Lui rimase immobile e muto, le gambe accavallate. Le mani chiare e sottili sulle ginocchia. Fissandomi senza compiere movimenti, solo un batter di ciglia.
Quel pomeriggio indossava un completo in lana, a righe nere sottili su sfondo grigio. La giacca, aperta, mostrava una camicia color cenere perfettamente abbinata ai bottoni della giacca.
«Niente, era solo per ovviare all’imbarazzo, dottore» mi giustificai prontamente.
Lui non rispose, come ogni sacrosanta volta.
Sentii del calore cominciare a salire, dal petto attraverso il collo e le guance.
«Non comprendo perché ogni volta che vengo qui io non possa fare un commento senza sentirmi fuori luogo» dichiarai brusca.
Lui non rispose e io presi ad avvampare provando vergogna per le mie guance che cambiavano colore. Dovevano essere rosse e io sembrare impacciata e stupida.
Mi guardava, muto come uno stoccafisso.
Mi sforzai di rimanere calma anche se la pressione cominciava a pulsare nelle tempie e a serrarmi i muscoli mandibolari. Contrassi le labbra.
In quei momenti, dalle viscere, potevo distinguere un’ondata di rabbia crescente che spesso reprimevo per buona educazione.
Solitamente si ingigantiva sempre più, impedendomi di rimanere indifferente.
«Lei mi fa sentire matta, dottore» sbottai guardandolo negli occhi con tono di accusa. «Può parlarmi?» lo incalzai. Una fiamma corposa si materializzò nello stomaco e salì fino alla gola. Avrei voluto alzarmi e prenderlo a schiaffi e poi correre via da lì, urlando. «Dottore, può parlarmi?»
Lui mi osservò con un viso inespressivo, indifferente.
Quei capelli neri lucidi, il viso pulito e gli occhi scuri lo facevano somigliare alla figura di Gesù. Rasentando una perfezione clinica.
«Lei non mi sta aiutando, così, dottore!» alzai la voce. «Lei non mi guida… lei è come i miei genitori!» irruppi, al limite del controllo.
La rabbia che normalmente cercavo di sedare, fuori da quelle mura, in quell’ospedale si verificava puntualmente e a ogni visita. Senza che il mio psicanalista proferisse alcun verbo.
«Io da qui esco!» sbottai, alzandomi dalla sedia.
«Non è previsto dalla terapia» cedette finalmente, a mia sorpresa.
«Che cosa prevede la terapia, dottore? Io che continuo a parlare a vanvera senza un vero confronto? Lo sa che invece di venire qui avrei voluto abbuffarmi e vomitare anche oggi, come la settimana scorsa?»
Alla fine mi sedetti, ubbidiente alle mie abitudini e alla mia educazione, cercando di fare “la cosa giusta”.
«Non ho più voglia di alzarmi la mattina…» confessai mentre il livore stava lasciando il posto a un nodo di tristezza in gola. «Sto male, dottore… mi dica qualcosa! Mi viene da vomitare!»
Con le lacrime agli occhi ruotai la testa verso la porta del bagno, con fare plateale.
Il mio psicoanalista rimase impassibile. Professionale. Tecnico.
O insensibile. Noncurante. Disumano.
Ero certa che il suo atteggiamento non mi aiutasse. Lo sentivo dentro.
Mi sentivo enormemente giudicata ed esposta, come un animaletto da laboratorio che veniva osservato contorcersi in una gabbia senza reale aiuto e compassione.
Che ridere.
Una volta provai a sedurlo, presa dalla disperazione di quel silenzio assordante.
«Perché non mi parla, dottore? Sono stata una cattiva bambina secondo lei?» Avevo scandito le parole lentamente e con voce rauca, poco convinta di me stessa.
Chiaramente, anche quella volta, lui era rimasto fedele all’approccio terapeutico.
E io… mi ero sentita piccola come una formica.
Lo psicologo tornò a scrutarmi, dritta nelle pupille. Tornai al mio presente.
A quel presente che mi faceva pena.
Attesi in silenzio.
Il nodo in gola mi portò a corrucciare la fronte e a incrociare le braccia, come avessi ancora cinque anni.
Misi il broncio.
Gli occhi mi si gonfiarono di lacrime ma lottai per ricacciarle indietro.
Poi sbuffai, rimanendo muta per il tempo restante della nostra seduta. Priva di appoggi.
Sollevando pareti invisibili tra me e lui.
Sempre più convinta che quel percorso che mi aveva suggerito mia mamma non fosse adatto a me.
Rientrai a casa.
Sola, come sempre nel pomeriggio finché i miei fratelli non tornavano dalle loro attività pomeridiane.
Presi due pasticche di aspirina per calmare l’emicrania che mi era venuta e mi distesi a letto.
La testa bollente.
La pancia era ancora gonfia, per la doppia dose di pasta e l’hot dog che avevo ingoiato dopo scuola e di fretta prima di andarmene in terapia.
Detestavo recarmi in quel quartiere della città e in quel complesso ospedaliero, al Centro Regionale per i Disturbi del Comportamento Alimentare.
Praticamente mi ero affibbiata volontariamente l’etichetta di “disturbata”.
Ogni giovedì alle quattordici era la stessa storia.
Mi aveva spinta mia madre a iniziare, dopo essere stata inconsciamente cieca per oltre un anno verso la mia sofferenza personale. Io, nonostante l’istinto mi sussurrasse diversamente, non mi ero opposta alla sua decisione.
Volevo così disperatamente essere considerata da lei che mi aggrappavo anche alle briciole per conformarmi ai suoi suggerimenti.
Mi sentivo sfinita, però.
Dalle aspettative che tutti avevano su di me e da quelle che io mi ero creata nella testa per sentirmi “all’altezza”.
Ma poi… I miei genitori davvero mi volevano in un certo modo?
O era ciò che io avevo interpretato dai loro comportamenti?
Alle quindici e trenta, come ogni altro giorno da un anno a quella parte, mi diressi verso la cucina e aprii l’anta della dispensa. Acciuffai un pacchetto di Fonzies, un panino al sesamo e poi nel frigo una Fanta, del brie, dei würstel, una cotoletta di carne, maionese e pomodori.
Scaldai i würstel, la carne e il pane in microonde.
Senza la pazienza di attendere la cottura dei cibi.
Le budella mi si contorsero in pancia, ammonendomi che sarei andata ad appesantire ulteriormente il mio stomaco.
La salivazione aumentava progressivamente, come a un lupo che pregusta la preda.
30 grammi di brie fanno 100 calorie, i pomodori non li conto… 20. La maionese 50, i würstel 250, la cotoletta 230, il pane 150, i Fonzies 543 calorie ogni 100 grammi, c’è scritto sul pacchetto… Ah, la Fanta… è quella nuova, quindi ne ha pochissime, 30!
Feci un calcolo mentale: 980 chilocalorie.
Il suono del microonde mi avvisò. Allo sprigionarsi di quegli odori di cibo il mio cervello andò in tilt.
Mi intristii per un attimo al pensiero di buttare ancora giù roba.
Tanto sei già fuori per gli obiettivi della giornata. L’ospedale ti ha messo l’ansia. Eri già a 390+240.
Anche quel giorno i miei lassativi naturali non erano serviti a molto e in più non ero andata a scuola in bicicletta per compensare le calorie.
In sala presi posto sul divano, come di consueto davanti alla televisione.
C’era il solito programma stupido e trash di quell’ora, con Maria de Filippi.
Finalmente potevo spegnere il cervello e nascondermi da tutto quel senso di responsabilità.
Se qualcuno avesse chiamato al fisso di casa, non avrei risposto. Non esistevo più.
Guardavo un reality in cui vi erano tronisti e corteggiatori.
Persone che si deridevano a vicenda competendo in modo malsano, giudicandosi e insultandosi gli uni con gli altri. Uomini tirati a lucido sentendosi al massimo dell’eleganza e donne acconciatissime che, il più delle volte, scadevano nella volgarità.
Quel mondo mi affascinava e mi respingeva insieme.
Anche io, in fondo, avrei voluto essere una piccola star e sentirmi corteggiata da tutti.
Mi sentivo pesante, depressa e affaticata.
La mia vita, dopo la morte di Celeste, non mi appariva più tanto spensierata.
Si era interrotta veloce l’illusione di un’adolescenza allegra.
Come se un fendente mi avesse colto di sorpresa alla nuca trasportandomi giorno dopo giorno verso un silente tracollo.
Decisi di rimandare lo studio dopo le diciotto e di concedermi un altro po’ di TV spazzatura.
Inspirai quel profumo irresistibile: il mio mega panino che avrebbe avuto il potere di distrarmi dall’ansia che provavo in sordina.
Addentai il primo boccone e chiusi gli occhi come stessi gustando la pietanza più prelibata al mondo.
Quel calore scendeva giù, dalla gola fino allo stomaco e mi faceva sentire bene, come in un abbraccio.
Tornai al riparo, nel grembo materno, per cinque morsi e qualche masticata.
Poi, bum. Ripiombai nella quotidianità sentendomi schifosamente in colpa.
Cazzo, ci ero cascata di nuovo.
Finiva tutte le volte così, da un anno a questa parte.
La mia silhouette era ancora decente ma la pancia… era gonfia e dilatata, come fossi una donna gravida.
Era scioccante e curioso osservarmi di lato allo specchio.
Andrea Ferìgo
lo sto acquistando e non vedo l’ora di leggerlo..sarà sicuramente commovente ed emozionante