Passarono diversi infermieri da quel corridoio. Io osservavo ciò che mi circondava.
Mi soffermai su altre due donne che mormoravano tra loro. Una, grassottella, sorrideva ma il volto sembrava affermare tutt’altro: le braccia incrociate sul petto, le mandibole serrate e i denti gialli anneriti, quasi marci. Tra il mento e gola della pelle molliccia le ingombrava il collo ricordandomi un rospo.
Ripensai a quella conferenza, in centro, in cui avevano affrontato le conseguenze dei disturbi alimentari. E spiegando della bulimia era stato citato anche il famoso “gozzo”, il rigonfiamento di pelle che si creava sotto la mandibola a causa dell’acidità dei succhi gastrici che risalivano fino alla bocca nell’atto del vomitare.
La bulimia e l’anoressia erano malattie che ti imprigionavano, lente e vischiose, come sabbie mobili.
Vengono identificate come “le nuove malattie del benessere”, avevano spiegato alla conferenza, esplose con la crescita della civiltà occidentale e la ridefinizione dei suoi canoni sociali. Immagini di modelle magrissime, attrici televisive famose, bellissime e scultoree influenzano il subcosciente collettivo fino a plasmare nuovi standard.
O ancora: Il termine bulimia nervosa deriva dalle parole greche: “bous” (che significa bue) e “limos” (fame)… letteralmente “avere una fame da bue”.
«Signorina Levio, può entrare» mi riportò alla realtà una voce scandita di uomo sui trent’anni. Mi alzai in piedi e gli rivolsi un sorriso incerto seguendolo nello studio.
Detestavo quell’ospedale e non mi faceva impazzire l’idea di farmi giudicare da un perfetto sconosciuto. Nemmeno mi salutava quando mi trovava per caso in bagno.
Lo studio era bianco asettico eccezion fatta per una poltrona nera in pelle ed una sedia grigia.
Mi assestai sulla sedia aggiustando i capelli e la postura, un po’ tesa. Gli rivolsi un’occhiata indagatrice cercando di mascherare la mia preoccupazione mostrandomi sicura.
Nelle ore che trascorrevo con lui, i miei umori subivano sbalzi repentini e vivevo le mie personalità più inaspettate. Era stressante.
«Come sta oggi, Dottore?» domandai cercando di rompere il ghiaccio.
Lui rimase immobile e muto, le gambe accavallate. Le sue mani chiare e sottili sulle ginocchia. Fissandomi senza compiere movimenti, solo il batter di ciglia. Quel pomeriggio indossava un completo in lana, a righe nere sottili su sfondo grigio. La giacca, aperta, mostrava una camicia color cenere perfettamente abbinata ai bottoni della giacca.
«Niente, era solo per ovviare all’imbarazzo, Dottore» mi giustificai. Lui non rispose.
Sentii del calore cominciare a salire, dal petto attraverso il collo e le guance.
«Non comprendo perché ogni volta che vengo qui io non possa fare un commento senza sentirmi fuori luogo» dichiarai stizzita.
Lui non rispose e io cominciai ad arrossire e a provare vergogna per le mie guance che cambiavano colore. Dovevano essere rosse ed io sembrare impacciata e stupida…
Lui mi guardava, fermo come uno stoccafisso.
Mi sforzai di rimanere calma anche se la pressione cominciava a serrare i muscoli mandibolari contraendomi le labbra.
In quei momenti, dalle viscere, potevo distinguere un’ondata di rabbia sottile che spesso reprimevo per buona educazione.
E che solitamente si ingigantiva sempre più, impedendomi di rimanere indifferente.
«Lei mi fa sentire matta, Dottore» sbottai guardandolo negli occhi con tono di accusa.
«Può parlarmi?» lo provocai.
Una fiamma corposa si materializzò nello stomaco e salì fino alla gola.
Avrei voluto alzarmi e prenderlo a schiaffi e poi correre via da lì, urlando.
«Dottore, può parlarmi?».
Lui mi osservò con un viso inespressivo, indifferente.
Quei capelli neri lucidi, il viso pulito e gli occhi scuri che lo facevano somigliare alla figura di Gesù sulla carta. Rasentando una perfezione clinica.
«Lei non mi sta aiutando Dottore!» alzai la voce «Lei non mi guida… Lei è come i miei genitori!» irruppi, al limite del controllo.
La rabbia che normalmente cercavo di sedare, fuori da quelle mura, lì si verificava puntualmente e ad ogni visita. E senza che il mio psicanalista proferisse verbo. Anzi probabilmente per quello.
«Io da qui esco!» finalmente gridai, alzandomi dalla sedia.
«Non è previsto dalla terapia» cedette finalmente a mia sorpresa.
«Che cosa prevede la terapia, dottore? Io continuo a parlare a vanvera! Lo sa che prima di venire qui avrei voluto abbuffarmi e vomitare, come la settimana scorsa?».
Alla fine mi sedetti, ubbidiente alle mie abitudini, cercando di fare “sempre la cosa giusta”.
«Non ho più voglia di alzarmi la mattina…» confessai mentre il livore stava lasciando il posto a un nodo in gola.
«Sto male, Dottore, mi dica qualcosa per favore! Mi viene da vomitare!».
Con le lacrime agli occhi ruotai la testa verso la porta del bagno, plateale.
Il mio psicoanalista rimase impassibile. Secondo lui professionale. Tecnico. Fermo.
E a me sembrava invece insensibile. Noncurante. Disumano.
Ed ero certa che il suo atteggiamento non mi aiutasse. Anzi, mi sentivo enormemente giudicata ed esposta, come un animaletto strano che veniva osservato contorcersi in una gabbia.
Mi venne alla mente quella volta in cui provai a sedurlo, presa dalla disperazione di quel silenzio assordante.
«Perché non mi parla, Dottore? Sono stata una cattiva bambina?» avevo scandito le parole lentamente e con voce bassa. Comunque poco convinta di me stessa.
Chiaramente anche quella volta lui era rimasto fedele all’approccio terapeutico.
Ed io… mi ero sentita piccola come una formica.
Lo psicologo mi scrutò, dritto nelle pupille. E tornai al presente.
Attesi in silenzio.
Il nodo in gola mi portò a corrucciare la fronte e ad incrociare le braccia, come avessi ancora cinque anni.
Misi il broncio. Come i bimbi incompresi.
Gli occhi mi si gonfiarono di lacrime e lottai per ricacciarle indietro.
Poi sbuffai, rimanendo muta per il tempo restante della nostra seduta. Priva di appoggio.
Sollevando pareti invisibili tra me e lui.
Sempre più convinta che quel percorso non fosse adatto a me.
Rientrai a casa, ero sola come sempre nel pomeriggio.
Presi due pasticche di aspirina per calmare l’emicrania che mi era venuta e mi distesi a letto.
La testa bollente.
La pancia ancora gonfia, per la doppia dose di pasta e l’hot dog che avevo ingoiato dopo scuola e di fretta.
Detestavo recarmi in quel quartiere della mia città e in quel complesso ospedaliero, al centro regionale per i disturbi del comportamento alimentare.
Ogni giovedì alle 14:00 era la stessa storia.
Mi aveva convinta mia madre ad iniziare, dopo essere stata sorda per oltre un anno riguardo alla mia sofferenza personale. Ed io, nonostante la coscienza mi sussurrasse che quello non era né il modo giusto né il posto giusto per riabilitarmi, non mi ero opposta alla sua decisione.
Volevo così disperatamente essere considerata anche da lei che mi aggrappavo alle briciole cercando di conformarmi.
Mi sentivo sfinita, però.
Dalle aspettative che tutti avevano su di me e da quelle che io avevo creato per me stessa.
Ma poi…Erano davvero le aspettative dei miei genitori?
O era ciò che io avevo interpretato?
Alle 15:30, come ogni altro giorno da un anno a quella parte, aprii l’anta della dispensa in cucina. Acciuffai un pacchetto di Fonzies, un panino al sesamo e poi nel frigo una Fanta, del brie, dei wurstel, una cotoletta di carne, maionese e pomodori.
Scaldai i würstel, la carne e il pane in micro-onde.
Senza la pazienza di attendere la cottura dei cibi.
Le budella mi si contorsero in pancia, ammonendomi che sarei andata ad appesantire ulteriormente il mio stomaco.
La salivazione aumentò meccanicamente, come a un lupo che pregusta la preda.
30 gr. di brie fanno 100 calorie, i pomodori non li conto… 20. La maionese 50, i wurstel 250, la cotoletta 230, il pane 150, i Fonzies 543 calorie ogni 100 gr., c’è scritto sul pacchetto… Ah, la Fanta… è quella nuova, quindi ne ha pochissime, 30!.
Feci un calcolo mentale: 980 kcal.
Il suono del micro-onde mi avvisò. Allo sprigionarsi di quegli odori di cibo il mio cervello andò in tilt.
Mi intristii per un attimo al pensiero di buttare ancora giù roba.
Tanto sei già fuori. L’ospedale ti ha messo l’ansia. Ma eri già a 390+240.
Anche quel giorno i lassativi non erano serviti a molto e in più non ero andata a scuola in bicicletta per compensare le calorie.
In sala presi posto sul divano, davanti alla televisione.
C’era il solito programma stupido e trash a quell’ora, con Maria de Filippi.
Finalmente potevo spegnere il cervello e nascondermi da tutto il resto.
Se qualcuno avesse chiamato al fisso di casa, non avrei risposto. Fingendo di non esserci.
Guardavo un reality in cui vi erano dei Tronisti e dei Corteggiatori.
Persone che si deridevano a vicenda competendo in modo malsano, giudicandosi e insultandosi gli uni con gli altri. Uomini tirati a lucido sentendosi al massimo dell’eleganza e donne agghindatissime che, il più delle volte, scadevano nella volgarità.
Quel mondo mi affascinava e mi respingeva insieme.
Perché anche io avrei voluto essere una piccola star e sentirmi corteggiata da tutti.
Invece ora mi sentivo pesante, depressa, affaticata nel corpo e nella mente.
E la vita, dopo la morte di Celeste, non mi appariva più così dorata e luccicante.
Forse anche per questo, si era interrotta veloce l’illusione di un’adolescenza spensierata.
Cominciando il mio silente tracollo.
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