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L’ombra del lupo

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Nel cuore selvaggio della Val Sesia, la quiete di un piccolo paese di montagna viene scossa da una serie di eventi inquietanti. L’arrivo dei lupi, tornati a popolare boschi e pascoli, riaccende antiche paure e mette in allarme gli allevatori locali, sempre più preoccupati per la sicurezza dei propri animali e della comunità.
Quando un acceso incontro con un’associazione animalista degenera in una violenta rissa, le tensioni esplodono, dividendo il paese tra chi vuole proteggere la fauna selvatica e chi pretende giustizia e protezione. Ma il vero terrore deve ancora manifestarsi.
Una sequenza di morti misteriose e brutali, accomunate da dettagli raccapriccianti, getta un’ombra lunga e sinistra sulla valle. I sospetti ricadono immediatamente sui lupi… ma qualcosa non torna e sarà troppo tardi quando il destino insegnerà che il pericolo più grande si nasconde dietro ciò che crediamo di conoscere.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto “L’ombra del lupo” per raccontare come la paura possa deformare la verità.
Volevo esplorare una comunità che, di fronte all’orrore, cerca un colpevole comodo: il lupo. Mi piace pensare che il lettore possa interpretare questo romanzo anche come una metafora della realtà in cui viviamo: si grida al lupo, ci si volta tutti dalla stessa parte, mentre il vero male agisce silenzioso, alle nostre spalle.

ANTEPRIMA NON EDITATA

I

I gradini in pietra erano ancora macchiati di sangue quando le prime luci del giorno iniziavano a illuminare la severa facciata di Villa Lancia, elegante sede del comune di Fobello.

L’osteria “I Viandanti”, come ogni giorno, apriva le sue porte all’alba per accogliere coloro che approfittavano di una pausa caffè per fare due chiacchiere prima di dirigersi a lavorare in fondo valle. Tuttavia, nel corso degli anni erano sempre meno le persone che continuavano a percorrere quel lungo tratto di strada, tra un paese con un passato di gloria e una valle che aveva poco da offrire. Quella mattina, però, i clienti abituali dell’osteria erano più ciarlieri del solito, non facevano che parlare animatamente dell’incontro patrocinato dal comune e avvenuto proprio a Villa Lancia.

Nel momento in cui il sontuoso campanile della collegiata di S. Gaudenzio a Varallo, centro urbano di riferimento del fondovalle rintoccò dieci colpi, Aronne Bernascone, sindaco di Fobello, sedeva nervosamente nella guardiola della caserma dei carabinieri in attesa di essere ricevuto dal comandante per esporre la propria versione dei fatti avvenuti la sera prima.

Il sindaco continuava a rigirarsi sull’unica sedia e di tanto in tanto osservava il cellulare per poi tornare a cercare una posizione più comoda sulla seggiola di legno.

Aveva da poco superato i cinquantacinque anni e, sebbene il volto presentasse più d’una ruga e il suo abbigliamento non fosse all’ultima moda, l’atteggiamento fiero e altero dava l’impressione di un carattere con forte personalità.

Anche quel giorno aveva indossato il solito completo a coste marrone.

Guardò per l’ennesima volta l’orologio e sbuffò. Era un’ora che attendeva e la sua pazienza si era esaurita da un pezzo. Aronne non amava le sale d’attesa, men che meno fare anticamera. Quando fu sul punto di sbottare, arrivò il piantone che con aria mortificata lo fissò per qualche secondo come a dover trovare il coraggio per aprir bocca e disse: «Signor sindaco sono spiacente, ma il comandante non riuscirà a riceverla in giornata.»

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«Aspetto da un’eternità!» proruppe il sindaco. «Vi pare che abbia tempo da perdere?»

Il carabiniere scambiò uno sguardo imbarazzato con il collega. «Ci dispiace ma il comandante ha avuto un imprevisto.» riuscì a balbettare l’appuntato.

L’intemperanza di Aronne non risparmiò il povero sottoposto, che non aveva alcuna responsabilità per l’assenza del suo superiore. Fu necessario l’intervento del secondo agente che con modi poco ortodossi, riuscì a placare l’animosità del sindaco ormai sfiancato da una nottataccia infinita.

I due carabinieri dovettero incassare però gli insulti del primo cittadino secondo cui, in quanto meridionali, erano predisposti ad una incapacità totale nello svolgere la loro pubblica funzione.

     Aronne aveva pensato di presentarsi in caserma per chiarire le dinamiche dello scontro avvenuto a Villa Lancia così da archiviare al più presto quel brutto episodio, invece aveva solamente perso del tempo. Frustrato, fece ritorno al paese ripercorrendo i venti chilometri di curve che lo separavano dalla sua destinazione. Durante il tragitto l’aria fresca e il paesaggio circostante lo aiutarono a stemperare

la rabbia e a organizzare le idee sugli innumerevoli impegni che lo attendevano.

Giunto in prossimità del centro abitato riuscì anche a sorridere compiaciuto nel vedere il nuovo cartellone pubblicitario che dava il benvenuto a tutti i passanti da parte de La Gerla, l’agriturismo di famiglia che conduceva con la moglie Vivienne.

La vecchia panda bianca con la scritta “Comune di Fobello” parcheggiò, con un leggero stridore di cinghie, tra il palazzo comunale e l’osteria che generalmente in tarda mattinata era frequentata dagli anziani del paese e da qualche perditempo pronto a farsi offrire un bicchiere di vino bianco e qualche arachide rafferma, ma sempre gradita.

Gilberto, il vivace gestore, era entusiasta quel giovedì mattina perché a differenza del solito aveva avuto parecchi clienti.

Aronne Bernascone, per dovere di primo cittadino o forse perché si sentiva fortemente legato alle persone con cui aveva condiviso i suoi cinquantacinque anni di vita, non riuscì a esimersi dall’ entrare nel bar dove lo avrebbe atteso una raffica di domande su quanto successo la sera precedente. Con sua grande sorpresa quando varcò la soglia del locale, notò la presenza del fotografo del giornale provinciale e di un paio di uomini distinti dall’abbigliamento impeccabile.

La curiosità prese il sopravvento in Aronne, lasciandolo ad interrogarsi sul motivo della loro presenza nel suo piccolo paese di montagna.

Dopo pochi secondi, si fece avanti Agostino Ramballi, il fotografo del quotidiano “La voce della valle” che chiese con gentilezza il permesso di scattare un paio di foto al primo cittadino. Con un sorriso preconfezionato Aronne si mise in posa per un primo piano. In quel momento guardando dentro l’occhio nero della Nikon, percepì un brivido percorrergli tutto il corpo. Quella macchina fotografica aveva immortalato incidenti, calamità e drammi famigliari, sofferenze e luoghi di dolore che segnavano, indelebilmente, la vita di coloro che ne erano stati coinvolti. Era un po’ come se dietro quella lente si celasse un oscuro archivio di tristezza.     

Agostino Ramballi era visto con disprezzo in paese, anche se nessuno esprimeva così apertamente il suo risentimento, perché farlo avrebbe significato rievocare un dramma che aveva colpito la comunità nel lontano giugno del 1989 quando, alla sua prima esperienze, venne incaricato di documentare la tragica morte di una bambina. Che fosse per inesperienza o per un macabro gusto di sbattere i dettagli di quel corpicino martoriato in prima pagina, poco importava; l’intero paese aveva pianto per la vittima e odiato Ramballi.

Gli scatti impegnarono Aronne solo pochi attimi dopodiché il fotografo venne congedato con garbo. Così gli “stranieri” ben vestiti ebbero campo libero e il più anziano dei due si rivolse al sindaco:

«Possiamo farle qualche domanda?» L’uomo si presentò come l’inviato di Rai Uno, incaricato di realizzare un servizio giornalistico destinato al programma di punta della fascia pomeridiana.

Da quel momento in poi il silenzio nel bar fu totale, tanto da far credere che anche il motore del vecchio freezer dei gelati si fosse ammutolito per ascoltare le loro parole. Aronne, ancora sorpreso, fu colto da un misto di entusiasmo e cautela, magnetizzato dalla piccola telecamera che lo stava riprendendo. L’ego lo proiettava in un futuro di fama e popolarità e la prospettiva di vedere il suo volto sullo schermo lo riempiva di orgoglio.

Il led rosso si accese sul fronte della telecamera:

«Signor Sindaco la vostra piccola comunità sta vivendo un momento difficile, sono trascorsi solo dieci giorni del macabro ritrovamento dei coniugi Filippetti e poche ore fa le forze dell’ordine hanno dovuto sedare la violenta rissa avvenuta nel cuore amministrativo del paese.»

Aronne soppesando con attenzione le parole rispose: «La paura cresce nell’animo umano nello stesso modo, siano essi gente di montagna che di pianura, la differenza è la maschera indossata dalla minaccia. Con molta probabilità voi temete di cadere vittime di rapinatori noi invece oggi siamo spaventati dalla possibilità di diventare le prede di un branco di lupi.»

Sempre più incalzante il giornalista chiese: «Attribuite allora con certezza l’uccisione dei Filippetti nel loro cortile ad un attacco di un lupo?»

«Le informazioni in nostro possesso ci conducono a credere in questa ipotesi. È per questo motivo che ho invitato un importante etologo con l’obiettivo di fornirci indicazioni utili ai comportamenti che dovremo imparare ad avere con i nostri nuovi coinquilini.»

Tutto andava per il verso giusto fino a quando il cronista con tono beffardo insinuò che fosse premeditazione magari a scopo pubblicitario, invitare a Villa Lancia oltre ai paesani e agli allevatori i rappresentanti di una delle più agguerrite organizzazioni animaliste.

E con una certa insolenza sentenziò: «E’ ingenuo credere in un punto d’accordo tra visioni così opposte, anzi era scontato che gli animi si accendessero per degenerare in rissa.»

Per un attimo Aronne non credette alle sue orecchie; l’affermazione così esplicita gli risuonò come una diretta e offensiva provocazione. L’animo di montanaro gli fece stringere i pugni pronto ad attaccare prendendo per la collottola il giornalista; fortunatamente i sette anni di attività comunale gli avevano insegnato a incassare le provocazioni riuscendo persino con una buona dialettica, a sfruttarle a proprio vantaggio. In quell’istante il suo cellulare iniziò a squillare, e quella breve interruzione gli permise di riprendere il controllo della situazione.

Scusandosi, lo silenziò mentre distrattamente lesse il nome di chi lo stava cercando.

«Certo…c’erano dei rischi, infatti le forze dell’ordine erano presenti e hanno evitato conseguenze peggiori. Ma in qualità di primo cittadino il mio dovere è quello di fare il massimo per risolvere un problema e la mia gente necessita di sicurezza anche se comprendo il diritto per il lupo di trovare spazio nei nostri territori.»

Il telefono squillava ancora, era sempre lo stesso numero, quello della banca. Aronne sapeva perfettamente il motivo della chiamata e che avrebbe dovuto assolutamente rispondere ma il contesto non lo permetteva. Strinse la mandibola nervosamente e lo silenziò per la seconda volta. L’intervista riprese, ma chiaramente l’ultima affermazione aveva segnato il punto a favore per il sindaco e le ultime domande vennero poste più per giustificare la trasferta dei due professionisti che per utilità all’inchiesta. Ancora gli squilli interruppero il momento, questa volta, però sullo schermo apparve il viso solare di Vivienne.

«Scusate ancora!» disse e rispose alla chiamata «Amore sono impegnato con un’intervista per la Rai, non ti preoccupare ho visto le chiamate di Enzo, tra due minuti quando avrò finito lo richiamerò, ciao a dopo.»

L’inviato recepì il messaggio che il tempo a sua disposizione era terminato e concluse la conversazione ringraziando per la cortesia.

Nessuno al bar aveva più domande da fare, anche perché il giornalista era stato in grado di formularne parecchie e anche più esaustive delle loro. L’attenzione di tutti era ora indirizzata alla telecamera dell’operatore che raccoglieva alcune immagini del locale al fine di utilizzarle nel montaggio del servizio televisivo e tutti, come goffe caricature di attori hollywoodiani, cercavano di mettere in evidenza il loro profilo migliore.    

II

La storica azienda agricola Rossi distava poche centinaia di metri in linea d’aria dal centro del paese, ma per raggiungerla era necessario superare l’abitato e imboccare la prima via dopo la Cappelletta votiva dedicata alla Madonna del latte. Un breve tratto sterrato e ciottoloso, ombreggiato da castagni secolari e noccioli selvatici, conduceva a una radura delimitata da un vecchio steccato.

Per accedere alla proprietà bisognava oltrepassare un vecchio ponte di pietra, eretto sull’alveo del torrente Rio Secco che, con le sue acque cristalline, tagliava a metà poche decine di metri più a valle il paese cresciuto lungo le sue sponde. All’estremità meridionale della piana, dove il sole arriva anche nelle corte giornate d’inverno, si erge la casa padronale a due piani imponente e solida con gli spigoli delimitati da grosse pietre incastrate una sull’ altra. I muri intonacati e tinti di un tenue color rosa ormai sbiadito sono puntinati da macchie di cemento, testimoni di vecchi lavori di manutenzione mai realmente ultimati.

Al primo piano Antonietta Marangoni stava già ripulendo la cucina, mentre Tommaso Rossi, il suo compagno, era ancora sotto la doccia facendo così raffreddare il piatto di pasta che aspettava di essere consumato velocemente dato che da lì a poco avrebbe avuto inizio la riunione a Villa Lancia alla quale entrambi non potevano mancare. Era la normale routine che scandiva la vita quotidiana della coppia all’interno della quale spesso era difficile per entrambi riuscire a trovare attimi di tempo libero, in quanto i ritmi regolari del lavoro che lei ricopriva come impiegata comunale si contrapponevano all’attività di Tommaso, allevatore costantemente occupato nell’inseguire le incombenze della fattoria di famiglia senza avere mai orari.

«Sono preoccupato, la fienagione è stata scarsa e temo di non avere sufficienti scorte per superare l’inverno» disse Tommaso con ancora i capelli bagnati mentre si sedeva a tavola.

Ultimamente il suo lavoro si era fatto più difficile, le vacche erano sane e produttive, ma il futuro per l’allevamento di montagna era carico di incognite: i costi di produzione erano a livelli insostenibili, il periodo di siccità aveva compromesso la fienagione ma era soprattutto la paura di perdere i vitelli a causa dell’attacco dei lupi che ossessionava chi da quell’attività traeva il sostentamento della propria famiglia.

Antonietta annuì e sedette di fronte a lui rigirando tra le mani il panno con cui stava asciugando le stoviglie: «Da quando ti conosco hai sempre dovuto affrontare problemi importanti. Una volta il tetto da rifare, un’altra il trattore che ti lascia in panne, sarai capace di superare anche questa come hai saputo fare con tutte le altre»

Tommaso tacque per qualche secondo, poi si alzò di scatto dalla sedia per baciarla in fronte. Antonietta era sempre stata pronta a sostenerlo, e la certezza del suo supporto lo aveva aiutato ad affrontare ogni difficoltà. Questo atteggiamento amorevole non era per nulla cambiato col passare degli anni fin da quando, poco più che bambini, i loro destini si erano incrociati.

Erano cresciuti giocando insieme, Tommaso aveva un anno in più di Antonietta e si potevano definire come il sole e la luna, per le grandi differenze che li caratterizzavano. La sua corporatura era sempre stata un punto di forza, il suo metro e novanta per cento e più chili di muscoli gli avevano sempre permesso di primeggiare a livello sportivo.

Nei tornei di calcio era sempre l’attaccante più ambito, e a sedici anni quando intraprese l’attività sciistica agonistica venne notato per le abilità tecniche; innumerevoli furono le vittorie collezionate al punto da competere in gare nazionali e non solo. A vent’ anni quando ricevette la proposta di entrare nel Corpo della Guardia di Finanza, con la prospettiva di poter esercitare l’attività sportiva da professionista, accettò senza un attimo di esitazione. Ma poco meno di un anno più tardi abbandonò del tutto il mondo dello sport e la possibilità di una promettente carriera, per dedicarsi agli affari di famiglia. Solo il padre aveva appoggiato questa scelta; gli altri, invece, gli avevano prospettato solo grandi fatiche e magri guadagni, ma lui ormai aveva fatto la sua scelta. E il motivo scatenante non era stato soltanto il poter stare a contatto con la natura o le bestie, quanto il fatto che questo mondo era l’unico che potesse comprendere anche Antonietta.

«Dai sbrighiamoci, la camicia e i jeans sono sul letto. Ti preparo il caffè. La riunione inizia tra dieci minuti.!»

Antonietta fremeva spazientita, mentre attendeva che si infilasse le scarpe sulla porta. Prima di incamminarsi bussarono alla finestra del piano terra, dove vivevano i genitori di Tommaso, che generalmente a quell’ora erano ancora seduti a tavola dopo la lunga giornata spesa in stalla. Ma quella sera la tavola era già stata sparecchiata e Severina, una donna minuta, era intenta a sistemare il nodo della cravatta al marito che indossava l’abito della festa.

«Papà dove credi di andare? Non ci hanno mica invitati ad un matrimonio!.» esclamò Tommaso aprendo la porta che dava sulla cucina.

«Pietro guardi la controllerò tutta sera… Severina stia tranquilla non permetterò a nessuna di avvicinarsi al suo bel giovanotto!»

Il viso severo di Pietro, tutte le volte che riceveva un complimento dalla nuora perdeva la sua grinta e una sfumatura rosea gli colorava le guance. Antonietta si divertiva nel provocare quel tenero imbarazzo capace di scalfire la dura corazza di quell’ uomo di altri tempi.

«Füma prest! Pasuma dal sentie drera la gesa così saremo più veloci.» per quanto Pietro si sforzasse gli era difficile nascondere il disagio, tanto quanto pronunciare un’intera frase in italiano senza utilizzare il dialetto.

In pochi minuti si trovarono sul piazzale gremito di persone antistante Villa Lancia, e subito si percepì qualcosa di strano nell’aria: troppa tensione e troppo silenzio. Osservando il parcheggio con tutte le auto ordinatamente disposte una accanto all’altra, era palese la contrapposizione dei due mondi così differenti che in quella sera si erano dati appuntamento, e per quanto si sforzassero di non esserlo, rimanevano totalmente incompatibili tra loro. Da una parte erano parcheggiate moderne automobili green provenienti dalla città e dall’altra vecchie utilitarie infangate o arrugginiti Pick up con i cassoni posteriori caricati degli attrezzi della vita contadina.

Il sindaco, aveva organizzato un incontro per fornire alcune risposte alle tante domande e paure che crescevano di giorno in giorno dopo l’aggressione dei coniugi Filippetti; lo scopo era quello di placare gli animi e aprire un dialogo costruttivo con le istituzioni sulle regole di convivenza con il nuovo ospite che si era insidiato in quel territorio. L’argomento principe verteva sull’ adozione di comportamenti in grado di scongiurare il rischio determinato dall’arrivo in valle di un branco di lupi giunto dall’est Europa.

Inizialmente questa ricolonizzazione era stata accettata senza troppe difficoltà quasi come una nota di folklore, poi però con il trascorrere del tempo e soprattutto con il susseguirsi di predazioni la loro presenza iniziò a diventare un grosso ostacolo per lo svolgimento delle attività legate alla pastorizia.

Alle 21 in punto Aronne invitò tutti i partecipanti a prendere posto per l’inizio del dibattito nella sala consigliare, erano stati messi a disposizione più di sessanta posti a sedere che però risultarono insufficienti per l’inaspettata affluenza di partecipanti.

Aronne Bernasconi prese la parola, fece i soliti ringraziamenti di rito, e presentò l’illustre ospite che aveva accettato l’invito della comunità. Alberto Boniperti, etologo specializzato in equilibri della fauna montana e in economia del territorio iniziò a esporre le sue ricerche ad una sala silenziosa e attenta, anche se era palpabile una certa tensione. Qualche brusio di dissenso disturbò l’intervento nel momento in cui si affrontarono le dinamiche di predazione a discapito degli animali al pascolo, ma venne subito placato dalla tesi secondo cui i danni causati dai lupi dovevano essere indennizzati agli allevatori dallo Stato in qualità di garante. Il Dott. Boniperti fece riferimento anche alla coppia di anziani trovata morta nel loro cortile al limitare del centro abitato; sostenne che anche l’uomo per la propria incolumità avrebbe dovuto modificare le proprie abitudini affinché queste tragedie non si ripetessero.

Una voce borbottò qualcosa di incomprensibile nella sala silenziosa.

Il relatore si interruppe e chiese di ripetere.

Pietro si alzò in piedi e con tutti gli occhi puntati addosso con voce ferma sentenziò:

«Dutur al sa che al luf al mangia no i pulastar?»                           

Il riferimento di Pietro era legato a un particolare emerso dal ritrovamento dei suoi compaesani tragicamente scomparsi, a fianco dei loro corpi trovati con le gole dilaniate, c’erano anche le galline scappate dal pollaio alcune decapitate e altre con piccole lesioni nella parte posteriore del collo sufficienti a ucciderle.

Alberto Boniperti capì che in quelle parole non ci fosse l’intento di provocarlo, ma che si trattasse del modo un po’ rude e diretto di esprimersi utilizzato da persone poco inclini al confronto. In questo caso l’intervento di Pietro aveva la volontà di far sorgere il dubbio che a causare quel massacro non fossero stati i lupi.

Prima che potesse dare un’opinione sull’accaduto, dal fondo della sala qualcuno urlò che tutti i lupi comunque dovevano essere sterminati.

In pochi secondi tutta la tensione accumulata si scaricò come il boato di un tuono, tanto che la sala consigliare assunse le sembianze di un’aula di tribunale, in cui le parti in causa si attribuivano accuse reciproche. Il primo cittadino urlava e batteva i pugni sul tavolo per placare gli animi, ma nessuno lo considerava più.  I partecipanti più tranquilli, forse perché meno coinvolti, si spostarono vicino alle pareti osservando anche un po’ divertiti quella baraonda. Rimanevano al centro del grande salone ottocentesco i più esagitati e tra loro, dalla parte degli allevatori che appoggiavano la tesi di colpevolezza dei lupi per l’aggressione ai coniugi, c’era un uomo che non faceva parte della comunità ma che qualcuno aveva avuto modo di conoscere mentre era alla ricerca di un lavoro.

Come in una partita di calcio, era facile intuire chi stava con gli allevatori e chi con gli animalisti, le fazioni rivali non indossavano maglie differenti, ma erano le calzature a tradire il loro gruppo di appartenenza; pesanti scarponi da montagna contrapposti a colorate sneakers sportive.

Si iniziò dapprima con lo scambio di accuse che passavano dal disboscamento al surriscaldamento globale, chiamando in causa terremoti, migranti e navi da crociera; in ordine sparso senza alcun filo logico. Fin qui ancora solo urla, ma quando gli insulti iniziarono ad essere diretti alle rispettive madri e sorelle cominciarono a volare anche sonori ceffoni.

Complice qualche bicchiere di troppo bevuto prima dell’inizio della riunione, la rissa proseguì all’esterno sulla gradinata della villa.

A questo punto la situazione aveva superato il limite, ci volle l’intervento delle forze dell’ordine affinché non degenerasse ulteriormente. Fortunatamente i più moderati da ambo le parti si impegnarono a trattenere i compagni che avevano perso il lume della ragione. Tommaso, che inizialmente si era lasciato coinvolgere nel diverbio, era stato poi capace di mantenersi calmo e alla fine il suo intervento fu risolutivo nel fermare l’ultima scazzottata.

Rincasando, il turbamento per il degradante epilogo dell’incontro aveva lasciato parecchia amarezza e aveva fatto calare un silenzio innaturale. Antonietta ancora colpita della violenza con cui ogni parte in causa portava avanti le proprie convinzioni e Tommaso rammaricato perché nulla era stato proposto per dare sicurezze agli animali al pascolo. Era però l’animo di Pietro a essere maggiormente avvilito; per una vita intera si era sacrificato in stalla affinché i suoi animali potessero mantenersi in salute, privandosi di tutte le libertà che la maggior parte dei suoi conoscenti avevano potuto permettersi. Questa sera invece la sua categoria, che non richiedeva certo di essere elogiata, era stata accusata da una società che non conosce neppure lontanamente cosa significhi lavorare con la natura, di essere la responsabile della crisi che il clima con tutto ciò che ne consegue stava affrontando.

Arrivati davanti a casa Tommaso congedò il padre e baciò con dolcezza Antonietta. Il lavoro in stalla non era ancora terminato, era necessario un ultimo controllo alle vacche gravide, e solo dopo ci sarebbe stato il tempo per godersi il meritato riposo.

La campana rintoccò la mezzanotte quando le luci si spensero lasciando spazio solo ai respiri profondi che risuonavano placidi tra gli stabuli, poche ore di sonno separavano il giorno che stava terminando dalle nuove fatiche che attendevano la famiglia Rossi ancor prima del sorgere del sole.

Tommaso, salendo le scale che lo conducevano alla sua abitazione pregustava il momento in cui, lasciandosi cadere tra le braccia di Morfeo stringeva a sé la sua amata, confidando nel potere di quell’intimità nella quale ritrovava ogni notte la forza per superare gli ostacoli che quotidianamente doveva affrontare.

III

GERLA è il nome derivato dalla cesta di vimini intrecciata e strumento indissolubile della vita del passato, portato a spalla con due cinghie generalmente di corda da uomini, donne e bambini di qualsiasi età. La sua funzione è quella di permettere la raccolta e il trasporto di tutto il necessario alla vita contadina.

Con una metafora romantica, più di venticinque anni fa, Vivienne decise di chiamare così l’agriturismo, proprio come una gerla che raccoglie diversi tipi di legna, di foglie o fieno, così la struttura avrebbe dato ospitalità a persone con esigenze diverse, e grazie alla sua buona cucina e a un ambiente accogliente, le avrebbe trasportate in una dimensione di gioiosa serenità. Il nome dell’agriturismo è divenuto con il passare del tempo indissolubile da quello del paese di Fobello, facendo sì che i turisti proprio motivati dall’ottimo e confortevole servizio, facessero ritorno nella piccola località montana.

La struttura non era sempre apparsa come l’attuale tipica casa Walser a tre piani, con il ristorante al piano terreno, le camere per gli ospiti al piano superiore e l’abitazione della famiglia Bernasconi nella mansarda. In origine, in quel luogo, si ergeva un vecchio e decadente fienile che apparteneva da sempre alla famiglia di Aronne. Dopo il loro matrimonio, nacque il desiderio di creare qualcosa di diverso dalla modesta locanda che offriva solo pasti caldi e alloggi in vecchie camere arredate con opprimenti armadi e datati letti in ferro battuto. Fu proprio in quel contesto che Aronne e sua moglie decisero di trasformare il vecchio fienile di famiglia in un luogo accogliente e affascinante dando vita all’agriturismo “La Gerla”.

       Quando si udì il crepitare del ghiaietto sotto le ruote della Fiat Panda comunale, Vivienne era intenta a smistare le fatture che i fornitori le avevano inviato nella settimana precedente. Aronne, giunto a casa come aveva promesso nella telefonata di venti minuti prima, era pronto a mettere comodamente le gambe sotto al tavolo senza perdere altro tempo. Vivienne lo accolse con il più caldo dei suoi sorrisi, e incuriosita dagli eventi innescati dalla riunione a Villa Lancia, iniziò a fare una serie di domande sulla mattinata trascorsa nella caserma dei carabinieri.

Aronne dopo aver dato le prime risposte disse:

«Amore, adesso pranziamo, sto morendo di fame. Il resto lo affrontiamo con calma più tardi.»

Sapevano entrambi quanto fosse importante per la figlia il momento del pasto, come gli psicologi avevano ribadito più e più volte.

«Valeria, vieni, è pronto in tavola!» disse ad alta voce Vivienne.

Dal breve corridoio che portava alla zona notte, si udirono gli scricchiolii provocati da un passo leggero sulle tavole di legno.

«Ciao papà come è andata in caserma?» La secondogenita, salutò il padre abbracciandolo da dietro con le sue braccia lunghe e sottili.

«Ragazze datemi un attimo di tregua, ho una fame che mangerei anche un bisonte. Dopo vi racconto tutto ma ora ho in mente solo di finire il mio piatto di spaghetti.»

Il pasto venne consumato con tranquillità, ridendo anche parecchio, soprattutto quando Aronne spiegò che i carabinieri la sera prima avevano dovuto dividere due attivisti appartenenti ad un’associazione dal nome impronunciabile, che si stavano azzuffando tra loro accusandosi reciprocamente di non fare gli interessi del pianeta, ma di volersi solo mettere in bell’evidenza.

«Dai papà non dirmi che non avresti voluto lanciarti anche tu nella rissa, anche solo per rivivere le scazzottate che facevi da ragazzo!» lo punzecchiò Valeria.

«Ormai sono vecchio per certe cose, a eccezione di quando vedo come si vestono i tuoi amici, allora lì si che sento ancora tutta l’energia del passato…» con ironia Aronne ribatté alla provocazione.   

Anche se la situazione ad oggi era notevolmente migliorata, il tempo impiegato per il pasto pareva ancora infinito; Valeria divideva in piccolissimi pezzi il cibo masticandolo al pari di un chewing gum prima di inghiottirlo.

Dopo il caffè la tavola al centro della cucina venne sparecchiata dalle due donne che si fermarono ancora un po’ a chiacchierare, Valeria non doveva essere lasciata sola, era fondamentale impedirle di isolarsi.

In casa era normale affrontare i problemi apertamente e anche se Martina, la primogenita, si era trasferita in Spagna per seguire un corso universitario, la sorella le permetteva di essere sempre aggiornate su ciò che accadeva a casa. In lunghe telefonate si scambiavano i dettagli, da una parte della piccola comunità montana e dall’altra dell’effervescente vitalità madrilena.

«Siamo di fronte a una grossa sfida, ma sicuramente con l’impegno di tutti noi supereremo anche questa difficoltà.» il tono di Aronne si era fatto serio mentre con il cucchiaino giocava ancora con il fondo di caffè rimasto nella tazzina.

«Enzo, il referente della banca, mi ha contattato avvertendomi che non possiamo più permetterci sforamenti sul conto e che le future utenze rischiano di non essere pagate.»

«Papà non ci sono problemi, la mia patente può attendere.» senza esitazioni Valeria offrì il suo piccolo contributo mettendo a disposizione la modesta somma di denaro destinata all’acquisto della futura vettura.

«Ovviamente, fino a quando le nostre finanze non lo permetteranno, la scuola guida potrà attendere e io però potrò contare su un padre tassista ventiquattro ore su ventiquattro.»

A vederla sembrava poco più che una ragazzina, la lotta contro l’anoressia la faceva apparire fisicamente ancor più giovane, ma al contempo i lineamenti del viso segnati dall’eccesivo dimagrimento le davano un aspetto senile. I capelli castani, deboli e diradati erano raccolti da uno chignon e nonostante i suoi occhi sembrassero stanchi, lo sguardo lasciava trasparire una luce di vivacità. La sua figura esile e la pelle pallida erano segni evidenti della sua battaglia contro il disturbo alimentare che stava affrontato trovando la capacità di intraprendere, giorno dopo giorno, un percorso di guarigione che iniziava a dare buoni risultati.

Bastò poco per diradare le grigie nubi che stavano per coinvolgere l’attività di famiglia e Vivienne contribuì a rasserenare il marito:

«Sicuramente la situazione non è delle più rosee, ma possiamo recuperare. Nonostante tutto il clamore sollevato della presenza dei lupi, stiamo avendo un discreto numero di nuovi turisti. Questa settimana, per esempio, abbiamo avuto le camere occupate e in più ieri sera i partecipanti alla riunione che hanno cenato al ristorante, ci hanno letteralmente svuotato la cantina e qualcuno ha prenotato anche per i prossimi week end.»

Aronne era sollevato dagli sviluppi che sembravano prendere gli affari, dato che temeva di dover far fronte alle spese con la vendita di parte delle vacche della stalla. Tra ipotesi di entrate economiche e progetti futuri si fecero le due del pomeriggio. Molti erano i lavori che attendevano all’agriturismo la famiglia Bernasconi, ed era indispensabile che ognuno riprendesse la propria attività, così sul tavolo rimasero i fogli con appuntate le spese da sostenere entro la fine dell’anno e, se non fossero sopraggiunti inconvenienti, le previsioni apparivano ottimistiche.

Vivienne prima di congedarsi rivolse un’ultima occhiata attenta a Valeria e stringendola in un abbraccio volle sottolineare:

«Per noi la cosa più importante è mettere entusiasmo in tutto ciò che facciamo, gli ostacoli arriveranno, li affronteremo e una volta superati magari capiremo di essere anche cresciuti nel trovare nuove strade.»

              A differenza del marito, Vivienne non era nata tra le montagne ma ci era arrivata per amore,

Aronne la conobbe a ventidue anni, in un momento in cui doveva ancora capire cosa voleva dal futuro, mentre il traguardo del suo percorso universitario in economia sembrava un miraggio ancora troppo lontano.

In questo contesto così confuso si regalò il suo primo viaggio all’estero, a Mentone sulla Costa Azzurra dove la vide per la prima volta.

Lei lavorava nel piccolo ristorante di famiglia, si occupava del servizio ai tavoli, mentre il padre e la madre erano impegnati in cucina. Fu un colpo di fulmine, capirono subito che erano destinati a stare insieme. Inizialmente intrapresero la vita da pendolari per amore; lui scendeva dalle montagne della lontana Val Sesia con la sua vecchia Volkswagen e lei lo raggiungeva dal mare in treno, dopo un viaggio infinito.

Quando il tempo trascorso tra un bacio e l’altro divenne un’eternità insostenibile, Vivienne ebbe il coraggio di prendere la decisione di cambiare radicalmente la sua vita e trasferirsi in quella remota località inseguendo il sogno del grande amore.

Richard, il padre, quando apprese della sua decisione sentì il cuore spezzarsi, anche se in fondo se lo aspettava, consapevole del fatto che la figlia era un autentico vulcano, e la realtà in cui aveva vissuto fino ad allora le era sempre stata troppo stretta.

Inizialmente appena arrivata in paese, venne identificata con l’appellativo “la francese”, pronunciato con scherno per indicarne l’estraneità a quei territori, ma dopo breve tempo, grazie alla sua simpatia e ad un gran sorriso dipinto sul volto, “La Francese” divenne il soprannome con cui la chiamavano con dolcezza i suoi amici.

Il mondo era il suo ambiente naturale; adorava viaggiare e fino a sedici anni lo aveva fatto con i genitori, poi un giorno, non ancora maggiorenne, in un momento in cui i turisti scarseggiavano, era partita con lo zaino in spalla.  In pochi anni, aveva visitato parte della Russia e s’era spinta fino ai confini delle verdi vallate Himalaiane che le erano rimaste nel cuore tanto che nei suoi progetti di vita sognava di trasferirsi nel Mustang, la più remota delle regioni Nepalesi, per collaborare con un’organizzazione umanitaria in una scuola che si occupava dell’educazione di bambine provenienti da famiglie disagiate.

Ma non aveva ancora fatto i conti con l’amore.

Nei suoi tratti trasparivano le esperienze vissute nella sua giovinezza. La figura era snella e agile, amava indossare abiti etnici, abbinati spesso a collane intrecciate e bracciali di manifattura esotica ricchi di colori. Attraverso quegli indumenti e accessori trasmetteva la sua apertura mentale verso il mondo e il prossimo; pur non rispondendo ai classici canoni di bellezza, i suoi occhi chiari ed il sorriso accentuato da una bocca troppo grande per il suo viso le donavano un aspetto solare. Il suo atteggiamento così aperto, tuttavia, le conferiva costantemente quell’ aria di non appartenenza al luogo in cui si trovava; infatti, i suoi cari ironizzavano su questa sua caratteristica appellandola “donna fuori posto”.

In realtà non era così, perché aveva trovato la sua collocazione naturale nel ruolo di madre. Martina e Valeria erano sempre al primo posto, e lei per loro rappresentava un fondamentale punto di riferimento.

IV

Il sabato mattina, come di consueto, il paese si anima grazie al mercato settimanale. La piazzetta, con il monumento ai caduti al suo centro, non accoglie molti ambulanti, ma le bancarelle presenti sono sufficienti per soddisfare le esigenze della piccola comunità ancora legata ad un passato frugale e poco incline al consumismo sfrenato che caratterizza la società moderna. Il mercato nel piccolo paese di Fobello è vissuto come un momento di incontro e scambio, in cui gli abitanti si ritrovano per fare compere, discutere delle ultime notizie e mantenere vivo il senso di comunità.

Antonietta Marangoni, l’impiegata comunale, bussò con leggera trepidazione alla porta dell’ufficio del sindaco. La sua era una bellezza naturale, indossava sempre abiti sobri, che non mettevano in evidenza le sue forme sinuose, tuttavia, il suo fascino era capace di attrarre l’attenzione di chiunque varcasse la soglia della villa municipale

I capelli biondo cenere le incorniciavano il dolce viso leggermente allungato, mettendo in risalto i lineamenti delicati e gli occhi verdi.

«Avanti» disse il sindaco con tono distratto, mentre era intento a leggere alcune relazioni ambientali riguardanti la sistemazione dell’alveo del rio Secco.

Le porte si aprirono su un ufficio elegante e ordinato, con mobili in legno scuro ed una grande scrivania. Sul muro sono appesi quadri raffiguranti paesaggi locali e fotografie d’epoca. Il soffitto, con al centro un grosso lampadario di cristallo, è affrescato a volta celeste, creando l’illusione di una stanza a cielo aperto.

«Aronne è arrivato il Comandante dei Carabinieri, Lucio Notarberardo.»

«Digli di attendere, finisco questo lavoro e lo ricev…» non fece in tempo a terminare la frase che il Comandante accompagnato da un giovane appuntato varcò la porta dell’ufficio.

«Buongiorno Aronne, si può sapere cosa state combinando su questa cavolo di montagna?»

Il comandante Notarberardo non era certo il tipo d’uomo che attendeva il permesso di essere ricevuto e senza perdere tempo in inutili convenevoli si sedette sulla sedia difronte alla scrivania. 

«Grazie Antonietta puoi andare, e cortesemente potresti prepararci tre caffè?» chiese Aronne cercando di nascondere il fastidio creato dall’esuberante invadenza del suo ospite.

«Lucio la mia gente è spaventata, guarda cosa è successo per una semplice riunione!»

«Era scontato che finisse così, infatti ti avevo consigliato di attendere almeno i primi risultati delle indagini prima di fare qualsiasi cosa!»

«E come facevo? Io non sono al tuo posto, mica posso dare un ordine e pretendere di essere ascoltato. I vostri tempi sono troppo lunghi per chi necessita di risposte e qui non faccio un passo senza che qualcuno non mi chieda cosa si è scoperto di nuovo sui Filippetti.»

Ci fu un attimo di silenzio quando Antonietta entrò con il vassoio del caffè; il giovane appuntato che fino a quel momento era distratto da altri pensieri si illuminò e non le tolse gli occhi di dosso.

«Aronne ci conosciamo da anni e mi fido di te, ma anche tu devi avere pazienza e cercare di non lasciarti trasportare dalle emozioni.»

«Qui le emozioni non contano, a cosa servono altre indagini? È chiaro che i lupi non ci temono più e quei due poveretti sono stati solo le loro prime vittime.»

L’autorevolezza del comandante era indiscussa; era arrivato tra quelle montagne al termine di una lunga carriera che lo aveva visto impegnato in missione nei più difficili conflitti armati in svariate parti del mondo. Aronne riconosceva la sua professionalità, ma non aveva alcun timore nel mettere in discussione le sue idee soprattutto quando queste ricadevano sulla comunità che lui sentiva di rappresentare.

«A giorni arriveranno i primi risultati sui campioni prelevati dai RIS, ma la scena in cui sono stati ritrovati i corpi ha diverse incongruenze con l’attacco di un unico esemplare o peggio dall’intero branco.»

Aronne fece cadere il pugno sulla scrivania scaricando così la tensione crescente:

«Ma quali incongruenze! Sanno tutti che si trovavano a terra con le gole dilaniate.»

«Bernasconi mantieni la calma! Ognuno qui deve fare il proprio lavoro e il tuo è quello di compilare scartoffie, il mio è quello di difendere le persone!» sbottò il comandante.

Ci furono lunghi secondi di silenzio, poi Lucio riprese a parlare con pacatezza cambiando discorso:

«A parte te, dopo la burrascosa riunione nessuno si è presentato in caserma. Con molta probabilità non raccoglieremo alcuna denuncia, così da lasciarci alle spalle questo increscioso episodio.»

«Sono felice che la ragione prevalga, non abbiamo certo bisogno di attirare maggiormente l’attenzione dei giornalisti sulla nostra comunità.» e aggiunse «Ti chiedo di tenermi informato sulle tue indagini e se dovessi avere bisogno di aiuto saremo disponibili a condividere ciò che sappiamo.»

Lucio Notarberardo si alzò dalla sedia seguito dal suo sottoposto e prima di congedarsi aggiunse:

«Un’ultima cosa. Mi è stato riferito del tuo atteggiamento oltraggioso dell’altra mattina nei confronti dei miei uomini. È dovere di tutti portare rispetto, in primo luogo alla nostra divisa, e anche a chi la indossa!»

«Hai perfettamente ragione, ne sono mortificato. Porgi per favore le mie scuse ai tuoi uomini, non accadrà più.»

«Non è mio compito! Ti consiglio di farlo personalmente al più presto.» concluse lasciandosi l’ufficio alle spalle.

     All’esterno della villa il sole scaldava un’aria carica dei profumi provenienti dai banchi dei prodotti alimentari, Notarberardo amava prendersi un momento per camminare tra la gente e scambiare qualche parola amichevole.

Dopo le prime strette di mano comprese appieno il disagio di Aronne, le chiacchere che generalmente si spendevano in pettegolezzi o commentando risultati sportivi oggi erano accentrate sulla morte degli anziani compaesani con continue domande sulle indagini in corso.

Si era fatta l’ora di rientrare in caserma; il fuoristrada era parcheggiato dietro la chiesa e tra le poche auto presenti riconobbe il Pick Up blu dell’azienda Rossi, con Tommaso seduto al posto di guida.

«Favorisca patente e libretto!» disse con tono autoritario il comandante mentre con le nocche batteva sul finestrino laterale.

«Ma vuoi farmi prendere un colpo?» esclamò Tommaso riprendendosi bruscamente da uno stato di torpore.

Lucio e Tommaso erano buoni amici, entrambi grandi sportivi e quando il tempo libero lo aveva permesso parteciparono ad alcune gare ciclistiche pedalando per la stessa squadra. Nonostante la differenza di età, il Comandante non dimostrava i suoi cinquantotto anni, né nel fisico e neppure nello spirito. Persino la sua vita sentimentale rispecchiava il suo entusiasmo, infatti Marta, la sua attuale compagna era la ragazza più ambita della leva di Tommaso e anche se il fascino della divisa contribuiva ad accrescere il suo carisma, chiunque al di là di ciò che indossasse poteva riconoscergli le doti innate di un vero leader.

«Ma cosa fai? Ti imboschi lasciando che sia Antonietta a portare a casa il pane?»

«Almeno! Non mi peserebbe affatto, invece sto aspettando il veterinario che come al solito è in ritardo.»

«Tommaso ma dimmi un po’: il papà ha deciso di diventare capobastone e guidare un manipolo di rivoltosi?»

«Ma figurati proprio lui, chissà cosa ti hanno riferito sulla rissa e poi se non ci fossero stati due dei tuoi ci saremmo benissimo arrangiati da soli.»

Tommaso però ci teneva a spiegare cosa intendesse suo padre quando alla riunione intervenne dicendo che i lupi non mangiano le galline.

Raccontò che la Richetta, la vicina di casa dei Filippetti, parlando con Pietro disse che quella maledetta mattina, come faceva sempre, era andata da loro a prendere le uova fresche, ma aveva notato le persiane della cucina stranamente ancora chiuse. Sicura di trovare la porta aperta era entrata in casa chiamandoli. Non ricevendo alcuna risposta, li aveva cercati in cortile convinta di trovarli ad armeggiare nel pollaio. Purtroppo invece vide i due poveretti a terra con le gole dilaniate circondati dalle loro galline anch’esse senza vita.

«Non so di preciso cosa intende il papà quando dice che i lupi non avrebbero fatto così, ma lui ne è convinto e da quell’idea non lo smuove nessuno.» e aggiunse: «Sono veramente dispiaciuto per i Filippetti, erano brava gente, li avevo incontrati una decina di giorni fa, credo che avessero perso un po’ la ragione. Avevano messo in vendita un piccolo appezzamento di bosco vicino ai miei pascoli, ho perso tempo per i rilievi e i documenti per l’acquisto e al momento della firma avevano cambiato idea.» Il discorso venne interrotto dal suono del clacson dell’auto dal veterinario, ma Tommaso prima di salutare il commissario gli fece un’ultima raccomandazione:

«Trattami bene Marta, altrimenti ti conviene dormire con la pistola sotto il cuscino.»

Gavino, che fino ad allora non aveva aperto bocca, appena Tommaso fu ad una distanza tale da non poterli udire, disse: «Signore, ha sentito? Il suo amico aveva avuto rapporti con la coppia, dovremmo approfondire i loro rapporti»

«Gavino, sei un genio, invece di farmi da autista ti propongo a capo dei RIS.»

«Ma perché, ha sentito anche lei le sue parole!» rispose capendo l’ironia.

«Se dovessimo indagare su tutti coloro con cui i Filippetti avevano avuto contatti dovremmo arrestare tutti! Piuttosto vai avanti ad indagare sul fondoschiena dell’impiegata comunale, ho visto come la fissavi prima, ma stai attento a non farti scoprire, è la compagna di Tommaso e non ne sarebbe felice.»

V

«Tommaso, hai mai pensato di mollare tutto?» chiese Antonietta, con lo sguardo perso sulla linea dell’orizzonte dove il cielo si fondeva con il blu del mare.

Erano trascorsi tre anni dall’ultima volta in cui avevano fatto una vacanza così, sfruttando un impegno nell’entroterra ligure fissato per il lunedì successivo, si erano concessi un fine settimana di svago in Liguria, lontano dai loro mille impegni quotidiani.

«Neppure una frazione di secondo in vita mia, e tu?» rispose, senza staccare lo sguardo dalla strada.

«Solo un milione di volte, ma dove vuoi che vada senza di te!»

«Da nessuna parte! Anche perché con me puoi dire di aver vinto alla lotteria.» le rispose ridendo Tommaso.

Era vero. Lei infinite volte aveva considerato l’ipotesi di cambiare vita e in alcuni momenti ricordando la morte di Laura, la sorella maggiore, aveva anche pensato di farla finita con la vita stessa, ma Tommaso le era sempre stato vicino facendole trovare la forza giorno per giorno di andare avanti.

Quando ricordava il loro primo bacio, scambiato sulla corriera che li portava a scuola a Varallo, il viso le si illuminava ancora. Pur essendo trascorsi più di vent’anni, il ricordo era ancora vivo come se fossero passati solo pochi giorni.

    Arrivati nella pensione con vista mare in cui avrebbero alloggiato, Antonietta non fece in tempo ad aprire la valigia per riporre i suoi vestiti nell’armadio, che Tommaso le era già addosso. Iniziò baciandola con ardore, cercando con le sue grosse mani di slacciarle la camicetta, anche se quei piccoli bottoni gli sfuggivano continuamente. Desiderava il suo corpo con la stessa intensità con cui un assetato cerca di abbeverarsi da una fresca sorgente. Il suo impeto era sempre il medesimo, l’attrazione con il tempo non si era mai minimamente attenuata, tutto era come la prima volta. In quel momento non esisteva più nulla e nessuno al di fuori di lei.

Antonietta delicatamente prese ad accarezzargli il sesso eccitato; con lenti movimenti iniziò a baciarlo, facendogli percepire il calore della sua bocca. Le loro mosse proseguirono come in un copione già recitato più volte senza mai nessuna variazione. Quando il piacere giunse al culmine, lei gli si mise sopra facendo in modo che i due corpi diventassero una sola cosa. Negli anni aveva imparato a simulare alla perfezione gemiti che riuscivano a portare all’apice dell’appagamento fisico il compagno che, compiaciuto, la stringeva a sé in un abbraccio che sarebbe anche potuto durare per ore.

In quella stretta, Antonietta aveva imparato a sopportare silenziosamente il suo dolore. Si sentiva lacerata, come se il suo ventre venisse forato da centinaia di spilli, ma aveva fatto suo quel momento, vivendolo come una sorta di sacrifico da sopportare che l’avrebbe purificata da chissà quale male commesso.

In passato diversi erano stati i medici che avevano esaminato la sua situazione e tutti erano giunti alla medesima conclusione: fisicamente non vi era alcun problema, era in buona salute, quel limite dipendeva solamente dalla sua parte emotiva. La psiche manteneva tenacemente il controllo, irrigidiva tutti i nervi del corpo, a tal punto da renderle doloroso un atto d’amore che dovrebbe essere fonte esclusiva di sensazioni di piacere fuori da ogni controllo razionale.

Tommaso era al corrente solo di una piccola parte del problema, e non immaginava che l’atto sessuale le causasse un tale dolore. Altrimenti non si sarebbe mai più permesso di sfiorarla e ciò, nonostante tutto, era l’ultima cosa che Antonietta desiderasse.

Il sole splendeva alto nel cielo, l’aria era tersa e nulla pareva poter turbare la quiete di quel caldo pomeriggio.                                                 

La palla volava da una parte all’altra e i punti venivano segnati con un gessetto sul selciato difronte alla chiesa.

Un colpo più potente degli altri la spedì oltre la corda che delimitava il cantiere del nuovo parco giochi. «Laura la prossima volta non riuscirai a schivarla!» le urlò la sorellina. Lei scattò per recuperarla e la afferrò, incurante della sabbia appena scaricata dalla ruspa.

«Adesso vediamo se ridi ancora!» gridò ad Antonietta mentre era intenta a prendere la mira per il nuovo lancio, così tanto concentrata da non rendersi conto di ciò che stava accadendo intorno a lei.

Non si accorse neppure del cingolato che le stava manovrando troppo vicino.

«Noo Laura rispondimi non fare così, dai rispondimi! Laura rispondi, ti prego rispondimi!»

«Anto è un incubo svegliati. Svegliati, svegliati!» la stava esortando Tommaso scuotendole il braccio.

Era il suo incubo ricorrente. Quante volte nella notte si era trovata a risvegliarsi ansimante tra le lenzuola bagnate di sudore, nel rivivere con assoluta lucidità lo strazio che le aveva cambiato la vita. Lei era presente quel giorno maledetto. Aveva assistito ad una scena a cui nessuno dovrebbe mai prender parte, tanto più una bambina di sette anni.

Quelle immagini, perseguitavano Antonietta da trent’anni accompagnate dal senso di colpa per non essere riuscita a salvare la sorella.

«Tommaso non riesco a sopportare tutto questo! Aiutami!» disse tra le lacrime stringendolo con tutte le sue forze.

Come sempre le prime luci del mattino scacciarono gli incubi notturni e le lunghe passeggiate in riva al mare contribuirono a diradare i mille pensieri della quotidianità.

La parentesi di relax era già arrivata al termine e Antonietta si era svegliata quando ancora in cielo potevano scorgersi le ultime stelle. Accoccolandosi sul balconcino della camera a godere del sorgere del sole, con lo sguardo rivolto all’infinito blu dell’orizzonte, dove mare e cielo si univano in una sinfonia di sfumature da togliere il fiato.

Una riflessione la spinse a considerare come, vivendo da sempre tra i monti, non avesse mai avuto la possibilità di perdersi nell’orizzonte, e forse questa limitazione aveva condizionato anche il suo modo di concepire il mondo, fatto di barriere e netti confini.   

Tommaso le arrivò silenziosamente alle spalle.

«Buongiorno amore, stavo proprio pensando che qui non ci vivrei neppure se mi pagassero per farlo!»

«Perché, non ti piacerebbe diventare un coltivatore di basilico?» Antonietta chiese con ironia.

«Quello sarebbe il minimo, ma pensa quanto è limitato il mondo di chi vive di fronte al mare, è

come se le persone fossero confinate in un luogo in cui la terra finisce davanti ai loro piedi, dove le onde si infrangono sulla spiaggia.»

Antonietta sorrise pensando a quanto fossero differenti i loro punti di vista, consapevole del fatto che osservavano la realtà con sguardi diametralmente opposti. Erano come le facce della stessa moneta, speculari, ma unite in un unico corpo indivisibile.

«Qui però non devono temere il lupo. Adesso non mi sento più sicura neppure per le vie del paese.»

«Stai tranquilla, prenderanno provvedimenti per la nostra sicurezza. Altrimenti comunque in un modo o nell’altro qualcuno penserà a risolvere la situazione.»

Le parole erano chiare e si riferivano alle voci che iniziarono a circolare, subito dopo il ritrovamento dei Filippetti, al bar “I Viandanti” dove alcuni cacciatori non estranei alla pratica del bracconaggio discutevano su come poter tendere una trappola al branco di lupi presente in valle.

Sul tavolino rimasero solo le briciole della focaccia accanto al suo tovagliolo dipinto da aloni d’olio, era stata l’ultima colazione consumata in riva al mare.

Bisognava ritornare alla vita di tutti i giorni, ma prima di riprendere la strada di casa dovevano far tappa nell’entroterra per raggiungere l’allevamento cinofilo dove una coppia di cuccioli li stava attendendo. Tommaso aveva partecipato ad un progetto promosso dalla comunità montana che stanziava un fondo per l’acquisto e l’addestramento di cani di razza maremmana con l’intento di difendere il bestiame dagli attacchi dei lupi. Il coraggio e l’aggressività di questa razza erano doti innate che la rendevano la più adatta a questa mansione.

             Una serie di serragli costruiti con reti metalliche elettrosaldate coperti da tettucci in lamiera ondulata, facevano capire di essere giunti a destinazione. Un uomo scarno e dal volto severo li stava attendendo inquieto sulla porta di un vecchio container da cantiere allestito ad uso ufficio; la zona circostante l’allevamento appariva come il set cinematografico di un vecchio film western. La vegetazione era brulla con qualche pianta di basso fusto sparsa qui e là in una radura color ocra.

Dopo un fugace scambio di convenevoli entrarono nel prefabbricato per compilare i numerosi moduli indispensabili affinché il finanziamento potesse farsi carico delle spese e dopo una serie infinita di firme l’addestratore, soddisfatto per aver terminato quelle noiose incombenze, con leggero tremito e le dita macchiate di nicotina si portò la sigaretta alla bocca, quindi la accese ispirandone il fumo come se fosse stato ossigeno vitale.

«Aspettatemi fuori, vado a recuperare i vostri cani.» e senza neppure attendere che si alzassero dava già loro le spalle.

Antonietta non vedeva l’ora di poter stringere i “suoi” cuccioli e quando li vide arrivare saltellando festosi si sciolse completamente, si inginocchiò e quelle due piccole palle di pelo le fecero una gran festa.

L’allevatore in tono brusco la riprese:

«Questo è ciò che non deve mai essere fatto! È estremamente importante educare l’animale ad essere ubbidiente senza snaturare la sua aggressività.»

Spiegò che una volta cresciuti, quelli che oggi erano mansueti animali da compagnia, potevano diventare una pericolosa minaccia per gli estranei che si trovavano a transitare in prossimità della mandria, in quanto il loro senso di protezione poteva degenerare portandoli ad attaccare anche semplici escursionisti di passaggio. Era di fondamentale importanza che il loro conduttore avesse il controllo sul loro temperamento facendosi riconoscere come leader.

L’attenzione di Antonietta durante il viaggio di ritorno fu completamente dedicata ai due vivacissimi cuccioli pregando addirittura il compagno affinché dopo un bel bagno li lasciasse dormire con loro.

Tommaso, silenzioso alla guida del Pick Up, tradiva nel profondo dello sguardo una certa tristezza.

Sognava di poter vedere un giorno la compagna così coinvolta emotivamente non nei confronti dei due cuccioli, ma immaginandola tenere tra le braccia il frutto del loro amore.

Più volte le aveva espresso il desiderio di poter avere un erede, ma le risposte ottenute erano sempre state vaghe, motivate dal fatto che non fosse ancora arrivato il momento giusto. E intanto gli anni passavano inesorabili.

In fondo al cuore, era ormai rassegnato al fatto che quel momento non sarebbe mai arrivato, perché la vita ad Antonietta, oltre ad averla privata di una sorella, ne aveva anche compromesso quel senso materno fondamentale per sentirsi capace di portare in grembo una nuova vita.

Le ferite del passato, si erano insinuate in lei creando una barriera che arginava la sua capacità di amare, Tommaso lo aveva compreso e proprio in nome dell’amore che lui provava nei suoi confronti, lo aveva faticosamente accettato.

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Paolo Milanesi
Ho 45 anni e vivo nella pianura lomellina, dove lavoro come tecnico in agricoltura. La natura è parte della mia quotidianità: la osservo, la ascolto, la rispetto. Nel tempo libero curo le mie api, piccole compagne silenziose che mi insegnano equilibrio e pazienza. Amo la montagna e, quando cammino tra le risaie, alzo lo sguardo verso il Monte Rosa: il suo profilo maestoso mi richiama come una promessa di libertà. Leggere, per me, è viaggiare e crescere. Adoro i romanzi, in particolare lo stile diretto e asciutto del nord Europa, ma sono i saggi a travolgermi davvero: più scuotono le mie certezze, più mi ci perdo volentieri. "L’ombra del lupo" nasce da tutto questo: l’osservazione della realtà, l’amore per i luoghi, il bisogno di interrogare ciò che spesso viene taciuto.
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