Palermo è femmina, una di quelle femmine che non hanno mai saputo esattamente chi vogliono essere. Dice di non esitare, di non piegarsi ma quando si sente persa è disposta a tutto pur di galleggiare, pur di aggrapparsi a un appiglio. E se è un cappio o una lama poco importa, ciò che conta è non perdersi. Perché Palermo è una femmina ardita, sa come dimenticare per sopravvivere ma sa anche piangere come nessuno per quello che non ha avuto il coraggio di fare e quando è il momento è la più abile nel coprire i segni delle sue ferite e delle sue sconfitte, la più esperta nel celare i guasti del tempo e si addobba con acconciature ricercate, con abiti e gioielli preziosi sorprendendo e abbagliando tutti con la sua bellezza che appare e scompare come una magia.
Le campagne si spopolavano per le ripetute carestie ed epidemie e per il trasferimento di forza lavoro verso i cantieri della città; per di più, rendite, monopoli e gabelle imposti dal potere centrale cominciavano a pressare e strozzare chi era rimasto e così, le poche colture che avevano resistito alle carestie venivano lentamente abbandonate e lasciate morire.
La città, invece, accerchiata dalla povertà e dalla ferocia crescente di chi tentava di trasferirvi vita e famiglia, dissipava nella testa distratta dei gruppi dominanti quello che restava di un qualche senso dello Stato, nel vacuo esercizio di misurare il proprio prestigio, in una lotta senza sosta tra vecchia e nuova nobiltà.
Per il resto si andava avanti nella disperata attesa di un soccorritore efficace, che fosse il Re o un Santo non importava.
Fu così che non si diede grande peso a un vascello proveniente da Tunisi, approdato a Palermo il 7 maggio 1624.
Era provvisto di patente netta del Console di Francia e della Deputazione della salute di Trapani, portava cristiani riscattati, mercanzie pregiate, derrate e tappeti. E poi portava doni al Serenissimo Vicerè Emanuele Filiberto da parte del Reggente di Tunisi. Non si poteva impedirne l’approdo.
Vero è che qualcuno aveva accusato che il vascello partiva da un porto sospetto e che a bordo c’erano state morìe per cause non chiare. Si vociferava che le carte potevano essere state falsificate e che potevano essersi sbarazzati dei morti in mare, ma il Serenissimo non si persuase e fece ammettere il vascello allo sbarco.
La città venne invasa dalla peste.
I primi casi scoppiarono nel quartiere della Fieravecchia, nel vicolo Cefalà dove un cristiano riscattato aveva portato della roba infetta. Morì pure un servo di magnano con tutta la famiglia di questi. Un moro schiavo gli aveva portato una cassa di roba, e quando i parenti andarono per condolersi del lutto si ammalarono tutti e morirono pure loro. Bubboni e petecchie colpirono tutti, poveri e nobili e pure il Serenissimo ebbe a pentirsi della sua poca attenzione e morì insieme a molti altri nel Palazzo reale, tutti contagiati dai preziosi doni del Reggente di Tunisi.
Passò più di un mese per dichiarare la città infetta e intanto il morbo si alimentava e sterminava tutti quelli che poteva.
Le porte della città furono custodite e si fecero lazzaretti per gli infetti e lazzaretti per i sospetti. Per ogni quartiere furono chiamati medici, chirurghi, barbieri e levatrici e anche i sacerdoti che furono destinati a somministrare i sacramenti.
Le case degli ammorbati che non andavano al lazzaretto venivano chiuse da un custode che ne deteneva la chiave e nella porta veniva dipinta una croce rossa. Il vitto entrava dalle finestre tirato da una corda alla quale era attaccato un paniere.
I morti venivano presi dai becchini e depositati nei feretri, nudi i maschi e avvolti in un lenzuolo le femmine. Un carro speciale li trasportava nel piano di San Francesco di Paola dove c’era un grande carrozzone che era usato come deposito e guardato a vista da soldati. Chiuso e impeciato per evitare le esalazioni, quando era pieno veniva trasferito nel fondo Fuentes, dove sorgeva il reclusorio delle Croci, lontano dalla città.
Mentre il morbo incalzava si iniziarono a emanare bandi pubblici che vietavano, pena la morte, di avvicinarsi ai lazzaretti e di camminare per le vie appestate. Il boia era sempre con la corda in mano. Qualcuno fu impiccato per aver percorso le vie infette, altri per avere trafugato oggetti d’uso di appestati, altri ancora perché avevano tentato di uscire dalla città. La gente per le strade gridava vinta dalla disperazione e si moltiplicarono preci e confessioni, tutti persuasi che cessando il peccato sarebbe cessato pure il flagello.
Anche l’arcivescovo aveva emanato vari editti che insieme all’esortazione alla preghiera ordinavano tutta una serie di istruzioni per impedire lo sviluppo del contagio, pena la scomunica maggiore.
Ma i mesi passavano e il morbo non accennava a ridursi, la morìa era tale che i becchini non facevano in tempo a portare i cadaveri al piano di San Francesco di Paola che dovevano ricominciare il giro.
Pietosi e consapevoli i sacerdoti accorrevano a confortare gli infermi: Teatini, Crociferi, Agostiniani, Carmelitani, Mercedari, Benfratelli, furono decimati dal morbo ma acquistarono la palma del martirio.
Alle donne era ordinato di non uscire di casa ma dopo mesi di divieto l’arcivescovo non poteva più privarle del conforto che la preghiera portava agli animi afflitti e dunque permise loro di ascoltare messa e andare nelle chiese più vicine trattenendosi solo il tempo necessario.
Intanto confraternite del Rosario e congregazioni di Maria, nella speranza che la preghiera potesse mitigare gli induriti cuori dei peccatori, scacciare il demonio ponendo fine al morbo, iniziarono a organizzare raduni di preghiera e processioni spontanee alle quali la gente disperata si accodava.
Dopo quasi un anno i morti non si contavano più, si portarono in processione pure le statue di San Rocco, San Sebastiano e le casse contenenti le reliquie di Santa Ninfa e Santa Oliva, sante palermitane, ma nemmeno questo placò l’ira divina che si era abbattuta su Palermo.
La Pasqua si avvicinò e la gente iniziò a sperare che la resurrezione di Cristo segnasse la fine del morbo. L’arcivescovo, negli anni precedenti aveva proclamato che per i giorni di giovedì e venerdì santo nessuno dovesse circolare con ruote e doveva esserci il massimo silenzio per rispetto di Gesù morto.
Ma il flagello che aveva colpito la città aveva fatto dimenticare tutto e nessuno si era preoccupato di controllare se i doveri della settimana santa venissero osservati.
Comunque, si fece una grandiosa processione lungo la via principale del Cassaro per rappresentare la passione di Nostro Signore Gesù. Molte delle autorità che normalmente seguivano con l’arcivescovo il carro con il Cristo morto e quello dell’Addolorata, si guardarono bene dal partecipare, atterriti da eventuali contatti con gli infetti che potevano intrufolarsi nella processione e contagiarli, convinti com’erano di essere più delicati e quindi più facili ad ammorbarsi rispetto al popolo reso più resistente da avversità e vita dura.
I bambini vestiti da angeli portavano i misteri, ed altri portavano nelle mani torce accese, le tuniche delle confraternite procedevano come se dentro non ci fosse nessuno; dietro, uomini che si battevano e si flagellavano ed altri in forma di varie penitenze. Il suono delle campane a morto scandivano le lamentazioni nel procedere lento del corteo funebre lungo il Cassaro.
Il popolo rozzo e disperato gridava “u risùscitu! u risùscitu!(3) forse senza rendersi conto che non era ancora il momento della Resurrezione di Cristo o, più probabilmente, sperando che l’anticipata chiamata di Cristo e della sua resurrezione affrettasse il salvamento della città dalla peste.
Nascosti nei vicoli, zingari e magare preparavano riti magici, amuleti, latte di Maria Vergine e unguento della Maddalena per proteggere dalla peste e persino il Clero chiudeva un occhio e tollerava l’esercizio di pratiche magiche che contribuivano, in qualche modo, a mantenere l’ordine pubblico.
Nel quartiere dell’Albergheria, il vicolo che poi chiamarono delle Fate, era continuamente popolato da signori e poveracci pronti a tutto pur di salvarsi dalla peste.
Le donne che popolavano il vicolo, che tutti chiamavano donne di fora(4), davano luogo anche a cerimoniali itineranti, come quello di Cathalina, un’anziana guaritrice che tutti conoscevano. Girava per le vie con ragazzi e ragazze, come se fosse stata un sacerdote in processione, portando in testa un velo bianco e sopra le spalle una stola di velluto rosso; camminava sotto un tappeto che quattro ragazzi portavano su palme come un baldacchino. Cathalina prendeva l’acqua dalla ciotola portata da una ragazza con la veste bianca e, recitando versi misteriosi, la gettava nelle case come se fosse stata acqua benedetta, gli abitanti del quartiere lasciavano la porta aperta aspettando il suo passaggio, convinti di restare immuni dal morbo.
L’estate del 1625 si aprì, invece, con strane voci di visioni e sogni di devoti che indicavano il luogo dove giacevano seppelliti i resti mai ritrovati di santa Rosalia, vissuta circa 500 anni prima a Palermo. Di lei si sapeva già quello che c’era da sapere: che, nonostante fosse una giovane bella e nobile, aveva abbandonato l’aristocratica dimora, aveva rinunciato a tutti i privilegi del suo rango e aveva deciso di vivere in povertà e solitudine per essere più vicina a Dio; che aveva scelto il monte Pellegrino come proprio eremo definitivo, dove, dopo la sua morte, le era, infatti, stata dedicata una cappella.
Dopo scavi e ricerche per il monte, nel luogo indicato dalle descrizioni delle apparizioni di Rosalia ai devoti, dentro una grotta furono trovate delle ossa incastonate in un involucro di roccia e la voce del ritrovamento risuonò come un segno divino in tutta la città esasperata e senza più speranza. L’arcivescovo si sentì in dovere di avviare le procedure per esaminare i resti e nominò una commissione scientifica che, dopo attento e approfondito studio, confermò che quelle erano proprio le spoglie della santa.
Rosa Lilium, Rosa senza spine, Salvatrice di Palermo.
I resti della santa furono portati in processione e la peste cessò. Il suono delle campane di tutte le chiese, gli spari di cannone e i giochi di fuoco notificarono al popolo che erano finalmente salvi.
Tuttavia, per la Chiesa non fu facile spiegare al popolo l’atto sovversivo di Rosalia, quello di fuggire dalla casa familiare, di andare contro la volontà paterna e di non rispettare la sua condizione di femmina ma l’entusiasmo era tale che ci si passò sopra. Rosalia detronizzò le quattro sante che fino a quel momento erano state le protettrici di Palermo, divenne unica patrona della città e per sempre la custode degli animi tormentati dei palermitani.
Nonostante il miracolo, in quell’ultimo rigurgito pestifero dell’epidemia la morte fu particolarmente avida; il vicolo delle fate una volta brulicante di gente in cerca della salvezza era ormai abitato da ratti, sporcizia e dalle poche donne di fora che erano rimaste vive. Molte si erano ammalate, forse perché sentendosi le eredi dirette delle donne medico dell’antichità si erano persuase di essere vaccinate o addirittura di essere immuni dal contagio. Invece la peste non aveva perdonato nessuno e i contatti anche fisici che avevano avuto con donne e uomini, molti dei quali certamente già infetti e la poca cura igienica che praticavano le aveva decimate.
Era morta Sophia e anche il suo bambino: era venuta a Palermo al seguito di un soldato spagnolo che l’aveva abbandonata appena saputo che era incinta. Solo le donne del vicolo l’avevano accolta e così anche lei si era data da fare. Era tra le poche che sapeva leggere e scrivere e si adoperava con le polizze che l’infermo era tenuto a portare costantemente con sé. Usavano fogli di pergamena o membrane disseccate che contenevano le formule mistiche e i nomi di spiriti e fate dai quali si cercava protezione.
Muore Antonina, che si diceva fosse la figlia naturale di un aristocratico che si era divertito con la madre fino a quando non si era stancato e l’aveva lasciata morire di stenti in un fondaco non lontano dal vicolo. Antonina cuoceva nel vino maggiorana, erba dell’Ascensione e Luminaris maioris per allontanare i demoni ma le piaceva troppo il vino e, senza pensare al contagio, si scolava il fondo di tutte le scodelle che dava da bere.
Muore pure l’anziana Cathalina che con il suo seguito di ragazzi aveva tessuto tutti i vicoli dell’Albergheria gettando l’acqua prodigiosa nelle case. Le persone uscivano in strada e l’abbracciavano credendola una santa purificatrice. Ma quegli abbracci si erano rivelati fatali.
Molte di quelle che erano finite nel vicolo erano donne che avevano amato e per questo erano state punite.
Molte di loro conoscevano le pratiche mediche terapeutiche e gli esorcismi ed erano scampate per miracolo all’Inquisizione ma non alla peste.
Tutte avevano lunghe storie da raccontare.
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