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Cagliari – Paris: come si lascia una vita

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Consegna prevista Aprile 2026
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Quando la vita ti scarica, tu cambia città!
Non è un mantra, è un piano d’emergenza. Così, da un cuore rotto e molto disordine, nasce un biglietto di sola andata per Parigi. “Cagliari – Paris” è il racconto non richiesto di un tentativo di rinascita, il racconto semiserio di un trasloco esistenziale: una relazione finita, una nuova città e una nuova vita tutta da inventare. È un diario intimo ma universale, fatto di sconfitte, incontri imprevisti, baguette, prosecco e momenti di grazia. Per chi ha ricominciato almeno una volta e per chi pensa di non poterne esserne in grado. Per chi vorrebbe ma ha troppa paura, e per chi il coraggio lo ha avuto ma ancora si guarda indietro.Per chi vive lontano da casa ma finalmente vicino a se stesso.
E per chi sa che a volte, per salvarsi, bisogna cambiare cielo.

Perché ho scritto questo libro?

Perché il mio trasferimento a Parigi è stata la mia grande rivoluzione. Se penso a quello che è successo prima, alle dinamiche con cui si sono svolte le cose, alle persone che ho incontrato a come io ho affrontato tutto questo caos, a quello che ero e a quello che sono. È stato il mio fuori programma più grande, e avevo bisogno di raccontarlo.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Attorno a me scatole. Scatole riempite, svuotate e riempite di nuovo. Sorrido istericamente e non so da dove cominciare, e penso a quante volte mi sono trovata a riempire scatole, e a quanto ogni trasloco abbia segnato l’inizio, o la fine, di una fase della mia vita. Ho l’impressione di aver passato una vita a riempire scatole, manco DHL.

Le prime riempite con la gioia e l’euforia di una vita nuova. Una casa nuova. Quel piccolo nido sotterraneo che mi sono sempre sforzata di rendere migliore. Quel nido che sapeva davvero di rifugio. Che sapeva di casa, di vera famiglia, la prima.
Quello stesso nido che sono arrivata ad odiare e che mi sono ritrovata a svuotare di tutte le mie cose, di tutte le nostre cose, di tutti i ricordi, di tutti i momenti, di tutte le promesse, e di tutti i progetti… o forse quelli no, quelli sono sempre rimasti li. Quando arrabbiata e delusa decisi di dimostrare che ero capace di smontare tutto quello che avevamo, o forse avevo, costruito.

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Scatole sempre troppo piccole per contenere tutto. Come si può far stare una vita dentro poche scatole, non saranno mai abbastanza, e allora ti ritrovi a spezzettare tutto in parti sempre più piccole e rimettere insieme i pezzi poi diventa sempre più complicato. Manca sempre qualche pezzo, quelli che ci sono sono rovinati, sbiaditi, rotti o con i bordi logori e non combaciano più nemmeno quando i pezzi sono quelli giusti, proprio come i pezzi di un puzzle vecchio e stravecchio che troppe volte hai finito, ma che ormai non sta più insieme manco con la colla e anche il disegno alla lunga pare cambiato.

Le scatole sono vuote ma manca sempre qualcosa, eppure li dentro non c’era davvero più nulla, e lo sapevo anche io.

Poi la prima nuova casa da sola. La prima tutta mia, la prima vera indipendenza, il dolore, la gioia, la soddisfazione, la forza. Quel vero primo rifugio personale, non condiviso. Quella prima vera conquista contro chi diceva che ero solo una sognatrice e che di sogni non si vive e che bisogna guardare in faccia la realtà.

E io l’ho pure guardata in faccia quella realtà, ma quando è successo mi sono resa conto che quella realtà non mi piaceva e non era più la mia. E’ vero, i sogni non bastano, non se sono solo i tuoi, ma almeno io quei sogni ho sempre cercato di difenderli, di proteggerli, perché servivano a tenere in piedi qualcosa che senza, probabilmente sarebbe morto molto prima. E infatti quando ho alzato la testa e mi sono guardata attorno, mi sono resa conto di essere sola, ancora una volta.
Quando io ho smesso di sognare quel mio castello di carte e sogni, è crollato, miseramente. Ero io che lo tenevo in piedi. Solo io.

“Ho trovato casa! Vado via domani. Robi e Albi mi aiuteranno col trasloco”
Silenzio.

Perché in fondo cosa c’è da dire? Cosa si può dire di più? Non doveva essere una fine, ma un nuovo inizio. E’ stato entrambi.

Sono rimasta ore seduta su quelle scatole che non avevo il coraggio di aprire. Seduta su quei ricordi, sulle macerie di una vita immaginaria che credevo di aver costruito insieme a chi non mi avrebbe abbandonato mai. Macerie. Pesanti da svuotare, impossibili da sistemare.

Foto. Foto da lasciare sul fondo. Foto di amici e nuovi pezzi di vita per colorare le pareti ,le giornate, per dimenticare, per andare avanti. Foto di chi davvero le mie mani non le ha lasciate mai.

“Dacci le chiavi di casa baby!!! Non vorremmo dover sfondare la porta e trovarti come Amy Whynouse”

“Grazie!! Grazie davvero per la fiducia, vi amo anche io!”
Ah gli amici… si, quelli che mi conoscono.

Un intero weekend passato a sistemare casa, a renderla mia, a coprire spazi e riempire armadi. Chiudere quel portone dopo aver salutato gli amici di sempre venuti ad aiutarmi e ad inaugurare questo nuovo grande pezzo di vita.

“Oh ma mangiamo? Siamo qui da stamattina eh!” “Dai volo in rosticceria!”

“Aspetta, vengo anche io!”

“Stai qui baby, pollo arrosto e prosecco per tutti!” “E le patate?”

“Niente patate baby, quelle non ci piacciono… Ho l’impressione che a tutti i presenti in questa stanza piaccia solo una cosa, e non è la patata!”

“Sei un coglione!”

“Si, ma sono il tuo coglione preferito e soprattutto l’unico che puoi mettere ai lavori forzati. Ciao bambina ciao”.

“Il pranzo è arrivato, genteeee!”

“Facciamo un brindisi, a voi! Grazie per avermi aiutata col trasloco, e soprattutto a sistemare tutto questo grande casino”

“No, no baby! Il brindisi lo facciamo a te … Che sia davvero un grande nuovo inizio, come lo desideri e come sempre lo hai desiderato!”

“Magari con meno alcool!!!!”

“No, baby! Adesso va bene essere ottimisti, però dai… Ti conosciamo”. Ecco, appunto.

Voltarmi indietro e restare inebetita a guardare quegli spazi nuovi che non sentivo miei, non ancora, quel senso di estraneità, la sensazione di essere in una specie di mondo parallelo. La sensazione di essere ospite a casa mia e la convinzione che tutto fosse temporaneo, che tutto si stesse svolgendo in un ritaglio di tempo preciso, determinato, di cui conoscevo l’inizio ma non la fine, ma sapevo che sarebbe arrivata. Sapevo che prima o poi sarei tornata “a casa”, l’altra casa. Ci credevo, insomma.

Sorrido al ricordo, sembra passata una vita e forse lo è. Ma era una vita diversa, era una vita che ora non mi riguarda più, ma che mi ha portato dove sono ora.
Fuori c’è ancora il sole… non ho nessuna intenzione di svuotare tutto ora. Mi serve tempo. Ho, come sempre, e forse più di sempre, bisogno di tempo.

“Amica sono arrivata! Sono a casa!”

(…)

Barbes, Interno 2.

Due algerini discutono animatamente per qualche grammo in meno, uno tira fuori un coltello, l’altro spacca una bottiglia di birra raccolta da terra, un bambino strilla e piange, sua madre ancora non è rincasata. La puzza di piscio sale su per le scale e si dionde per tutto il palazzo.

“Che puzza, non si respira”.

Sale le scale di corsa, è sempre impaziente di chiudersi la porta alle spalle, pensa così di poter essere al sicuro, ma in realtà non ne è nemmeno poi così sicura. Accende la luce e quella maledetta lampadina a neon ancora non funziona, lampeggia come l’insegna di uno dei bar notturni della zona. Il divano-letto molto divano e troppo poco letto visto che non si apre, il meccanismo si è inceppato e nonostante le promesse, il padrone di casa non è mai venuto a sostituirlo, così lei ha preso l’abitudine di dormire sul divano. Un fornello di fronte e una poltrona-armadio nell’angolo, con tutta la sua roba sopra. Una doccia con il sifone sul cesso dove entrare sempre e comunque con le ciabattine, anche se è casa tua, che poi “casa”, chiamare casa nove metri quadri è un pò ridicolo, ma anche chiamarla “studio” come dicono qui, non è poi meglio. Nove metri quadri, non sono sucienti ne a respirare, ne a mangiare, ne a vivere. Apre la finestra che da su un minuscolo balconcino con vista sui tetti di Parigi e sul Sacro Cuore. Sul balconcino di fianco alla finestra una scaletta in ferro che porta sul tetto. La scaletta dei giorni di fuga, quelli dove ha bisogno di sentirsi lontana, di sentirsi altrove, lei così innamorata di questa città che sognava di viverci fin da bambina, ora da quella stessa città si sente invece tradita e emarginata. Apre la finestra ed esce fuori a fumare, una, due … tre sigarette di fila, ogni tiro è come un morso a un hamburger gigante, chiude gli occhi e quasi sente il sapore della carne poco cotta e “crostillante” come dicono i francesi, la mostarda piccante sopra, le patatine fritte imbevute nella salsa barbecue, un altro tiro, sale su per la scaletta senza mai guardare giù e si sdraia sul tetto a guardare il cielo, sembra chiaro, pulito, si intravedono le stelle. Il bambino della ragazza del terzo piano non ha smesso un secondo di piangere, mentre i due che fino a poco fa minacciavano di uccidersi l’un l’altro, sono strafatti e bevono insieme davanti all’ingresso.

“Bah e anche stasera non è morto nessuno, meno male”.

Sta li a pancia in su a fissare il cielo a disegnare cerchi col fumo e a immaginarsi diversa, in un’altra vita, quella che aveva sempre sognato di avere, lei che sognava il principe azzurro e molti bambini, almeno quattro, ora vorrebbe invece essere lei una bambina. La principessa del suo papà e della sua mamma, coccolata, viziata, amata. La sua voglia di indipendenza l’aveva portata lontano da casa molto presto senza perdere mai i contatti con la sua famiglia per lei così fondamentale. Aveva viaggiato ovunque e lavorato pure, aveva studiato e aveva amato, moltissimo.

Tenerife, Tunisi, Sidney, Creta, Londra e Parigi. Aveva lasciato per ultima la sua città preferita, lo aveva deciso con minuzia. Parigi era la città dei sogni, l’ultimo porto in cui approdare e restare. La città che visitò per la prima volta con i suoi genitori quando era ancora piccola, innamorandosene perdutamente, quando ancora tutto era bello, tutto funzionava, quando ancora i suoi genitori erano in vita. Scomparsi pochi mesi prima del suo arrivo a Parigi in un tragico incidente stradale, proprio mentre trasportavano i cartoni del trasloco della loro piccola bimba adorata ormai cresciuta, che realizzava il sogno di trasferirsi nella città dei suoi sogni. Un senso di colpa che non l’aveva mai abbandonata, una città che aveva preso a detestare ma da cui non riusciva più a partire, l’orgoglio di volercela fare da sola. “Non posso scappare, non devo. Tanto ogni città vale l’altra visto che loro non ci sono più”, se l’era ripetuto tante di quelle volte e se lo ripeteva anche ora mentre stesa sul tetto lasciava scendere le lacrime e si abbracciava le ginocchia stringendole forte al petto.

“Questa città è in debito con me. Mi deve qualcosa, deve pagare per ciò che mi ha tolto. Porca puttana”.

Sono le due del mattino, fuori si gela e anche la città pare essersi addormentata.

(…)

Le valigie sono pronte. Averci messo dentro i costumi mi fa abbastanza strano, anche perché se guardo fuori ora, piove, ed è il 24 luglio. Ore di sonno alle spalle troppo poche, reduci da un concerto rock di una band tedesca di cui ignoravo l’esistenza.

Ennesimo controllo presa dall’ansia di aver dimenticato qualcosa. Documenti, ennesimo check.

Valige, centesimo check, e la noncuranza che tanto poco importa se avrò dimenticato qualcosa, perché sto tornando a casa e li troverò tutto quello che mi serve.

A casa.

Nella mia bella isola, dalle mie persone, quelle che ho lasciato quasi senza preavviso, un anno fa. Tornare a casa per la prima volta dopo quel lungo blackout. Rivedere tutti, ritrovare tutti. Luoghi, piazze, amici, spiagge, colori e sole. Non riesco nemmeno a capire davvero come mi sento, la sensazione è strana e le emozioni troppe. Si alternano, si susseguono senza un vero ordine. L’impazienza di tornare e la paura di trovare tutto cambiato, tutto diverso, il terrore quasi di aver perso il mio posto, o almeno quello che prima di atterrare a Parigi un anno fa, era il mio posto sicuro. Perdere la certezza che ovunque sarei andata e a prescindere da quanto tempo fossi rimasta via, quel posto sarebbe stato sempre riservato a me, con lo stesso amore, la stessa cura, la stessa importanza. Certezza che mi appare svanita e che mi spaventa da morire.

Il viaggio che mi separa da casa sembra interminabile, un’ora e mezza di bus più le due ore e un quarto di volo, le più lunghe della storia.

Guillaume continua a chiedermi come sto, come mi sento, se sono felice, ma la realtà è che davvero non so cosa rispondere. Sono felice, si, ma so che sarà duro, durissimo il “dopo”, so bene anche questo. Posto finestrino, come sempre. Per tutta la durata del volo guardo fuori e una valanga di pensieri diversi sgomitano nella mia testa. L’hostess passa con le solite proposte di cibi e bevande e io vorrei scolarmi un bel Prosecco, e ripenso alla prima volta che sono andata a Parigi per incontrare lo stesso ragazzo che ora sta seduto al mio fianco, quando sola soletta ho ordinato un prosecco sul volo, coinvolgendo in un aperitivo ad alta quota il ragazzo sconosciuto a fianco a me e la nonnina che andava a trovare sua figlia.

Eccola, appare con la sua forma inconfondibile, eccola la con la sua piccola isoletta all’estremità che sembra quasi tenere per mano. Ecco il mio blu, il mio turchese e l’ azzurro dell’acqua, il verde mischiato al giallo aspro e secco delle distese di grano sulle campagne, ecco le strade piccole, discrete, piccoli corsi che si incrociano senza mai occupare troppo spazio, piccola rete d’asfalto che non ruba mai troppo spazio alla natura, agli spazi a cielo aperto immolati al nulla, al vuoto. Case, casette, case con giardini che fanno da cinta a piccoli quartieri residenziali dove bimbi urlanti fin dal pomeriggio girano in bicicletta inseguiti dalle loro madri o nonne che imprecano chiedendo loro di rientrare per cena. Nonne con ancora le mani sporche di farina, di pane, grembiuli lerci di cose buone da mangiare, cucine che odorano di sugo con i mestoli appesi al camino e i taglieri di sugherò impilati di fianco. Finestre aperte e persiane socchiuse, perché a Luglio in Sardegna fa caldo, ma l’aria va lasciata entrare i raggi diretti del sole no, e allora eccoli che giocano a nascondersi tra i listelli di legno delle persiane consumate dall’aria torrida e salmastra. Pascoli interi con bestie che passeggiano e gustano la buona erba fresca, riflesso di una calma insita di un popolo che lavora stanco, che vive di agricoltura, di bestiame, di artigianato e di storia, di tradizione, di vita vissuta tra le mani sporche. Latte, gelsomini in fiore, mani e vestiti che odorano di formaggio. Terra lontana dai grandi colossi industriali, dagli immensi e altissimi palazzi che coprono il cielo. Tanta storia e tanto passato ma un futuro incerto, così come il presente.

Eccolo la poi il porto, con le sue navi pronte a regalare ricordi indelebili e panorami mozzafiato ai viaggiatori in partenza per qualche crociera. Il porto e la sua lunga passeggiata, i moli, i bar d’estate, il centro storico che si riversa sul letto dove riposano le barche a vela più eleganti. Il gelato mangiato di fretta per paura che coli mentre resti incantata a guardare il sole che fa capolino sul mare e sembra sprofondarci dentro, mischiando i suoi colori a quelli dell’acqua, lasciando andare il suo riflesso, come la tempera che cola sulla tela di un pittore, che cadendo densa, si disperde. Il porto di Cagliari, li dove ho salutato Alessia e Chiara l’ultima volta prima di partire.

Eccola, quella lacrima che temevo arrivasse o forse che peggio, temevo non arrivasse.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Nicoletta Carta
Mi chiamo Nicoletta, sono nata a Cagliari e ho (ahimè) 36 anni. Ho dedicato gran parte della mia vita alla mia passione più grande, la ginnastica ritmica, facendola diventare anche il mio lavoro e realizzando il sogno di aprire la mia società sportiva a cui ho dato il nome che sognavo fin da bambina: ARMONYA. Sono laureata in legge (lungo percorso a ostacoli) e adoro il mare e il sole della mia bellissima terra. Tre anni fa mi sono trasferita a Parigi, qualcuno direbbe per amore, io preferisco dire che in realtà sono partita per cercare me stessa. Sentivo di aver dato tutto ciò che potevo e di aver ricevuto altrettanto, sapevo che non poteva esserci niente di più di quello che già avevo avuto la fortuna di avere. Io però volevo di più e così la decisione di partire, non ponderata, non programmata. Con questa decisione folle è tornata poi la voglia di scrivere ed eccomi qui.
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