza” (che già di per sé può essere una formula un po’ ambigua). È tanto più rapido ed economico parlare di MAD anziché dire “messa a disposizione” (altra formulazione peregrina che sarebbe poi più o meno la vecchia “domanda ai presidi”; domanda di supplenza, s’intende)?
Quali sono le vere ed oscure ragioni che inducono frotte di dirigenti e funzionari d’ogni ordine e grado ad inventarsi compulsivamente sigle su sigle? La praticità? La precisione? La brevità? Macché. Le ragioni sono al fondo sempre le stesse, quelle antiche, quelle del “latinorum” del manzoniano Azzeccagarbugli.
Ciò che si dice per gli anglicismi inutili (e pochi sono quelli veramente utili, per i quali, cioè, manca il corrispondente vocabolo italiano) come “computer” (detto peraltro compiuter, con la i, all’inglese), quando esisteva già il “calcolatore” (diverso, com’è noto dalla “calcolatrice”, per fare solo i conti) oppure l’“elaboratore” (di dati); e ciò che si dice per la ridda dei termini gergali e criptici (ogni professione ha i suoi) vale pari pari per la pandemia dei maledetti e dilaganti acronimi, per le sigle.
A mio sommesso avviso è l’ignoranza crassa ciò che induce a credere che se parlo astruso e strambo faccio bella figura, che se parlo in un modo che i più non capiscano ne guadagno in prestigio ed importanza. Ah, che persona brava e competente, che persona preparata, quante ne sa di cose che sono precluse a noi comuni mortali!
Ma la matrice vera e profonda di questo vezzo tutto italico è un’altra ed è antica: è il privilegio. Se io parlo o scrivo a suon di termini e sigle incomprensibili ai più, io posso intortare gli altri a mio piacimento. L’avvocato o il medico che ti spiegano in “sanscrito” quello che hai, che non hai, che devi fare, implicitamente ti stanno dicendo: amico caro, non sono cose queste che puoi fare da te, hai bisogno di me, dell’esperto Azzeccagarbugli, se no, vedi, sei perso. Fidati (e paga).
Non sanno, i furbetti ignoranti, che invece ciò che è difficile è parlare facile, cioè parlare e scrivere chiaro e semplice per farsi capire da chi ti ascolta o ti legge: assai più difficile che parlare astruso. È più difficile farsi capire che non farsi capire. In un’insalata di parole piena zeppa dell’aceto delle inutili parole difficili, senti solo l’aceto, e tutto l’altro gusto della comprensione e della verità va a farsi benedire.
Ahinoi, è un male antico, questo, della nostra “cultura”: parlare e scrivere senza… anzi: “per non” farsi capire. Altrove non è così. Non per esempio nella cultura anglosassone, dove la chiarezza è un imperativo categorico. Ma neanche in altre lingue europee: nel francese, dal periodare snello, breve, dall’eloquio “geometrico”; o nella lingua spagnola, che aborre, giustamente, i forestierismi (e fa niente che li combatté il Franchismo). Brutto costume, il nostro!

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