«Latte ne hai?»
«Sè, signuri, in abbondanza!»
«Bene, qua avrai un letto, cibo in quantità e un altro bambino da crescere.»
«Grazzi, signuri, sarrò riconoscente a vossia pi tutta a vituzza nostra.»
Mio padre replicò con un sorrisino di circostanza. Poi diede una fugace occhiata al bambino che riposava in una cesta: «Come si chiama?». Cosima non aveva minimamente pensato a come chiamarlo: era nato da soli due giorni, che lei aveva trascorso raccogliendo le sue poche cose, pregando e piangendo, sperando che qualcuno la prendesse in casa anche solo per pulire i pavimenti.
«Nun u sacciu, signuri.» Poi prese coraggio. «Vossia comu si chiama?»
Mio padre, che aveva già distolto lo sguardo dal fantolino per il quale non aveva il minimo interesse, guardò Cosima: «Vito mi chiamo». E Cosima, pronta, di rimando: «Puri iddu!». E guardò mio padre con uno sguardo così grato che lui si commosse.
Negli anni ascoltai questo aneddoto più volte, dall’uno e dall’altra; le versioni erano identiche: mio padre lo raccontava nei circoli, alle feste bene, in famiglia; Cosima a chi amava.
2
Crebbi in salute, senza l’affetto di mamma, occupata a riprendere la sua vita sociale, coccolato dalla balia che mi amava incondizionatamente e che prima di dormire mi cantava una ninna solo nostra: «Bèddo piccirìddu miu, sangu miu, beddu Paolino, figghiu miu; duormi cori miu ti vogghiu beni, beddu miu».
Mia madre si accorse di me quando ebbi circa cinque anni. Mi fermò un giorno mentre correvo disperatamente in giardino, mi guardò negli occhi, mi diede un buffetto sulla guancia, si fece una risatina e mi disse: «Sei basso, Paolino, ma meno brutto di quando sei nato: il tempo ti ha aiutato. Forse diventerai un uomo piacente». E riprese la sua passeggiata.
Cosima, la mia cara balia, non mi educava: per lei ero il signorino da nutrire, coccolare, viziare, ma non conosceva l’importanza del “no”, termine che usava con suo figlio Vito. Mi fece fare sempre e solo quello che mi aggradava e arrivai così in età scolare privo di qualsiasi regola, a cominciare da quella legata agli orari scolastici: la mattina non mi volevo alzare.
«Prendiamogli un precettore» concluse mio padre dopo una lunga conversazione con mia madre.
«Non mi piace che impari da solo.»
«E questo pensiero socialista da dove emerge.»
«Non ho pensieri socialisti.»
«Ho capito: non lo vuoi tra i piedi la mattina» concluse mio padre.
«Diciamo che a scuola sta meglio di qua.»
«Va bene, domani andrà a scuola.»
Con l’avvento della scuola entrarono nella mia vita delle fastidiosissime regole che non accettai.
«Minestra di ceci, tesoro mio.»
«Lo sai che mi fa schifo la minestra di ceci, balia!»
«Mamma e papà mi hanno detto che la devi mangiare: hai quasi sette anni, non sei più un piccirìddu, vai a scuola e devi manciàri quello che c’è.»
«L’hanno fatto apposta.»
«Penso di sì, cori miu, ma loro sono i tuoi genitori e tu devi manciàri a minestra di cìceri.»
Me ne andai a letto a pancia vuota senza più parlare, nemmeno con Cosima.
La mattina successiva quando arrivai a tavola scoprii con stupore che i miei genitori stavano mangiando, in silenzio, alla stessa tavola dove normalmente mangiavo solo. Ne fui contento, per un momento, poi un tuffo al cuore allontanò la mia illusoria felicità: sul tavolo, al posto del solito tazzone di latte bianco, c’era il piatto di minestra di ceci, la stessa della sera prima, riscaldata. Feci una veloce riflessione (ero basso ma intelligente) e compresi di essere stato messo alla prova. Non toccai cibo, non parlai, presi la cartella e attesi che il giardiniere mi accompagnasse col calesse a scuola. Con il cuore piccolo piccolo, mi avvicinai al tavolo all’ora del desinare: minestra di ceci, la stessa. Non mi sedetti e me ne andai in camera. I miei genitori, tutti compresi nel nuovo compito di educatori, non proferirono verbo. La fame cominciava a farsi pesantemente sentire e, grazie a Dio, la balia mi portò nel pomeriggio latte e biscotti, trafugati dalla cucina durante l’obbligatorio riposino pomeridiano: «Mancia, amuri miu, mancia e zìttiti».
La sera, con passo incerto e animo triste, mi recai a tavola. I miei genitori conversavano amabilmente tra loro, ridendo forzatamente per far sembrare tutto normale; la minestra di ceci era lì, fredda, impaccata, senza dubbio cattiva.
«Buonasera Paolino, siediti e mangia.»
«Nun mi piacciono i cìceri.»
«Non importa: mangia e parla italiano.»
«Mi piaci u sicilianu.»
«Non importa nemmeno quello. Se non parli italiano ti togliamo la balia. E mangia.» Il pensiero di perdere Cosima e con lei Vituzzo, mio unico amico dentro le mura domestiche, mi fece cambiare idea. Tacqui e mangiai la minestra, inghiottendo ogni boccone senza assaporare, né masticare. Da quel giorno diventai grande, imparai a difendermi da chiunque, anche dalla famiglia, e odiai per sempre i ceci.
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