“Pure idda lo è, e lo è pure il figlio mio. Invece tu tenevi ventisei anni: proprio picciridda non eri.” “Poi rivolto a me: “Dov’è la ragazza?” Indicai la carrozza.
“Ca a portasti?”
“Balia sta’ zitta!”
“Mi taccio, ma in carrozza a teni? Chi hai fami? Friddu?”
“Ci sono trenta gradi Cosima, che vai dicendo.”
“Porazza, rintra a carrozza, sula, sula.”
“Possibile che tu non riesca a mantenere un atteggiamento per più di cinque minuti? Non eri arrabbiata con Paolino come se ci avesse rovinato e ora pensi alla ragazza che è la causa della rovina?”
“Scusate signuri, jè vìeru, sunnu arrabbiata, ma ricordiu ancùora comu vuatri mi aviti accolto cu Vituzzo, cori miu.” Cosima mia era tornata! La mia balia teneva alla ragazza a cui volevo bene e che lei non aveva mai visto. Fu l’unico momento, in tutta quella confusione, in cui mi sentii amato.
“Vai balia, vai.” Rispose seccato mio padre. “Portala in cucina, nutrila e mettile uno scialle pesante che l’amore fa brutti scherzi.” Poi riprese a parlare a lungo, dicendo troppe cose importanti che non ricordo. Io guardavo Cosima che con dolcezza materna faceva scendere Giulietta dalla carrozza, le aggiustava lo scialle, le toccava i capelli, le diceva parole gentili perché lei sorrise, e la spingeva dolcemente verso le cucine.
Dopo il primo impatto i miei genitori chiesero tempo per parlare tra loro e consultarsi con Padre Mimmo sul da farsi e per giorni mi lasciarono macerare chiuso nella mia camera. Giulietta fu relegata nell’ala della servitù, sotto la tutela di Cosima che la riempì di attenzioni e credette di aver acquistato una figlia. “Tu si a figghia fìmmina chi mai haju avutu.” Giulietta, autonoma da quando aveva posato i piedi a terra, era accondiscendente ma, mi dissero, si rifiutava di farsi pettinare e vestire e dava una mano in cucina riuscendo alla fine a carpire i segreti culinari di Cosima che imbandirono la mia tavola negli anni seguenti.
Cinque giorni dopo era domenica. Cosima entrò nella mia stanza mentre mi stavo vestendo. “Non bussi balia?”
“Non ho mai bussato: ti ho visto più nudo io della tua bella.”
“Lei non mi ha mai visto nudo.” Cosima ben lo sapeva ma mi stava punendo da giorni con gesti scortesi anche quando mi portava il cibo e scherzi sciocchi e infantili come il non salare la pasta che tanto amavo.
“Che volevi balia?”
“Devi vìeniri a manciàri.”
“Si sono decisi!”
“Nun sacciu, fa prestu.” E uscì. Le corsi dietro prendendola per un braccio. “Balia, mi perdonerai?”
“Nun sacciu e mollami u vrazzu.”
Anche quella volta la tavola era apparecchiata per quattro. I miei genitori e Giulietta erano già seduti e guardavano il piatto vuoto.
Mio padre mi fece segno di sedere di fronte a Giulietta; Cosima portò il cibo in tavola e si sedette su una seggiola appoggiata al muro, con le mani in grembo e lo sguardo di sfida che la contraddistingueva nei giorni peggiori.
“Mangiate!” Esordì mio padre, infilandosi in bocca una grossa forchettata di pasta con la ricotta. “Prima di tutto,” esordì masticando a bocca aperta “voglio che tu sappia Paolino, figlio mio, che sono infuriato per il gesto di sfida che hai perpetrato nei confronti della nostra rispettabile famiglia, ma sono nello stesso tempo orgoglioso per il rispetto che hai tenuto nei confronti di Giulietta. C’è da dire che tutta questa brutta storia ti rende adulto.”
“Sono adulto da sempre padre.” Lo interruppi.
“Ti sei arrangiato fin da piccolo, è vero: il nostro metodo educativo lo imponeva.”
“Metodo educativo? Non mi sono accorto che ne aveste uno.”
“Sta mutu Paolì!” intervenne Cosima.
“Vero, muto devi stare. Dopo mangiato ce ne andiamo a prendere il caffè in giardino e aspettiamo Padre Mimmo che viene ad aiutarci in questo difficile compito.”
“Ma quale compito? Ci sposiamo e basta.”
“Invece no!” Lo disse con voce perentoria che non consentiva repliche. Giulietta, che era stata zitta e appena aveva toccato l’ottima pasta di Cosima, alzò lo sguardo terrorizzata al punto da far sorridere mio padre. “Risolviamo Giulietta, risolviamo.”
L’idea che Padre Mimmo, vecchio e saggio amico di famiglia, fosse stato convocato a soccorso, mi fece ben sperare sulla pronta risoluzione della situazione al momento tristemente statica.
10
Padre Mimmo era venuto al mondo a Vizzini un’ottantina di anni prima di quel giorno in cui venne chiamato a dirimere la questione fuitina, come mia madre aveva definito tutta la faccenda.
Era nato nel 1830 a distanza di poche ore da mio nonno e la, di allora, levatrice aveva corso da una casa all’altra per aiutare due donne a mettere al mondo quei due maschietti. L’amicizia, già presente nelle due famiglie di buon livello sociale anche se non nobili, si era rafforzata con la nascita dei due bambini che erano cresciuti vicini nello spazio e nelle intenzioni educative delle famiglie che vedevano nel loro futuro poteri politici e ricchi poderi.
Erano stati compagni di giochi Mimmo e il padre di mio padre, che mai avevo conosciuto; loro avevano scorrazzato insieme per le campagne assolate, insieme erano stati istruiti da un precettore privato che le due famiglie avevano assunto per entrambi, rifiutando il miscuglio con la plebaglia della scuola pubblica e nello stesso tempo dando loro la possibilità di avere un compagno di giochi. Negli anni si era rafforzata l’amicizia e la determinazione nei ragazzi che fecero scelte diverse da quelle prospettate dalle famiglie che digerirono poco la risoluzione di mio nonno di sposare una plebea e ancor meno quella di Mimmo che dopo aver completato un ciclo di studi a cui era stato obbligato, entrò in convento, si fece la prima tonsura e fu frate per sempre, ogni giorno più felice del precedente della sua vita dedita a chiunque avesse bisogno.
A poco più di quarant’anni mio nonno prese una brutta infezione, non meglio chiara, e morì in pochi giorni lasciando mia nonna e mio padre in pessime condizioni economiche. Fu padre Mimmo che intervenne presentando mia nonna ad una ricca famiglia di Vizzini che lì si era insediata da poco in seguito all’acquisto di un immenso podere. Mia nonna fu assunta come governante di lusso di questa immensa magione, mio padre mise gli occhi sull’unica figlia del proprietario, che vide subito di buon occhio l’unione dei due giovani perché quel ragazzo era l’unico che avrebbe potuto portare avanti la conduzione del podere. Padre Mimmo sposò i miei genitori nella chiesetta del podere, felice di aver sistemato la famiglia del suo migliore amico di cui lui parlava in continuazione come se fosse ancora vivo.
Pensavo a questo guardando la grande casa che mi aveva visto nascere e che, secondo i piani di mio padre, avrei dovuto continuare a far progredire e dove non mi vedevo per niente con Giulietta e i nostri futuri figli; non sapevo dove sarei finito con il tempo ma non lì, non a casa.
Padre Mimmo arrivò per il caffè. Portava bene i suoi ottant’anni: ritto, asciutto, sguardo severo, retaggio della fierezza familiare tramandata dalla progenie, quasi privo di capelli, aveva occhi piccoli e cerulei, naso aquilino, labbra quasi inesistenti ben coperte dalla folta barba bianca che contraddistingueva i francescani e che lui accarezzava spesso, unico vezzo in una vita di volute privazioni. Non salutò nessuno, sedette vicino a Giulietta e guardò me: “Brutto gesto figliuolo, dettato dall’impazienza e dall’impulsività della giovane età; conclusione rispettosa ed elegante. Ora finirai la scuola e poi vi sposerete.” E poi, senza cambiar tono: “Cosima, cannoli e caffè!”
Aveva ragione padre Mimmo: sarebbe stato stupido perdere l’ultimo anno della Normale e fu così che Giulietta restò a Vizzini tra le amorevoli braccia di Cosima, le istruzioni borghesi di mia madre e i molti libri che le avevo lasciato, mentre io fui confinato a Catania, a casa di Giulietta, in una stanzina adiacente la bottega, sporca di trucioli, carica di odori di colla e vernici. Non mi lamentai e studiai; il giovedì sera avevo ottenuto il permesso per un cinema, tempo che trascorrevo tra le lenzuola di seta di Madame che sapeva consolarmi con coccole e chiacchiere allegre.
La famiglia di Giulietta non vide più la figlia fino a quando, nel mese di ottobre inoltrato, mio padre, preso da un attacco di bontà, decise che era il momento di conoscerla e mandò un vetturino con carrozza a prenderla per condurla da noi per un’intera giornata. Mia madre iniziò ad agitarsi due giorni prima: “Tutta quella gente, tutti quei figli, tutta quella povertà! Non capisco perché dobbiamo con loro mischiarci. Già mio figlio, il mio unico figlio, sposa la loro femmina, dovrebbero essere così felici da non farsi più vedere.”
“Li ho invitati io.” Rispose mio padre asciutto.
“Che bisogno avevi?” Vidi negli occhi di mia madre un sincero stupore.
“Sono la famiglia di Giulietta e non vedono la figlia da un mese. Come ti sentiresti tu al posto loro?” Tacque, pensò e poi, continuando a far girare il bicchiere pieno a metà di nero d’Avola, parlando tra sé: “Già, tu non lo vedi mai Paolino e non sei dispiaciuta.” Mia madre non replicò e l’evento fu organizzato.
Era domenica mattina e padre Mimmo celebrò per noi una messa nella cappella del podere che veniva curata con amore dal marito di Cosima e considerata dai miei più un sito da mostrare che da frequentare.
Loro non parlavano per non saperlo fare, mia madre per presunzione e stupidità. Mio padre strinse la mano al padre di Giulietta e inchinò appena il capo davanti alla sua mamma, reputando eccessivo un baciamano e confidenziale stringergliela. Non considerò i ragazzi. Erano tutti e sei vestiti di nero che probabilmente consideravano il colore dell’eleganza. Quella che poi sarebbe diventata mia suocera si stringeva nello scialle e guardava per terra, esattamente come la volta che andai a casa loro. L’unico fiero e con l’atteggiamento sfrontato era il fratello maggiore di Giulietta che guardava tutti con supponenza proletaria. Nessuno lo considerò, i miei genitori non lo distinsero, lo seppi poi, dagli altri fratelli.
Pranzammo in giardino sotto il berceau il miglior cibo che Cosima potesse produrre. Giulietta si alzò un paio di volte per aiutare, ma fu fermata con poche parole all’orecchio dalla stessa Cosima che bene conosceva il galateo vivendoci dentro da anni.
Fu il peggior pranzo della mia vita: guardavo la mia Giulietta e lei guardava me, non potemmo né parlare né stare vicini, gli altri mangiarono in silenzio. Dopo pranzo padre Mimmo e i nostri padri si ritirarono per parlare; venni escluso perché “troppo giovane”. Padre Mimmo condusse una breve conversazione che era più un elenco di ordini; nel pomeriggio la famiglia di Giulietta chiese di tornare a casa: la madre e i fratelli salutarono la figlia con abbracci poco affettuosi, il padre pianse. Giulietta, ormai vestita come una signora con gli abiti dismessi della mia mamma e quindi belli, nuovi, chiari ed eleganti, era entrata in un mondo nuovo e loro la guardavano, con una punta di invidia, lasciarli per sempre.
Non tornarono più alla villa per molti mesi.
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